Concerti dovunque

Sixto Rodriguez – una recensione non direi

Rodriguez, Firenze, simone lisiUltimamente con Flavio andiamo solo a concerti di gente over 70.
Sarà perché una mattina Vasco Brondi si svegliò ed era diventato Vasco Rossi. Non si sa.

Fatto sta che poi a questi concerti di ottuagenari riusciamo anche a divertirci e i nostri commenti suonano più o meno così:

-Certo che l’età pensionabile si è alzata parecchio
-Si aggira lo spettro del playback
-I musicisti di Sixto Rodriguez sono anche i suoi badanti
-Il braccio destro non lo usa, guarda come è flaccido in confronto al sinistro
-Ma ti sembra che muova la bocca, perché a me no
-Guarda il piede, come lo usa per fare perno

Durante il concerto mi distraevo e pensavo al significato del nostro ascoltare quei vecchi e la risposta che mi davo era che in fondo si trattava del nostro senso di colpa deviato, per non aver mai dato retta ai discorsi dei nostri nonni, essercene sempre fregati dei loro discorsi.
E ora, eccoci tutti quanti là.

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Concerti al Volume

Setti al Volume

Setti, Volume, FirenzeMare, che canzone hai fatto Setti, Nicola.
“Lo sai che noi non siamo persone, siamo relitti di una nave, sopra i tetti delle cose, tu, per me sei come il mare”
Qui, nel dopo sbronza −Sì, forse abbiamo un problema alcolico− mentre piccoli esseri, si direbbero bambini, ma sono dei mostri rumorosi, sono come quelle formazioni rocciose alte centinaia di metri che stanno su Solaris, si muovono in maniera insicura di fronte a me dentro al bar in cui vado a scrivere al mattino, io ascolto con le cuffie a tutto volume la musica di Setti, perché sto cercando di scrivere qualcosa su Setti e ascolto per coprire i rumori dei bambini, ma anche perché ormai sono un professionista assoluto del giornalismo, lo sai, e arrivo sempre a queste cose iper preparato.
Così nel dopo sbronza, possibile -mi domandi- sbronzarsi di mercoledì?, ma non c’è nessun tu, mi diceva Setti, quando in “Mare” utilizza il “tu”, beh, quel tu non c’è.
Setti, andiamo a sentire questo ragazzo un filo triste, cosa c’è?, gli domandavo. Non sei contento? Perché sei giù? Cos’è, domandavo, esistenzialismo? Lui allora mi guardava scuotendo la testa, no, non è quello, diceva.
Il concerto al Volume di Setti: era onesto, una chitarra e una voce, la sua, di Setti, semplice non lo so, so che lui scriveva qualche ora prima, su Facebook: “Non sono figo nemmeno in treno con un chitarra elettrica. Sembro un rappresentante di chitarre”.
Gli domandavo allora di Modena, del suo lavoro, fare il tuttofare in un cinema e quello più recente nei corsi di formazione, i suoi trent’anni, dei suoi gusti musicali, la situazione che aveva intorno, come e quando scriveva le sue canzoni, la maniera in cui era uscito fuori quel suo singolo, e l’album nuovo che avrebbe parlato di violenza e di impiegati alle poste, e l’album vecchio invece, di come erano andate le cose.
Ma malgrado tutte queste domande io non riuscivo a capire Setti, cosa avesse, perché fosse un filo preso male, non tanto, ma un filo, se fosse un atteggiamento nei confronti della vita, e se sì, della vita di chi.

Andando verso casa basculante domandavo a Gioacchino se mi dava una chiave di lettura e lui mi parlava di Chicago, quindici anni fa, che per lui Setti era nostalgia di un posto dove non era nemmeno mai stato, dove forse abitava suo fratello, dove tutto era identico, bambini alti centinaia di metri, dove la gente parlava un’altra lingua, come noi, del resto, che pure ci parliamo.

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Concerti dovunque

King Khan And The Shrines live @ tender:club

King Khan, simone lisi, VolumeRiprendo in mano i miei appunti sul concerto di venerdì e vorrei scrivere in un italiano elementare, per poter poi essere compreso da lui, da King Khan, che pure qualche parola e idea dell’Italia doveva averla. Bestemmiava, citava Pasolini, voleva che le persone del pubblico formassero un qualche coro su Salò, ma non conosceva l’accento esatto, King Khan, così lo chiamava semplicemente Salo. Di conseguenza si creava dell’incomprensione, tra lui e il pubblico, l’incomprensione degli inizi, quando si entra al Tender e si attraversano veloci le zone con le luci viola nemiche della forfora, quando si arriva al Tender e ci si domanda quale sia il target della serata e in generale di quel posto.
King Khan, leggo sul mio quaderno degli appunti:
“Che i suoi capezzoli fossero asimmetrici questo era l’ultimo dei suoi problemi”. Infatti il cantante era senza maglietta, solo un mantello e una maschera messicana, per il resto vari tatuaggi e quel suo corpo asimmetrico. Ma non sembrava farci caso.
“Tu chiamalo se vuoi rock, io lo chiamerei Aldo Palazzeschi”
Trascrivo questa frase apparentemente senza senso e mi domando quale connessione neurale avesse fatto il mio cervello, ma forse era semplicemente la grappa cinese, al bambù, mischiata con birra, con jack daniels e coka, e con altra birra, che mi portava a dire quello.
“Non si può fingere con King Khan, con lui si è ciò che si è”. La sensazione che ho, riprendendo in mano questi pochi appunti di venerdì, è di una certa confusione, che si diffondeva tra me e il pubblico, tra i bicchieri di birra vuoti o semi vuoti che volavano, del ritmo sincero e marcio di quella serata, basculatoria, che per me era omaggio a una serata personalmente mitica a cui ero assente, ma a cui prese parte tutto il mio mondo, a Venezia, su una barca e che potrebbe essere forse paragonata in letteratura alla notte di Valpurga, ma su cui ovvio non dirò qui una sola parola.
Me ne andavo via con molta incertezza, il clima rigidissimo di quei giorni e la sensazione che se King Khan ci inchiodava a ciò che eravamo, io allora ero un mezzo sbronzo che vagava solo, verso casa.

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Concerti dovunque

Cocorico a Bologna (Venti anni di Memorabilia)

Cocorico, simone lisi, memorabiliaDopo dieci minuti netti dentro l’Unipol Arena, Riki aveva già perso il portafogli mentre io il biglietto del guardaroba. Sarei tornato a casa senza giubbotto, ma si proceda con ordine.

Alcuni giorni fa il mio amico che chiameremo semplicemente A. mi domandava di accompagnarlo a una serata per il ventennale di Memorabilia. Organizzata dalla celebre discoteca Cocoricò di Riccione, si sarebbe svolta per l’occasione a Bologna, Unipol Arena. Accettavo, salvo poi pentirmene immediatamente.

Il Cocoricò, come a dire, la giovinezza che non vissi mai. Nel ’95 era già tutto finito: Riccione, la piramide, i voli charter diretti da Londra, il primo Moby. A me sarebbe giunta come un’eco, come un riflesso di luce laser specchiata in scimmiette e simboli, nei racconti di qualche tamarro che conosceva qualcun altro che c’era stato, al Coco.

Poi una sera di gennaio siamo partiti da Firenze in quattro, e dopo un’ora eravamo già persi allo svincolo di Casalecchio. Superavamo indenni i posti di blocco delle volanti. Posti di blocco ovunque. Dentro al palazzetto era una sorta di incubo, con musica e luci laser e gente che ci passava accanto chiedendo: Emme-Di-Emme-Di-Emme-Di-Emme-Di. Poi la musica e i nomi dei dj storici e i figli, e i figli dei loro figli, come nella mitologia greca. Sullo sfondo l’enorme piramide ricostruita sul palco.

Abbiamo bevuto, ci siamo drogati, abbiamo ballato fino alla fine della serata. L’impatto di quella cosa era a tratti spaventoso per chi come me aveva quasi mai fatto niente del genere. Che potesse degenerare, che potessero scoppiare risse, che se mai mi fossi sentito male nessuno mi avrebbe aiutato. Ma a tratti era tutt’altro, era incredibile.

Partiva l’inno d’Italia, qualcuno faceva dei saluti romani, ma erano una netta minoranza. La maggioranza era gente normale, magari sù di giri, di età varie che semplicemente ballava, vestiva come se fosse il novantasei, alcuni direttamente senza maglietta, ma alla fine di gente smostrata ce n’era poca, si concentravano sotto cassa, mentre noi ci mettevamo un po’ defilati. Stavamo là a bere qualcosa gin-tonic-vodka-lemon e il tempo semplicemente passava.

A. sembrava così felice di essere là ed ero felice pure io, ma non credo fosse per la droga chimica, o almeno non solo per quello, era per un altro motivo che adesso non ricordo. Dopo qualche ora Dj Cirillo salutava tutti, mentre un vocalist che aveva sottolineato certi momenti patici, ci guidava alla riaccensione delle luci.

Io non lo so cosa sia il Cocoricò e cosa rappresenti. Cosa abbia rappresentato. Come un punto di incontro, uno snodo nella vita di molte persone. Un’avanguardia o una fine. L’ho chiesto ad A. ma non ricordo cosa ha risposto, ha fatto un giro di parole, mi ha detto vieni giudica te, ma considera che è cambiato quasi tutto, forse quello che cercavo non esiste neanche più.

Tornavamo a casa che aprivano i bar e i giornalai, le strade erano deserte, senza portafogli, senza giubbotto, con il freddo addosso, con ancora una certa energia a livello delle spalle, dei trapezi, sarà stata la droga chimica, ma io credo di no. Era piuttosto un’energia accumulata dai corpi, dalla musica ascoltata, dai kilometri e dalla visione di A. che ballava in controluce.

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Concerti al Volume

Flavio Giurato @ Volume

Giurato, Volume, Firenze, simone lisiFlavio Giurato, a non sapere né leggere né scrivere, mi ricordava le Luci della Centrale Elettrica, con la differenza che lui era bravo. “Centocelle” gli usciva fuori benissimo ed era un mezzo miracolo; forse la migliore interpretazione di sempre. Se Flavio non si ricordava più i testi delle sue stesse canzoni, c’era uno nel pubblico che li ricordava per lui. Gioacchino Turù si metteva a fare le foto col cellulare, e allora voleva dire che le cose stavano andando bene: era come ammettere di dover filtrare con lo strumento.

Poi lo svolgimento della serata un po’ si sfaldava in una favola senza capo né coda e Flavio cantava “Walterchiari” per recuperare e far contento Damiano, seduto in prima fila. I pezzi dell’album nuovo occupavano la sua mente: sillabe mistiche, i pazzi, Majorana in traghetto da Napoli a Palermo. Alternava la sua dizione pulitissima con un romano sbiascicato: interruzione tra vernacolo e vernacolo, tra poesia e poesia, tra spiegazione di come si lancia una palla da baseball, come la lancerebbe un interno, in cosa consiste un lancio “full extension”. Perché ci raccontava quella storia? Non chiarissimo.
Poi diceva: Facciamo una pausa?
(Flavio non lo sapeva che le pause ai concerti non si fanno, mai, che la vita non ne contempla, di pause, ma poi mi dicevo anche: ma questo che vuol dire, che importanza ha?)

Uscivamo tutti fuori a fumare le sigarette, anche i due ragazzi che lo accompagnavano con il basso e il tamburo e che sorridevano sempre (sembravano i due aiutanti di K. nel Castello, e quando prima del concerto gli avevo parlato di qualche cosa super scontata romana tanto per trovare un appiglio, loro non avevano letteralmente idea di cosa io stessi dicendo), mentre uscivamo fuori a fumare già partiva dentro al Volume una musica del presente. Il concerto era finito.
Io pensavo di sfuggita che era assurdo e un peccato che lui non fosse riconosciuto tra i maggiori cantautori italiani, come un Dalla o un Battisti. Meglio per lui, perché sarebbe stato morto.
Poi erano le due. Andiamo a dormire, gli dicevo, ti cambio le lenzuola. Ma no, ma lascia stare, rispondeva lui, e grazie di ospitarmi.

Quando poi alla sera tornavo a casa dopo la giornata in ufficio, Flavio Giurato aveva lasciato il letto rifatto.

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Concerti dovunque

Diaframma @ Flog Poggetto, Firenze

Fiumani, Diaframma, Simone LisiFiglio spurio di piazza Dalmazia, caro agli dei, Fiumani, come farai questa mattina a uscire di casa e comprare il latte pure tu? Con il tuo ciuffo argentato e una faccia patibolare, questo è certo.

Il concerto partiva male, spigoloso, ma poi invece diventava qualcosa di bello, con la gente sotto il palco a pogare e la musica davvero in grado di accorpare quel gruppo eterogeneo, di cinquantenni, quarantenni e quasi trentenni come me, diaframmisti di ritorno, figli dell’ultimo colpo di reni del gruppo, nel circolo di morte e rinascita che vivono tutte le cose.
Ma quando partivano “Vaiano”, “Diamante grezzo” e, infine, “Gennaio”, noi là nelle ultime file smettevamo di pensare al Fiumani degli Ottanta, che avrebbe dovuto ma che non se ne era mai andato, uno che aveva creato un gruppo musicale al liceo e poi le cose gli erano semplicemente sfuggite di mano, con quei testi da bambino delle elementari. Smettevamo di pensarlo e ci convincevamo che c’era tutt’altro: come un nucleo problematico che dice qualcosa di questa città, della provincia e non solo di certi anni passati, semmai del passare degli anni; ed era sorprendente rendersi conto che Fiumani era tutt’ora un figo assoluto, uno che ancora resiste (nel suo essere antipatico, certo), che si ostina. E le cover che gli hanno chiesto di fare non ha voglia di farle, perché lui ha le sue canzoni, il suo modo, nient’altro.

Cosa ne sarà di questa tua domenica mattina? E se questa specifica mattina magari stai dormendo, Fiumani, mi domando: il tuo lunedì?

W Diaframma.

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Concerti dovunque

Ismael Circus @ Combo Social Club

Ismael Circus, Combo, Simone Lisi

Chiedevo a Fede se il bassista avesse qualche problema o disturbo o paresi (era solo una nota cinica derivante dal mio vecchio amico Cecco che non vedevo da cinque anni almeno, un modo di difendermi attaccando, il cinismo, un atteggiamento in definitiva di destra, quindi negativo) lei mi diceva: macché cavolo dici lui e in generale tutti e tre sono bravissimi, sono il mio gruppo preferito, li vado a vedere ad ogni concerto che fanno, esco praticamente di casa solo per andare a sentirli suonare.
Al che il mio discorso era finito.
Era vero, comunque. Gli Ismael Circus erano bravissimi e il loro jazz tecnicissimo quasi progressive in concerto al combo: niente da dire, bravissimi.

Eppure il mio vecchio amico Cecco che si era lasciato dalla fidanzata dopo una vita e che aveva smesso di cedere al cinismo era lontano semplicemente altrove, tutta una serie di progetti, di vorrei, che dovevano diventare atto, adesso quasi lo capiva. Io ascoltavo il concerto e mi fissavo sulle faccette del bassista e capivo a mia volta che erano qualcosa che mi infastidiva perché parlavano a me, dicevano qualcosa a me e allora me ne restavo zitto accanto al vecchio amico del passato e poi gli dicevo: ce ne andiamo?
In motorino verso casa ricordavamo di una volta, sullo zip piaggio 50, sempre in via Mannelli, che i tifosi della Triestina calcio ci avevano sputato addosso, per nessun motivo particolare. All’epoca non avevamo neanche il parabrezza.

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Concerti al Volume, San Frediano (2013-2015)

Uyuni al Volume

uyuni, Volume, Firenze, simone lisiGli Uyuni erano in ritardo di ore, per la cena: colpa di Gioacchino, pensavo io, e non del sound-ceck. Così che alla fine, con il mio coinquilino Lapo avevamo deciso di non aspettarli e di mangiare. Dopo arrivava Giulia e anche tutti gli altri. Mangiavamo hamburger e insalata comprati da me alla Conad e cucinati da Lapo. Il cibo era bastato per tutti. Poi eravamo scesi.

Iniziava il concerto e io dicevo piano in un orecchio a Lapo: «Vedi come risulta chiaro chi è il leader, quello con gli occhiali, come ha detto di chiamarsi? Poldo,Ponio, Lompa, e retrospettivamente lo si sarebbe potuto capire anche durante la cena che fosse lui il leader, quello che poi era scivolato via, quello preoccupato, quello che a breve sarebbe partito per Londra. E non il sosia del nostro amico Niccolò Francolini, il batterista, e neppure la tastierista, non loro che dicevano: – Beh lui se ne andrà a Londra, a raggiungere la sua ragazza. Che vada».
E Lapo diceva: «È vero, a posteriori capisco che lui fosse il front man, ma prima no, durante la cena non avrei saputo dirlo».
Chi aveva ragione?

Poi il concerto al Volume e gli Uyuni erano molto bravi, davvero bravi, e quella sera la cornice del Volume era ai suoi massimi livelli di splendore, come non capitava da tempo. Con alcuni ragazzi americani che si esaltavano in prima fila perché si sentivano come a casa, ma una casa immaginaria. Uno di loro con i lunghi capelli che diceva solo alcune frasi in spagnolo (¡Diez mas!) si era messo alle spalle del Bompa e ballava come se fosse da solo in una stanza, come vorremmo ballare tutti, ma non possiamo. Poi c’era Doriano, maestro di scacchi con occhiali da sole di notte, come Mastroianni, che batteva le mani sul tavolo a un ritmo esclusivo suo, e infine quelle due milfone che ci puntavano, come mi diceva Lapo, e io neanche ci avevo fatto caso, solo quando me lo faceva notare lui. E pensa che dieci anni fa neanche esisteva il concetto di milf, noi avremmo parlato forse di donne agé, e forse non avremmo visto niente perché non esisteva il concetto.

Poi, dopo il bis e il tris, il concerto era finito. Salutavo tutti e me ne tornavo a casa.

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Concerti al Volume

I Piedi

I piedi, volume, firenze, simone lisi

I piedi sono una formazione casuale nata dall’unione sommaria di Alunni Michele e A********a Giacomo, entrambi residenti nella provincia di Firenze. Per quanto riguarda il primo, l’Alunni, ho scoperto tramite social network che ha frequentato il terzo liceo scientifico fiorentino, che porta il nome del fondatore del partito comunista italiano. Liceo che tra parentesi ho frequentato pure io, in altri tempi, tra fortune e sfortune alterne, che adesso ha poco senso ripercorrere, ma mi serve per dire che so da dove viene Alunni, lo so benissimo, conosco i gradini il cancello i cicchini la mattina e perfino la tipa che gli ha fatto i panini: si chiamava La Lidia. Il più buono era quello con la salsa, una salsa segreta che lei stessa, si dice, secernesse del suo tessuto adiposo. Comunque.

Per quanto riguarda l’A********a c’è poco da dire, so tutto di lui, conosco le sue debolezze, i suoi pregi, le sue ambizioni e vi assicuro che non c’è niente di buono, o forse qualcosina, un certo pressappochismo tutto italiano, piccolo borghese, ma ha dalla sua un certo talento, un certo genio, un certo buon gusto, non decenza, ma lentezza. Sull’incontro di Alunni e A********a non si sa quasi nulla, si incontrarono una notte dentro al Tabasco Club, un noto locale fiorentino e si guardarono attraverso la stanza affollata e attraverso i corpi sudati e turgidi e si riconobbero come fratelli, come un corpo solo, come all’esame di maturità a Mama’s Bakery e la lezione di filosofia ripetuta con scarsa scarsissima convinzione mangiandosi le sigarette coi denti piuttosto che fumandole davvero, comunque se ci penso che i martedì al Volume sono finiti e sono finiti in questo modo non so se lasciarmi prendere dallo sconforto o da una certa euforia, dovuta al caffè senza dubbio che si affolla nelle arterie.

Finisce bene, finisce male, diceva Brace in una precedente edizione della rassegna musicale, in cui io ancora ero semplicemente di là da venire, e finisce aggiungerei io tutto storto come era giusto che fosse, non finisce neanche di martedì, ma di mercoledì, perché la data è stata rimandata senza addurre ragioni di sorta, solo un messaggino sul cellulare che diceva: concerto annullato, rimandato a domani, avverti chi puoi. Solo questo e poi una serie di messaggi collaterali, infamanti, perché a me le abitudini servono e non possono mica esse, le abitudine, opporsi al loro normale fluire come tali. Così questo non è il mio solito mercoledì dopo il Volume, dopo il whiskey mas barato, è un lunedì generico come se io cominciassi la settimana con gli impegni abbandonati in settimana per la strada, nella piazza non svuotata per la non pulizia della strada, ma riempita di persone che non volevo incontrare, certamente, per la notte bianca che era diventato lo scenario del concerto dei Piedi.

Hanno suonato al Volume i Piedi, dentro a una tenda Quechua, hanno suonato musica noise, inascoltabile a tratti e a tratti molto bella, ho visto soltanto il volto di Alunni, perché A********a quando non suona come Gioacchino Turù, così dice con una punta di sciovinismo, non guarda mai quello che fa, provetto Orfeo della musica, già che Euridice stava tra il pubblico a bersi un long island e ci si salutava come se non ci conoscessimo o quasi, ma era solo la mia serata storta, con le mie piccole beghe indicibili, di una serata sociale socialissima ma con la mia persona più cara a fianco che voleva che io escludessi tutto per lei, e io le dicevo, guarda va bene, ci sto, ma proprio adesso? Così mi mettevo sulla poltrona piccola e non ingombrante del volume e stavo tra lei e Silvia e più avanti Orfeo nella Quechua e Alunni e Fuori sulla sinistra stava anche Euridice che si beveva il suo cocktail come se fosse un certo giorno di martedì, tra altri martedì, di uno dei vari anni tra cui c’erano questi martedì con la musica al Volume e non come era davvero, cioè l’ultimo non-martedì della storia dei martedì, un mercoledì qualunque, cattivo come la cattiveria di queste studentesse che ho davanti e che parlano solo del Simposio di Platone, di gente fatta a metà per cattiveria divina e metà di gruppi su Whatsup, sempre nuovi gruppi da cui escludere sempre nuove persone, sempre qualcuno da lasciare fuori, senza dirle niente, ma poi anche di questo io non so molto, quasi niente.

Durante il concerto, bevendo alla goccia, come un drago, il mio whiskey mas barato, cercando di alleggerire, ma alleggerire niente, era solo quel sapore di alcool freddino che certo non avrebbe giovato al mio corpo, ma come diceva lo scrittore citato, scrivi ubriaco, edita sobrio, che frase orribile da ricordare di un tizio così in gamba per noi adolescenti di un tempo, comunque io scrivevo sul mio telefono, che il quadernino era perso in casa e il giubbotto con le tasche in grado di accoglierlo semplicemente dalle parti di Pozzolatico, prestato una serata al Cubano all’A********a in questione, ecco io scrivevo questo pensiero, che adesso riporto:

I Piedi sono due. A volte uno o nessuno, ma normalmente due. Suonano all’interno della tenda. Fuori la notte bianca. Il Volume stasera è due cose: una bocca e un ano. Si beve e si piscia, principalmente. Poi ci sono i piedi, appunto, nella tenda, piedi che non servono a molto, ma ci sono. A volte parte qualcosa di udibile, sembra Ticho, ma poi viene disturbato dal discorso di un caso umano dell’internet, un figlio di Dipré, così I Piedi confermano che non c’è momento sintetico, che Hegel si supera da solo, che la struttura materiale della tenda e del Volume incidono sulla mia idea di essi più di quanto la mia idea incida sul resto, che io sono sempre qui.

Non so bene come finire questo ciclo di racconti sui concerti del Volume, qui nell’episodio otto della storia della Galassia, un numero anche facilone per terminare, un numerino da tatuarsi sul Piede, che poi le cose vanno ancora avanti, si spostano, scivolano, si muovono, come le cameriere veloci dentro Mama’s bakery, come l’accelerazione che hanno avuto le foglie in questi ultimi tempi, così che adesso il cortile ne è completamente pieno, di fogliame intendo e ancora una notte bianca è passata e l’esame di maturità si avvicina e il mio sostituto a Mama’s bakery, lo scrittore di riserva, fuma le sue sigarette al sole mentre le studentesse hanno deciso di smettere di far finta di giocare e giocano a lanciarsi le sigarette. Non so come finire questo pezzo. Perché adesso è chiaro che tutto il progetto rockit.it, di rendere in qualche modo (ring) utile o fruttuoso quel nostro stare là di martedì a bere è semplicemente qualcosa di accantonato, che queste righe rimangono là, come una recita di fine anno, di una scuola di recitazione in un minuscolo paese dell’Italia degli anni novanta, una recita teatrale quando non esistevano ancora nemmeno le videocamere e per fortuna, niente per farlo rimbalzare dappertutto, qualcosa che passa come i quarant’anni del mio postino favorito, come le sue foto in Thailandia, lui e i suoi amici sulle motociclette da corsa enormi o sulle Harley, in quell’estate in cui probabilmente: ci rimase sotto, schiacciato, dalle droghe e poi in un soffio quarant’anni a fare il postino, ma che bella persona sai, vaffanculo mi viene da dire, a questo dire, mmm, no, che tristezza, ma vaffanculo, postino che domani martedì senza Volume compi quarantanni, quella tua faccia sorridente, te che non hai fatto i soldi, con la tua vita solitaria, le scommesse delle partite e quei video con i tuoi amici, tutte quelle canne. Domani è martedì e Giovanni il postino compie quarant’anni, sul calendario che mi ha regalato Camilla io posso leggere che un mese fa suonavano Camillas, o forse Calcutta, ho scritto con la penna un mese fa, sul foglio del calendario precedente e ha trapassato, come carta carbone, così che quello arriva fino qui, arriva fino oggi, un mese fa come carta carbone, che ancora l’esame di maturità era lontano e queste partite a carte della mattina, che già cominciano le belle giornate, il fogliame si è fatto così fitto in meno di due settimane, e io che pensavo che non avrei neanche visto le foglie del glicine, invece le ho viste. Non c’è momento sintetico, le cose non finiscono, forse, i martedì al Volume sono finiti.

5 Maggio 2014

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Concerti al Volume

Gioacchino Turù e Vanessa V. ovvero il santo che voleva acqua

Gioacchino Turù, Vanessa, Simone lisiGiacomo viene da Ivrea, lo dice sempre. Ti parla di Olivetti come se non te ne avesse mai parlato, ma te lo ha raccontato anche la volta prima. E’ vero, che glielo avevo domandato io. Giulia viene da Fortezza, credo, un posto lievemente più a nord ancora di Bressanone che già era parecchio, a Nord. Si sono trovati a Firenze, ma su questo incontro ci sono varie storie, varie ricostruzioni e siccome di non apocrife, ho solo la versione di Giacomo, non ne dirò una riga. Hanno fatto un primo album che era improducibile, impubblicabile, perché conteneva bestemmie e riferimenti a atti innominabile. Era un bell’album rotondo e io ne ho una copia da qualche parte su una pennetta usb, una copia senza i titoli delle tracce e c’erano canzoni capisaldi della cultura turuttica, tipo Sposa Sposata, o traccia 15 e altre, dove si parla di assassini, rumeni, froci. Il secondo album, Il crollo della Stufa Centrale è attualmente oggetto di culto. Ormai introvabile raggiunge somme stratosferiche su ebay o al mercato nero, comunque lo dico se qualcuno è interessato io ho una copia e la vendo, contattatemi in privato.

Detto questo, detto che Giacomo viene formato ad essere uomo che significa bukkake nel bosco da parte degli anziani del gruppo, viene formato dicevo nella Berlino d’Italia, Ivrea appunto, dove seppur il più piccolo e con minor talento, partecipa al progetto StuproBrucio Records, dove impara l’ABC, anche questo me lo sono levato.

Detto questo Giulia e Giacomo hanno suonato al Volume ieri sera, che prima ero stanco della giornata e poi mi rilassavo. Hanno suonato i primi venti minuti molto bene, anche se Giacomo avrebbe scazzato la prima traccia eseguita, quella dove si fa riferimento ad un Icaro in caduta libera, bambini che pisciano sul sole, dei sassi nelle tasche, una citazione esplicita a un pezzo minore di Jovanotti il quale sarebbe insieme a Jean-Paul Sartre il referente culturale dei due. Comunque. Malgrado la prima traccia andata così così, poi tutto si è innalzato e io pensavo che questi martedì passati fossero poi stati solo un grande preludio a quel momento là, in cui Giacomo riusciva a conquistare gli americani, seduti in prima fila, quel momento là in cui Giulia cantava, che suonava il piano accanto a lui, che tornavano ad essere una di quelle coppie che una mia amica segno zodiacale pesci avrebbe parlato di loro come una sorta di pieno orientale, ecco, c’è stato un momento e il momento si è prolungato una ventina di minuti e ha raggiunto un’apice esplicito con quel pezzo che si chiama De LaVega, così i Turù andavano a caccia di elettronica e Giacomo ballava come un bonobo e Giulia aveva fatto qualcosa ai capelli, che davvero posso aver pensato ad Hegel, un momento sintetico, capito, al sorriso di Diana e quello di Lapo e Silvia e quei due minuti dei dieci totali di felicità che lui aveva scelto di sacrificare su un tappetto elastico nella giornata di pasquetta. Poi qualcosa si è rotto e io non so cos’è stato, i pezzi nuovi erano finiti e loro tornavano ai vecchi pezzi circoli di ripetizione, senza che questo gli desse troppa voglia, che già erano scivolati avanti rispetto a là. Dopo il concerto era finito e le tanto annunciate cover dei Joy Division erano barattate da quella classica di Tiziano Ferro, riferimento sessuale di Giacomo, così il concerto finiva e si accendevano le luci su quella sala piena, incredibilmente.

C’era ancora tempo per guardarci negli occhi, rimasti da soli dopo che la sala era stata così piena, portavo Diana a casa, con il mazzo di chiavi unico, poi Neri se ne andava con due tipe, ma quella era un’altra storia ancora. Come non ricordare quella mia domanda, panni appesi ad asciugare in una corte, mentre due ragazze ripetono Cartesio e io non sento la lezione, perché nelle orecchie ascolto un loro pezzo tragico del passato, se fossimo a Parigi ti porterei in bici, e mi viene da piangere, se non dovessi finire di scrivere qui e poi andare a lavoro e mi ha pure telefonato Lapo e ha interrotto il flusso creativo, ma sono questi tempi qui, sono tempi fortunati. Ma dicevo di me, grande assente di questo pezzo ingiustificatamente buono verso due musicisti che a me piacciano molto, dove sono io? Mi domando, e Diana è gelosa e dice che sono innamorato di loro ed è vero, ma in un certo senso. Comunque io ormai sono diventato un giornalista completo, che si informa, studia, si prepara prima del concerto e sempre quel quadernino che all’inizio dei miei pezzi non esisteva nemmeno, era un quaderno ipotetico, letterario, quello di cui parlavo, ma poi ne ho preso davvero uno a casa e c’ho scritto sopra delle cose e ora lo tengo nella tasca (è così che funzionano le cose: prima per finta, poi succedono, così che ci si addormenta la sera, si finge di dormire, dopo ci si addormenta), comunque dicevo di me, me che facevo la domanda del secolo ovvero se i loro concerti fossero poi metafora del loro rapporto, se da quei concerti specifici si potesse capire come stavano loro e mi sembrava davvero di aver fatto la domanda più intelligente della storia, ma era la mia solita domanda del cazzo, ma non è questo che voglio dire, non è questo il punto, ma il punto di tutto questo preludio, affresco, di quel mio discorso era invece parlare della risposta dei due, alla mia domanda, la risposta di Gioacchino e Vanessa e la risposta dei due era:

Giulia: No

Giacomo: Beh, sì.

Era di nuovo mercoledì e io pensavo a questo nostro costeggiare l’alcolismo, sudare freddo a lavoro e tisane depurative al mattino: come se niente fosse. Al bar della mattina avrei sorpreso tutti con quel the verde e non il consueto mezzo litro di caffè americano.

23 aprile 2014

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