A short story by S. for his English teacher Lorraine
At that time, a long time ago, my life was very good. I lived in Sintra, Portugal, in a little luminous apartment but for me it was a palace. I used to teach English lessons online and I had twentish students from all over Europe. I was happy, but at that time it wasn’t so obvious to admit to myself. Of course we are never happy in a complete way, because we are missing the 360 vision and we can only see a little portion, but now I can say that it was a beautiful life. On Thursday I used to go to Lisbon by train, and I had English class with a group of migrants in a ruined palace close to Rua Augusta. For the night I came back to Sintra tired but happy, with all those stories, with all the energy and the passion of these poor and unlucky people. I met my boyfriend and we spent time watching old noir movies or listening to him singing and playing guitar. The rest of the days I had my Italki classes with very different people from different cities all over the word, but mostly from Europe. Was it boring some days? Maybe. They were just middle-class people dreaming about a different life, and thinking that English could be a key to enter this fantasy new life. Was it possible to change their lives or was it just an illusion? Hard to say. I was just an English teacher, not a key. But for all of those students I could see on their faces a different dream, maybe not a clear dream, but just a shadow of it. They were just normal people with normal lives, like everybody. One of them, S. used to tell me a lot of incredible stories about himself. He was 40ish years old, and he spoke from a nice apartment in Florence, Italy. Apparently he was a writer, another day he was a stand up comedian, and on other days he was a poet. One day he told me about a poetic night with over fifty people watching him perform some ridiculous stories. I thought that all of those stories were bullshit. Nobody would pay one euro to listen to this guy, I thought. Maybe he was just a mythomaniac. His English level was so bad, although he thought he was a new Shakespear. One day, I remember because it was Thursday and after the class I had to go to Lisbon, S. told me that he had to quit his class because he had to go to Stockholm. Why? Are you going there for vacation? No, he contested, I’ll be there for the Nobel prize. Ha-Ha, I said. C’mon, is it for a vacation? Tell me the truth, just this one time. But he was crazy, and he didn’t admit that he was. We started to insult each other and we terminated our class for that day and forever. The day after, or maybe two, I saw in all the newspapers and on the internet that stupid guy and his stupid face on the stage of the Nobel Price Academy.
Guardavo il tabellone delle partenze, e mi guardavo attorno perché avevo appuntamento con mia moglie. Invece, tra la folla vidi il volto di Giacomo, il mio amico giovane. Stava fermo davanti a un binario qualsiasi, dove non partiva e non arrivava nessun treno. Mi avvicinai a lui per salutarlo, e venne fuori che prendeva il mio stesso treno per Roma.
Ma come, disse, ti avevo detto che avrei fatto il week-end a Roma.
Io annui, ma non ricordavo, o solo come una lontana informazione recepita in un momento confuso e messa da una parte, remota, nella mente. Sarebbe andato a trovare un amico, che a quanto diceva mi aveva presentato in passato, un critico musicale, o qualcosa del genere. Poi vidi arrivare Diana, e allora ci scambiammo saluti e io parlai della mia stanchezza, stanchezza che mi sembrava emanare come un calore dal mio viso e Giacomo disse qualcosa sul week-end a Roma e come mi avrebbe fatto bene. Uscì fuori anche il numero del binario, e ci dirigemmo tutti quanti verso l’11. Chissà, disse Giacomo, che non capiti che adesso ci troviamo seduti accanto.
A meno ce tu non viaggi in prima, disse Diana, noi abbiamo trovato i biglietti allo stesso prezzo e abbiamo preso quelli. Infatti eravamo seduti in altre carrozze e al momento di scendere dal treno, a Termini, io non pensai a fermarmi alla fine del binario ad aspettarlo, e ci dirigemmo veloci verso la fermata dei taxi.
Il giorno dopo, camminavamo con Diana in una giornata di febbraio fredda e limpida, tersa avrebbero forse scritto i poeti, dopo aver visitato un museo, ci aggiravamo nel mercato del Testaccio, cercando qualcosa da mangiare. C’era un clima lieto, ma ai nostri occhi sembrava tutto malinconico. Era probabilmente conseguenza della mostra che avevamo appena visto, su un esule documentarista che aveva ripreso quasi tutta la sua vita e aveva trovato poesia in molta di essa. Anche il mercato sembrava velato di tristezza, il suonatore di sassofono, un venditore ambulante di teste d’aglio, probabilmente di etnia sickh per la barba tinta con l’henneè, e mille altre facce giovani e vitali o vecchi e stanche che si muovevano in quel sabato mattina che già diventava ora di pranzo.
Forse la malinconia non si addice a Roma, aveva detto lei, e siamo noi che la vedremmo ovunque.
E a quel punto avevo di nuovo visto Giacomo. Camminava affianco a un ragazzo, il critico evidentemente, e non si erano accorti di noi, allora mi sono alzato da un tavolo e li ho raggiunti.
Che strana coincidenza, è la seconda.
Si sono seduti al tavolo con noi, e abbiamo parlato di cose a tratti futili e a tratti serie, della nostra differenza d’età, noi di dieci anni più vecchi, delle cose nuove che vedevano loro e che noi non vedevamo, di quello che invece noi con la nostra maggiore esperienza potevamo forse, chissà, aver capito, e ancora dei giovani ancora più giovani di loro due, che già gli sopravvanzavano, malgrado loro a tratti lo negassero, e di cosa questi novissimi dovevano vedere.
Poi per loro era ora di andare, ma prima di congedarsi Diana ha chiesto al critico musicale, romano, sebbene di un quartiere lontanissimo a quello in cui eravamo, un quartiere che non avevo mai sentito neanche nominare e che distava quasi due ore d’auto (cosa che rendeva quella seconda coincidenza ancor più radicale), Diana ha chiesto se lui avesse da consigliarci qualcosa là, nella zona.
Una cosa ci sarebbe, ha detto lui.
Poi quando ha finito di parlare, ci siamo salutati, dicendo: chissà se avremo ancora tempo d’incontrarci una terza volta, e convinti di no, ci siamo allontanati.
Il cimitero acattolico, diceva Google maps, distava solo sei minuti a piedi, ma il motore di ricerca mi indicava che fosse chiuso. Ho preferito omettere questa informazione a mia moglie e ci siamo incamminati ugualmente. Non so spiegarne il motivo, speravo fosse aperto, o forse semplicemente non riuscivo a pensare a un’alternativa. Parlavamo dei giovani, di Giacomo e del critico, che si sentivano così in cassa di risonanza col presente, e aggiungevamo noi, così poco consapevoli che pure quel momento stava passando. Noi ci sentivamo scollegati da tutto, ma per questo forse più in simbiosi con i pini silvestri che si stagliavano verso il cielo, o i murales disegnati sulle case o ancora le fila di monopattini elettrici parcheggiati dovunque, senza criterio e pronti a finire in delle discariche.
Abbiamo girato intorno alle mura del cimitero, non capendo dove fosse l’entrata e con la mezza idea, io, che ci saremmo fermati davanti al portone sbarrato. E invece era aperto.
Una ragazza all’ingresso con un grande sorriso e delle frasi ripetute molte volte ci ha indicato su una piantina le tombe dei famosi Keats, Shelley e poi ne ha aggiunti altri imparagonabili per importanza, ma che forse potevano interessarci. Noi abbiamo ascoltato distrattamente, poco attratti dalle tombe dei famosi, e piuttosto inclini a perderci tra le lapidi e i gatti randagi.
Camminavamo in silenzio e ho detto a Diana, Sai, ora ho come la sensazione, guardandomi indietro, a questo fine settimana a Roma, che incontrare Giacomo alla stazione, poi di nuovo al mercato, fossero coincidenze che servivano a incontrare il suo amico, il critico, che a sua volta ci avrebbe consigliato di venire qua. E quindi, forse ora, ho detto a Diana mentre lei cercava di avvicinarsi a un gatto acciambellato su un angelo di marmo, forse ora troverò qualcosa che mi parlerà, che mi dica qualcosa.
Certo, ha detto lei, è possibile, ma qualcosa di che genere?
Non saprei, ho risposto, se questo fosse un racconto, forse troverei una tomba con sopra scritto il mio nome.
Certo, se fosse quel genere di racconto, sì, ha detto lei.
Ma questo non è un racconto.
No, non lo è.
E allora cosa pensi che troverai in questo cimitero, tra queste bare e lapide scritte in tutte le lingue. Guarda là ce n’è una giapponese.
Non so, ho risposto.
Abbiamo continuato a camminare a lungo, io leggendo quelle scritte sulle lapidi come se fossero dei messaggi, dei messaggi per me, ho cercato e ho cercato, ma non ho trovato niente.
Tutto mi piace del calcio estivo solo il calcio estivo mi piace. Mi piace il calciomercato, i nomi avvicinati alla squadra che non arriveranno mai. Gli allenamenti in località amene dove non andrò in vacanza. Le interviste ai tifosi bambini Qual è il tuo calciatore preferito? Mai nessuno che dica “il portiere di riserva” oppure “il calciatore che è andato via, nella squadra che lo pagava meglio”. Mi piacciono le amichevoli che finiscono 18 a 0 31 a 7 oppure le amichevoli di lusso contro squadre blasonate. Il giocatore X segnerà il gol della vita rovesciata da centrocampo direttamente al sette mentre intorno a lui venti difensori del Real Madrid lo guardano e non possono nulla. Tale calciatore X finirà il campionato successivo senza aver segnato neanche una rete e verrà ceduto per due manciate di noci e fichi secchi alla prossima sessione estiva.
Tutto mi piace del calcio estivo solo il calcio estivo mi piace. Quando ancora tutto è possibile e allo stesso tempo è inutile, indifferente e superfluo, come un pomeriggio d’estate, come la vita.
Ho come l’impressione che passata una prima fase che definirei identitaria, oggi la questione di Padre Pio si sia molto ammosciata. Prima era un bel culto energico, poi da quando la santità è stata riconosciuta, non gliene frega più nulla a nessuno. Sì, embè, un altro Santo in cielo. E festa finita.
Chiringuito
Il problema di questi chiringuiti e spiagge deserte annesse è che in ciascuno di esse troverai un tizio di Genova (ma che ha lavorato 25 anni a Milano) che non aspetta altro che insegnarti come si sta al mondo.
Il progetto
Diana mi ha chiesto se secondo me il nostro architetto stesse lavorando in quel momento al progetto della casa e io ho avuto la chiarissima sensazione, anzi visione, dell’architetto con un dito nel naso intento a estrarne un’enorme caccola.
Vacanze da soli
Benissmo fare le vacanze da soli, siete veramente in gamba, io non so se ce la farei, ma Cristo Santo che bisogno spasmodico di comunicare che avete, in queste due ore di gita intorno al vulcano, sembra siate rinchiusi da una settimana in isolamento, adesso so tutto di voi, della vostra vita, e pensa che sei in vacanza da solo, io in compagnia e da quando sono arrivato sull’isola avrò detto la metà delle tue parole.
A Stromboli
A Stromboli una delle cose più difficili è capire quali posti sono per fregare i turisti e dopo un po’ scopri quasi tutti sono dei posti per fregare i turisti.
Ma poi dopo un po’ cominici a capire come fare sebbene sia difficilissimo trovare un posto dove non ti fregano. In tabaccheria hanno le birre Messina a un euro e cinquanta, per dire.
In aliscafo
Una nuova frontiera dell’intrattenimento sono i documentari con animali tardo preistorici, cioè niente dinosauri, ma tigri dai denti a sciabola, mammut o altri collocati in contesti bucolici o glaciali, ma il punto di questi pseudo documentari è lasciarti il dubbio se siano animazioni al computer (sì, lo sono) o solo delle tigri molto pelose che vivono in Alaska, e mi chiedo allora perché invece di quella roba non abbiano deciso di fare un documentario classico su una tigre vera. Forse così gli costava meno? Probabile. O forse ciò che veramente mi rende ipnotica questa cosa, quello che mi aggancia, è quel dubbio sottile o sospetto che sia vero, falso, ben fatto, mal fatto. Certamente: inutile.
Dopo una decina d’anni lontani, in altre nazioni o città o più semplicemente quartieri, siamo tornati ad abitare con Diana nel quartiere in cui frequentammo l’università di Lettere e Filosofia, che è anche il luogo dove ci conoscemmo. È un quartiere con una sua certa bellezza, seppur poco esplicita, con scritte sui muri, scritte che si cancellano dai muri e vengono rifatte sempre uguali, muri carichi di umidità, piccoli bar anni settanta, elettricisti dove non c’è mai nessuno, alimentari con luci al neon dove la regola non scritta è che si può mangiare un pasto completo con una banconota del taglio più piccolo.
Non andiamo più in quegli alimentari e bar squallidi di un tempo, non perché adesso abbiamo più soldi, non è solo questo, ma è perché quei posti ci mettono una grande tristezza. C’è un bar ad esempio a cui andavamo quasi ogni giorno, un bar gestito da due uomini, vecchi oggi come allora, baristi talmente simili tra loro che credevamo fossero fratelli, o una coppia di amanti. Era quello un bar dove avevamo una scatola di biscotti al burro, biscotti inglesi per il the, che lasciavamo là se non finivamo e quando tornavamo la volta successiva trovavamo ad attenderci. Adesso ci fa spavento anche solo passarci davanti. Allora attraversiamo la strada, oppure alziamo il bavero sul mento e guardiamo fisso in avanti. C’era e c’è ancora la gastronomia di un certo Vittorio, chiamato da tutti Vittorino, ironicamente. Là era possibile, e mi dicono sia ancora così, mangiare con pochi euro, sebbene il punto di forza non fosse la convenienza, ma la quantità. Vittorio era famoso per le porzioni enormi. Forse ricordiamo male, non erano così grandi come pensiamo, ma dipende dal fatto che le cose del passato sembrano più grandi nella memoria. Non c’è dubbio che fossero enormi, ci diciamo, erano le sole porzioni in grado di placare la nostra fame inestinguibile. Anche da lui non torniamo mai, ci sembra che la fame di allora si sia per così dire asciugata, oggi andiamo solo in ristoranti dove le porzioni sono piccole, care e sapide. Paghiamo il conto sempre con grande piacere. E poi c’è il quartiere tutto intorno all’università che in dieci anni sembra esser cambiato. C’è ancora l’enorme, oscuro palazzo del rettorato, con le sue torri e i suoi cancelli e custodi, è vero, ma sembra che l’università sia deserta. Con la crisi economica gli studenti fuori sede che maggiormente animavano il quartiere hanno smesso di venire, o forse è che oggigiorno nessuno vuole più iscriversi alle facoltà umanistiche, visto la fine che abbiamo fatto noialtri. Gli studenti, che pure continuano a esistere, vanno a studiare nel quartiere nuovo, dove ci sono le facoltà di economia e giurisprudenza, i centri commerciali, gli svincoli che partono verso nord. Il vecchio quartiere universitario si è popolato di ristoranti per turisti, catene di oggettistica svedese e srilankesi che vendono birre a qualunque ora del giorno e della notte. Forse ci sbagliamo, diciamo, forse quei negozi c’erano anche dieci anni fa, e siamo noi che ricordiamo male o che siamo cambiati.
Ogni giorno, per tornare a casa dopo i nostri lavori, io e Diana attraversiamo il quartiere universitario, ognuno a un suo orario specifico. Non più stretti l’un l’altra sul marciapiedi, non più stringendoci addosso ai nostri maglioni e sciarpe di lana, ma ognuno dentro al suo cappotto pesante, ognuno all’oscuro di ciò che il vecchio quartiere risveglia nell’altro, sospettando che sia poi la stessa cosa. È così. Durante le mattine di sabato che sole danno significato alla vita (ma i sabati non possono bastare, ci diciamo quando siamo fermi ai semafori) di sabato usciamo di casa e invece di girare a sinistra, prendiamo a destra, prediligendo quella zona del quartiere dove un tempo non mettevamo mai piede, quella del mercato e dei tavolini, così che l’altro quartiere, simile eppure diverso, lontano seppur vicinissimo, rimane sfocato, come fosse un pesce d’argento che vediamo sott’acqua, mobile seppure sia immobile.
Però c’è un angolo, tra via delle Pergola e via degli Alfani, un angolo a cui io e Diana non ci possiamo sottrarre. Se il bar dei fratelli, se l’alimentari di Vittorio, se le scritte sui muri noi possiamo con degli stratagemmi far finta non esistano, quell’angolo non lo possiamo evitare. Vi è un uomo, vi era un tempo e vi è tutt’ora, che sta là a chiedere le sigarette. Ha una coda di capelli che con gli anni sono diventati grigi e ora bianchi. Era là quando fummo matricole, era là quando, in ritardo, ci laureammo con le nostre tesi mirabolanti. Estati e inverni, con la pioggia e col sole, in quell’angolo, sempre la stessa frase, ripetuta come una poesia imparata a mente, scusa, sempre uguale, ce l’hai, senza mai invertire l’ordine delle parole, senza mai utilizzare un sinonimo, essenziale, una sigaretta, immutabile, perfetta. All’epoca qualcuno sosteneva che quelle sigarette neanche le fumasse, erano racconti che si facevano, che le sigarette gli servissero per ricavarne la cenere. Che quel tizio mischiasse la cenere con l’eroina e poi, come un alchimista, si sparasse tutto nelle vene. Erano discorsi da bar, erano discorsi da chi ha molto tempo da perdere e lascia andare i pensieri, oggi lo sappiamo bene. Non c’era nessuno scopo in quelle sigarette se non quello di fumarsele tutte, una dopo l’altra, senza pagare un euro. L’uomo è ancora lì, al solito angolo e anche oggi intercetta il nostro sguardo e ci si para davanti.
Scusa
Sì? Chiediamo noi, impazienti, anche se sappiamo già cosa domanderà
Ce l’hai una sigaretta?
Purtroppo noi abbiamo smesso di fumare. Saremmo felici di offrirgli una sigaretta, gli daremmo l’intero pacchetto se solo l’avessimo.
No, mi spiace.
A lui non importa il motivo per cui abbiamo smesso o perché non abbiamo mai iniziato. Con i suoi occhi pallati guarda già oltre di noi, alla ricerca del prossimo passante a cui chiedere la stessa cosa. Allora io e Diana continuiamo ad andare verso casa e ricordiamo che fu lui a insegnarci che una sigaretta scroccata non può fare male, perché è una sigaretta non fumata.
Se vuoi conoscere davvero una persona chiedile come fa le pulizie a casa.
Parentesi che si apre. Potresti anche chiedere a quella persona come preferisce prendere il caffè, è vero, io per esempio amo le porcellane sottili, le tazze di ceramica leggerissima che hai la sensazione che mordendola coi denti si potrebbe spaccare e tagliarti la bocca così che il sangue e il caffè si vadano a mescolare. Ma chiudiamo subito questa parentesi. Le pulizie a casa, quella sì che è una cartina di tornasole, tu per esempio, come ti sei organizzato? Hai una donna (o uomo) che viene a fare le pulizie al posto tuo? C’è per esempio tutto un lessico specifico su questo argomento. Non si dice, non sta bene, la donna delle pulizie. Si dice semmai: c’è una signora che viene a dare una mano. Così è molto più per bene, mentre dico, una signora che viene a dare una mano sento proprio come un sospiro di sollievo che mi attraversa il corpo. Comunque noi siamo delle persone profondamente moderne e non c’è nulla di male ad avere una persona (dal sesso generico) che viene a virgolette dare una mano a casa. Non c’è nulla di sbagliato in questo. Tuttavia una domanda ulteriore si potrebbe fare ed è: ma chiami una persona perché non ti piace pulire? Perché non ti riesce? O magari perché non hai tempo? Se non ti piace, allarghiamo le braccia, viviamo in fondo nella dittatura del gusto, quindi lungi da me contestare la piacevolezza di fare le pulizie, invece approfondiamo la seconda risposta, cioè quella di non avere tempo. Sì, è così, io lavoro alla Nasa, non ho tempo di fare le pulizie a casa. Bene, molto bene. Sebbene, la persona che abbiamo di fronte sarà una di quelle persone che magari fanno dei figli o hanno dei cani e poi hanno delle persone che si occupano dei bambini o persone che portano i cani a fare i loro bisogni, quindi delle persone paradossali. Non c’è niente di male a essere persone paradossali, ma che lo si ammetta. Viene a dare una mano, la signora. Le possibilità di pulizie a casa sono comunque un numero limitato, il che ci permette di porre le persone dentro un certo numero di categorie, come i segni zodiacali. Quando qualcuno contesta i segni zodiacali io tiro sempre fuori Goethe che diceva che esistono solo 12 situazioni tragiche possibili, muore lui, muore lei, certo composte da infinite sfumature e specifiche, ma comunque sempre dodici sono, quindi ecco l’astrologia ed ecco le pulizie. Ipotesi uno, la signora o il signore delle pulizie. Ipotesi due, se vivi con i tuoi genitori, un genitore che fa le pulizie e non vorrei essere troppo scomodo, ma ho come il sospetto che la persona che se ne occupa non sia vostro padre, tuttavia magari avete una madre disabile e si occupa delle pulizie vostro padre? Chissà. Comunque arriviamo alla terza possibilità ovvero vivete con una o più persone e vi occupate di pulizie domestiche anche voi in prima persona, magari facendo dei turni di pulizie, oppure, ed è proprio qui che volevo arrivare, facendo ognuno qualcosa, ognuno secondo le sue capacità o caratteristiche personali.
Io, per esempio, a casa le pulizie le faccio a metà con la mia compagna Diana, ma la cosa interessante è come ci siamo divisi queste faccende. Io pulisco il bagno e la cucina, lei fa il salotto e la camera da letto. Sono i suoi dei compiti per così dire più intellettuali, o pregiati, rispetto ai miei compiti che invece sono più terreni e materiali, ma mi sembra una cosa giusta. Amo pulire i cessi, è una cosa che mi dà una specie di soddisfazione particolare. Pulire un cesso è per me come fare un giro in bicicletta, la stanchezza che fa seguito alle pulizie di un cesso, a quel senso di vuoto pieno, è paragonabile solo a una passeggiata in alta montagna. La respirazione, mentre pulisci un cesso, rallenta, il respiro si fa profondo. I battiti del cuore diminuiscono e rimane solo un enorme silenzio e la voce in sottofondo di Attilio Scarpellini su Radio3 che mi parla della perdita dell’aura in Walter Benjamin. Pulire un cesso, esplorare anche le parti meno visibili, indugiare con un bruschino intorno ai fori più fetidi, insistere, non affrettare alcun passaggio, prolungare quel gesto in maniera spasmodica, come se fosse un balletto di danza russa, come se fosse la cura di un giardino. Tra le mattonelle, dove minuscole particelle di schifo, di unto si annidano, là è dove per un momento, nella loro epurazione, puoi trovare finalmente la tanto ricercata pace. Una volta, tanti anni fa, lavorai in un teatro. Lavoravo in teatro, nel senso che facevo le pulizie in un teatro. Era un lavoro bellissimo. Il lavoro più bello della mia vita, dovevo andare all’alba a fare le pulizie, ovvero dopo gli spettacoli, ma prima che arrivasse al mattino la gente per i matinée oppure la gente a fare le prove. Verso le cinque. Era un lavoro superbo, io arrivavo là nel teatro vuoto, che in effetti era anche spaventoso, e pulivo il teatro. La mia parte preferita da pulire, già lo avrete intuito, erano i cessi del teatro, e in particolare ricordo con affetto i vespasiani. I vespasiani avevano qualcosa di profondamente giusto, di artistico, di duchampiano, o forse semplicemente li amavo perché non dovevo piegare la schiena. Un giorno incontrai il mio capo supremo delle pulizie del teatro, che in effetti era una donna, ed era mia zia. La persona grazie alla quale avevo ottenuto quel lavoro. E lei mi disse una cosa che mi porto dietro ancora oggi, una piccola grande verità ovvero che pulire è una battaglia persa, che domani tutto tornerà a sporcarsi, di nuovo, e ancora e ancora. Che pulire pertanto è sempre un far sembrare pulito e niente più, che il concetto stesso di pulito è un concetto problematico, che il pulito rincorre sempre se stesso senza mai potersi raggiungere e mai si raggiungerà. C’è infine un’ultima categoria di persone nei confronti delle pulizie domestiche e sono le persone che non fanno mai le pulizie in casa. Mai. Semplicemente un giorno magari non indossano le scarpe e coi calzini puliscono a terra. In questo caso si può ritenere pulizie domestiche? Noi crediamo di no. Oppure passano un dito sopra la televisione e la polvere si attacca al dito e così questa persona genera una specie di disegno di un fiore, o di un pene, è questo una speciale tipologia di pulizia? Anche in questo caso siamo costretti ad ammettere di no. Le non pulizie credo io siano qualcosa che ti scivola addosso, quando comincia a passare troppo tempo, superi un certo limite a quel punto è semplicemente qualcosa che non ci si può fare nulla, si lascia perdere, come ad esempio mangiarsi le pellicine o farsi di eroina, ormai è andata. Questa categoria di persone, le persone che non puliscono casa hanno dei bagni in particolare, a volte sarete stati a casa loro, che sono dei luoghi esclusi dal tempo, dove tutto sembra provenire da un’altra epoca, sono come i relitti delle navi in fondo all’oceano, che hai la sensazione che qualsiasi minuscolo gesto o cambiamento potrebbe far collassare l’intera struttura. Sono delle persone di solito molto belle, ma ahimè questa condizione esistenziale non è molto accettata socialmente. Questo penso mentre pulisco il cesso di casa mia di mercoledì, oltre a pensare al caffè che mi berrò quando avrò finito e a quella tazza di ceramica sottilissima che forse morderò coi denti.
Che corse per non incontrar Doriana di corsa per le scale o nascosto in ascensore se sta già salendo a piedi.
Che giri per non trovar Doriana vagando nel quartiere con una borsetta in spalla con dentro quelle cose per fingermi civile: un computer, le cuffie, un taccuino il libro di Steinbeck da finire che non finirò stamani sono come delle ancore del mio vivere civile.
La casa al mio rientro profumerà di pulito il ciclo di lavatrice a sessanta gradi con dentro gli stracci, da svuotare. Le finestre sigillate un vecchio trucco di domestiche per far sembrare più pulito di quanto sia (pulire, io lo so bene, è sempre un sembrar pulito lo sporco è la cifra del mondo domani, anzi già oggi, la polvere tornerà è già qui, con noi, da sempre).
Che corse per non ascoltar Doriana i suoi discorsi sugli immigrati che ci rubano il lavoro gli autobus soppressi le file in ospedale dietro, molto dietro, la famiglia marocchina che l’è passata avanti spettri che si aggiran per l’Europa o più semplicemente nelle sconosciute province da cui lei arriva.
Che corse per non incrociar Doriana nascosto nelle gallerie d’arte o nei bar con gli studenti americani una poesia da scrivere le ore da far passare le cuffie nelle orecchie fino al prossimo giovedì.
C’è stato un momento stamani In cui la sveglia con i suoni degli uccelli e dei grilli ha suonato all’unisono Con i grilli e gli uccelli fuori dalla finestra.
Poi Diana si è alzata ed è andata in bagno. Primavera
Mi sono chiesto stasera, se fossi morto, cosa avrebbero deciso di fare con il romanzo che uscirà a maggio. Se gli editori avrebbero cavalcato il fattore emotivo, oppure per pudore, rispetto avrebbero deciso di annullare. Ma la copertina del romanzo è già pronta, mi sono detto.
Ho anche pensato che i miei soldi sarebbero andati a te, dal momento che ci siamo sposati, e la cosa mi ha fatto piacere. Sebbene si tratti di ben pochi soldi e ho immaginato che comunque saresti stata molto triste e quei pochi soldi non avrebbero cambiato un granché.
Perché il tecnico della lavatrice fosse arrivato così presto di giovedì mattina rimane un mistero. Secondo lui le porte telematiche chiudevano alle sette mezzo ma a quanto risultava a noi un tecnico autorizzato sarebbe potuto entrare a qualsiasi orario. Forse amava alzarsi presto? Più che tecnico della Ditta Angelini sembrava un moschettiere francese per il pizzetto lasciato scoperto per bere il caffè e aveva il modo di camminare specifico di un uomo in grado di sollevare lavatrici. Mentre Diana si asserragliava in camera per lavorare, io rimanevo intorno al tecnico moschettiere dalle gambe larghe per sollevare lavatrici e gli offrivo un caffè, prima che smontasse il piano cottura. Forse, mi dicevo, oltre che tecnico e moschettiere era anche buddista perché nonostante intorno a lui niente andasse bene il piano cottura di quattro centimetri, lo spazio disponibile solo di tre la lavatrice nuova che manifestava ulteriori problematiche, lui, il tecnico Angelini, era di un fatalismo commovente, piccolissime bestemmie lievi, mentre io continuavo a ciondolargli intorno. Capivo dalla sua prossemica che non lo stavo aiutando, per questo me ne andavo in salotto a leggere dei racconti di un amico, che da tempo rimandavo. Lui stava là che bestemmiava con dolcezza e io leggevo i racconti dell’amico e mi sentivo, rispetto al tecnico, un po’ lontano dalla vita. Mi sentivo lontano e vicino al contempo, come di lì a un’ora dentro gli Uffizi, tornato a visitarli dopo tanti anni, per la pandemia. Mi commuovevo guardando i coniugi di Urbino e le uniche persone intorno a me erano i guardiani del museo che si addormentavano nella sala di Niobe sulle loro sedie scomode, ma con il caldo dei condizionatori e il silenzio degli Uffizi quasi vuoti. Una guardiana telefonava a casa al Sud, sembrava dall’accento dentro la stanza dei fiamminghi e io cercavo di carpire scampoli di conversazione. Qualcuno aveva fatto o detto qualcosa che non riguardava il padre di Durer, ma un parente o un vecchio amore della guardiana.
Il tecnico della Ditta Angelini, mobili-a-incasso-e-cucine non aveva niente da ridire che leggessi dei racconti di un amico di giovedì mattina. Neanche i guardiani degli Uffizi, sembravano giudicarmi per il mio cappotto blu, alcuni dormivano, altri sembravano felici che il direttore Schmidt fosse in viaggio di lavoro, in Germania o chissà dove.