San Frediano (2013-2015), Stanza 251

Raffaele – Autostrade – Gay

All’interno della foresta hanno costruito l’autostrada. Le auto allora sfrecciano tra gli alberi secolari, enormi intorno a loro. Giacomo continua a parlare di foreste di agrumi, io non riesco a cogliere il punto. Sta di fatto che la costruzione dell’autostrada nella foresta ha portato grandissimi benefici alla comunità, collegando finalmente ampie zone un tempo fuori da ogni strada e dal tempo, di conseguenza. Adesso la costruzione dell’autostrada fa della visione nel complesso qualcosa che sembra non avere un passato, malgrado gli alberi secolari e quello che Giacomo dica a proposito degli aranceti. Continua a leggere

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San Frediano (2013-2015), Stanza 251

Tra le persone più pratiche che ho conosciuto ci sono senza dubbio i poeti

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Tra le persone più pratiche che ho conosciuto ci sono senza dubbio i poeti. Penso all’abilità con cui scelgono parole come umettare, oppure penso alla parola nettàre. Io non ho scritto mai una poesia, solo una volta l’incipit, dedicato al quartiere in cui ho abitato due anni e che fa così:

Oltrarno, putrida latrina

Ho provato ad andare avanti, ma ho lasciato perdere perché credo che la poesia sia come l’amore, se funziona vuol dire che va bene e che c’è, altrimenti vuol dire che si è sbagliato, che ci si è confusi con altre cose.

Ho fatto vedere a Diana la poesia quell’incipit di poesia e lei ha detto: è bello perché è un novenario. Lei ha questa capacità comune a tutte le ragazze che ho avuto, di contare. Ho sempre trovato fidanzate che contavano, contavano cose differenti, ma comunque contavano. Diana per esempio conta le sillabe e questo suo argomento di conteggio me la rende graditissima.

Comunque dicevo dei poeti e di come non ho mai conosciuto nessuno più pratico, che è da un lato un modo per dire che io poeta non sono e quindi neppure una persona pratica, ma anche un modo per dire proprio la cosa che dico.

Penso a Ferruccio, che è il mio amico più poeta che conosco, il vecchio Ferruccio che stanotte ha attraversato il mare tra Sicilia e Sardegna. La traversata è avvenuta senza problemi, come riporta la pagina facebook di suo padre, che seguo (questo per dire solo che Ferruccio è a tutti gli effetti un poeta vivente).

Lui è davvero bravissimo a utilizzare parole, penso ad esempio alla parola ghirlanda, oppure… non mi viene in mente nient’altro, e in verità anche ghirlanda ora che ci penso è il nome di una via, Via Ghirlandaio sarebbe, abbreviata in ghirlanda, e fa parte di una toponomastica che appartiene sicuramente più a me che a lui, che lavoro all’ufficio postale tutto il giorno (anzi mezza giornata perché faccio il part-time) e passo le giornate a sentir parlare di vie. Alla fine se ci penso mi sembra di essere diventato uomo solo da quando ho quel lavoro e conosco le vie della città, mentre prima avevo zone avvolte da nebbia come fosse una fiaba (era bello non conoscere le strade, in verità).

Penso alle parole usate dal poeta Ferruccio senza pensare a nessuna parola in particolare, ma all’uso che lui riesce a farne, a come è pratico nel metterne una dietro l’altra a formare delle melodie, e se una non gli piace o non ci sta bene ne prova un’altra, e alla fine la trova, perché è una persona pratica, io credo. Sceglie sempre delle parole che ci stanno benissimo, Ferruccio, mentre io dopo quel mio unico incipit che è stato alla fin fine casuale, non ho saputo più come rigirarmi. Sarà che non sono pratico, mi dico, sarà che Ferruccio ha più dimestichezza con le parole umettare, con il verbo nettàre, che io non so nemmeno che vuol dire.

Mi piacerebbe molto finire di scrivere la mia poesia, forse un giorno che Ferruccio torna dal mare (ma è possibile che lui non torni mai dal suo viaggio in barca a vela, neanche a dicembre inoltrato, nemmeno nelle giornate cortissime di gennaio e poi fredde madide di febbraio lo vedremo gironzolare per il quartiere) gli chiederò di aiutarmi a ultimarla, o forse gli manderò queste mie parole a un fermo posta di un porto del sud, e lui le leggerà con le gambe penzoloni dalla barca che sfiorano il mare.

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Fogli sparsi, Stanza 251

Diladdarno in Festa – Adesso

La festa dell’Oltrarno: ci sono tutti, ho intravisto anche lo scrittore Matthew Licht in bicicletta, ma non l’ho salutato perché i vigili mi facevano la multa al motorino.

diladdarno in festa, firenze, racconti, stanza251Abbiamo preso un pain au chocolat al negozio francese di Via Romana dove tutti parlavano francese e anche noi uscendo: Merci, Alé le bleu.

Poi camminato fino all’erboristeria, a comprare il dentifricio sbiancante all’aloe vera, vi dico che funziona, lo usava il mio host airbnb a El Médano, un certo Lucas.

Diladdarno: i negozi sono aperti, cerchiamo di prendere un caffè al Volume ma non ci considera nessuno. I negozi sono aperti: guarda, dico a Lapo, anche la lavanderie a gettoni sono tutte aperte. Lui fa: Ah ah.

Resto impalato sulla porta di un atelier di moda dove dove ci sono queste ragazze con orecchi da gatto in testa che noi ragazzi di quartiere non abbiamo visto mai, sembriamo italiani arrivati a Londra nel 1969, dalla Basilicata.

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San Frediano (2013-2015), Stanza 251

Angela

Angela aspetta dentro una lavanderia a gettoni, seduta, che si lavino i piumini. Non è nemmeno un anno che si è trasferita in una città nel nord, ma come sono cambiate in fretta le cose. Vivere giù era diventato impossibile. Per tante ragioni, ma prima fra tutte: lo sporco. Giù nemmeno esistono le lavanderie a gettoni, pensa. Ha come una vertigine, le sembra di essere a New York. Le sembra che il sole di febbraio fuori dal vetro parli con lei in un modo unico, come ritmico, come personale. Ma sono solo le cerniere lampo che sbattono, dentro la lavatrice.

Angela aspetta dentro la lavanderia a gettoni che i piumini siano puliti. Ha questa fissazione che tutto sia pulito, ha la fissa dei germi. Là al nord trovare lavoro è stato facilissimo. Lavora in un ufficio dal lunedì al venerdì, non le dispiace. Con i suoi colleghi e datori di lavoro si trova bene. Poi il fine settimana fa le pulizie a casa: c’è così tanto da pulire, sporco ostinato, che torna, che si ricrea costantemente, è una battaglia persa e che tuttavia deve essere combattuta. Sta bene dentro quella lavanderia a gettoni aspettando che il ciclo di pulizia a quaranta gradi sia terminato. Telefona alla sorella rimasta nella città del sud che le dice, nel suo dialetto lontano: Avevi la testa leggera, è per questo che hai chiamato? Per dirmi niente, solo per far passare due minuti?, mentre la luce che entra dentro alla vetrina della lavanderia a gettoni incendia la stanza. Sembra davvero di essere a New York, invece è soltanto una zona residenziale qualsiasi, in una città del centro nord d’Italia. Ma quasi le verrebbe da dire alla francese, de l’Italie.

Angela aspetta dentro la lavanderia a gettoni e telefona alla sorella che sta al sud, tanto per dirle niente, giusto per fare un saluto e poco dopo tornare a certi discorsi che si ripetono sempre tra loro, questioni insolute che non saranno risolte nemmeno da quella telefonata, da nessuna telefonata.

Angela aspetta che i suoi piumini siano puliti, dentro la lavanderia a gettoni, e vorrebbe che quel momento non finisse mai. Sa che quando i piumini saranno puliti, lo saranno solo per un attimo.

Foto di Carlo Zei

Foto di Carlo Zei

(Apparso il 31/08/2015 su Stanza 251)

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San Frediano (2013-2015), Stanza 251

La passeggiata

img_5025Camminiamo lungo la riva, tu ed io. È una mattina di giugno, la spiaggia è quasi completamente deserta, fatta eccezione per qualche cacciatore di arselle che a volte interrompe il suo lentissimo setacciare la sabbia per osservare il profilo della costa, in cerca della motovedetta della capitaneria. La sua tensione non ci appartiene, è soltanto sua. Noi siamo già lontani, già passati oltre, nessuna preoccupazione di ambito giudiziario ci opprime. Continua a leggere

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San Frediano (2013-2015), Stanza 251

Unghie e censura

Ci siamo amati mai?

Forse la tua domanda è una semplice provocazione e io dovrei prenderla così, senza stare tanto a ricamarci sopra.
Mi lasci questo biglietto, come se avessimo smesso di parlare e comunicassimo solo con messaggi cartacei lanciati tra me seduto e te seduta due metri più in là che fai le tue cose. Non è così: questo non è un racconto di Simenon.

Allora mi hai lasciato questo biglietto a cui non so francamente come potrei risponderti, se poi una risposta era prevista, considerata, possibile.
Fa niente, rifletto ora, ma mi viene da pensare alla tua domanda, alla domanda in sé e non a questo tuo gesto, alle ragioni che ti hanno portato a fare così. Neppure al perché e al senso di trovare il messaggio proprio oggi piuttosto che ieri. Neppure immaginare te che entri nello studio e lasci scivolare questo bigliettino piegato in 4 dentro al mio cassetto che non apro mai, quel cassetto con tutte le mie cose in disordine che rimetterò a posto ogni tre o quattro mesi. Quindi il tuo messaggio potrebbe essere là da chissà quando.
Ma non è questo che importa, ripeto, non su questo mi vorrei concentrare, quanto sulla domanda. Solo su quella. Su di me quindi, su cosa ne penso io. Pur essendo la tua una domanda al plurale, parli di noi, sul nostro amarci o non amarci, così che la risposta ipotetica è difficile, se non proprio impossibile, dal momento che tu non ci sei.

In effetti negli ultimi tempi sono stato piuttosto duro con te. Abbiamo litigato molto, e sopratutto in pubblico, con altre persone tra le palle. Era in quei momenti là che ho dato il peggio, che sono stato insopportabile. Non quando eravamo soli, che invece tornavo ad essere molto tenero con te. Non so questo che voglia dire né come lo si possa giustificare e comunque non c’entra niente con quella tua domanda scritta in viola, il colore della stilografica che mi ha regalato tuo padre.

Castrante non penso di essere stato mai, ma indubbiamente inflessibile su certe tue manifestazioni pubbliche, che erano tutte dimostrazioni di insicurezza. Quindi no, certe cose non le sopportavo e non le dovevi fare. Non penso tanto a certe scollature, se poi proprio volevi metterti qualcosa del genere, allora sarebbero state scollature molto poco scollate, colli a barca, canottierine comunque sempre sotto a schermare.
Poi a casa te le strappavo coi denti e rimanevi con tutta quella roba mezzo addosso, mezzo tirata su, e ci guardavamo felici, io credo. Ci guardavamo felici?

Te in effetti mi guardavi e dicevi: ti dico dopo. Mi sembra di ricordare che tutte le tue frasi cominciassero e terminassero così. Posticipavi la questione a dopo, a un secondo momento, a data da concordare.
Poi qualche volta, io credo, devo averti fatto anche presente la cosa, sì insomma, cos’è che mi volevi dire prima? Te allora mi facevi: prima quando? Ah niente, una cosa da niente, te ne parlo dopo, ora sono impegnatissima con questa unghia e con questa spilla per capelli con cui sto intrattenendomi a rappresentare un dramma greco, il Teseo, nella versione messa in scena da mio padre per la recita di fine anno dei bambini, lassù a Pian di Mugnone.
Va bene amore, rispondevo, ne riparliamo allora quando vuoi te. Per il momento c’erano solo i miei pieni e i tuoi vuoti, come dal macrobiotico. Nient’altro.

Penso a te che adesso sei lontana e ripenso che eri bella sempre, anche con quei vestiti che ti facevo mettere, con la tua chiavetta usb attaccata ad un filo, che si appoggiava ai tuoi seni. Quelle tue unghie che lasciavi crescere e con cui mi graffiavi la schiena e io ti dicevo: che banale! Ma mi piaceva e te le lasciavo tenere. A volte un’unghia si rompeva. Non te ne importava niente, se si rompevano, ma ti facevano male e a me la schiena.

Mi ricordo questo e neanche a me importa, di ripensare ad una certa serata di tanto tempo fa, quando si rideva della tua collana usb, delle tue unghie, di quei tuoi vezzi da donna, che avevano aggirato il mio visto censura. E là, a una cena inutile, io allora ridevo con il nostro ospite casuale delle tue unghie lunghe che paragonavamo a quelle dei chitarristi andalusi e dei cocainomani, ma che di fatto erano dimostrazioni della mia insicurezza, del mio non riuscire a trattenerti per niente.

La conferma al fatto che mi scappavi da tutte le tue parti, che già allora ti perdevo, che la mia strategia era pessima come a Risiko, che non avrei mai fatto niente con l’Oceania e il Sudamerica del tuo cuore. La verità stava in quella collana usb che te portavi così, come se niente fosse, o in quelle unghie mezze rotte: io lo capivo già allora quanto mi sarebbero costate.

Simone++Lisi+-+unghie+e+censura.odt
(Apparso il 23/04/2014 su Stanza 251)

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San Frediano (2013-2015), Stanza 251

La regola delle tre pagine

Così avvenne l’incontro con lo scrittore Matthew Licht che non conoscevo personalmente, ma che avevo già visto molte volte nell’osteria di Grassina in cui avevo lavorato per anni come cameriere.

Allora non lo sapevo che lui si chiamasse così, né che fosse scrittore, ma quando lo vidi entrare a Villa Romana accompagnato dalla moglie lo riconobbi immediatamente perché era un tipo esotico, perché gli anni passati non erano troppi e perché aveva un viso cinematografico che io potrei riconoscere tra cento simili. Così lo domandai a Giulia chi fosse quel tipo con il berretto in testa e il giubbotto da cacciatore. Come si usa a queste serate mondane, lo chiesi con discrezione, a bassa voce ed evitando di guardarlo direttamente.

Lo scrittore Matthew Licht, come luce, mi rispose Giulia. Sì, pensavo io, ma in che lingua? E la risposta era: in tedesco.Licht -ovvero luce come mi aveva spiegato Gioacchino, mentre Giulia si era già dileguata tra gli invitati- era uno scrittore di romanzi blues, o forse un musicista, suonava la batteria. Scriveva dei romanzi, ma era anche uno scalatore. Era molte cose, a sentire Gioacchino, non faceva, era. Così ci eravamo ritrovati noi tre addossati a un muro a parlare, a parlare più che altro loro due. Ero silenzioso perché loro, Matthew Licht e Gioacchino, non lo erano per niente e mi guardavano fisso e dopo un po’ dicevano: certo sei ben silenzioso tu, per essere uno scrittore. Già pensavo io, essere uno scrittore.

Comunque poi a Matthew glielo avevo chiesto, dovevo chiedergli qualcosa, dovevo pur trovare un canale comunicativo. E allora glielo chiesi come facesse, come trovasse la costanza, no, nemmeno, forse gli chiesi solo: ma come si fa ad essere scrittori, come lo sei tu, che scrivi, mi dicono, romanzi erotici e ora, mi dici, un racconto lungo dove si parla in termini non specialistici di alpinismo?

Dunque, come, fu la mia domanda quella sera a Villa Romana, con Gioacchino già completamente ubriaco a molestare chiunque, tranne le persone sbagliate, e chiedere al fotografo ufficiale della serata che ci fotografasse perché eravamo importanti o lo saremmo stati, che ci facesse qualche foto a noi tre in quell’angolo, mi viene da scrivere rincónche con Matthew lo scrittore inglese o forse americano ci fu un momento che parlammo in spagnolo tra di noi, dopo aver parlato di letteratura in generale e di quella ispano-americana in particolare. Lui parlò con marcato accento spagnolo, perdendo il suo accento italo-americano e assumendone uno tutto nuovo.

In un futuro remotissimo qualcuno le avrebbe viste quelle foto ufficiali dove si stava noi tre in un angolo, rincón, io, Gioacchino e Matthew Licht lo scrittore, a fare le facce serie come se fossimo già a pensare a foto ingiallite per il tempo, e magari quel qualcuno avrebbe detto: guarda te le coincidenze, che proprio quei tre all’epoca, non ancora famosi, si ritrovarono una sera per caso a un cocktail party qualunque, in una Villa Romana qualsiasi, a un’inaugurazione di una mostra generica e chissà di che parlarono, se poi riuscirono a parlare in mezzo a quella gente con tutto quell’alcool incorpo, in quel corridoio stretto e tutte quelle persone, soprattutto quelle donne che passavano là davanti con i loro vestiti fasciati e i loro occhi verdi lucidi distratti e direzionati verso i punti di fuga del corridoio.

Matthew e Gioacchino si erano già conosciuti, non so in quale contesto, in quale altra serata uguale o simile a quella, in un’altra Villa, con altri vini bianchi offerti, giusto per esserci, giusto perché si doveva esserci, o chissà perché. Lo so perché: per Giulia e la moglie mecenate di Matthew, per quelle donne che a quel mondo erano effettivamente dentro e non come loro, Gioacchino e Matthew, di rimbalzo, nel corridoio antistante, in virtù di quelle loro fidanzate o mogli.

Gioacchino aveva anche letto un suo libro, se non proprio letto almeno lo aveva sfogliato e così aveva voluto che ci conoscessimo, io e Matthew, o forse si annoiava. Aveva detto: ehi Matthew, lui è Simone, anche lui è uno scrittore. Lo aveva detto due volte, a voce alta, a prendermi in giro, per rendere tutto ufficiale, tutto difficile, per me. Così parlai con Matthew Licht in quel corridoio mentre Gioacchino fermava le persone che passavano e chiedeva cose assurde, e brindammo più e più volte, con del vino bianco, che a volte andai a versare io per tutti e tre, altre volte andò Gioacchino, mi sembra di ricordare, brindammo alla letteratura, ai libri, al Sud America e agli angoli come quello in cui ci eravamo messi, agli angoli quale famoso concetto kafkiano, perché luogo sicuro, dove tutto si vede, il luogo della verità.

Ma a quest’ultimo argomento non brindammo, lo dico io adesso, col sennò di poi, mentre cerco di restituire un po’ di quella mezz’ora passata là, parlando con lo scrittore Licht, i suoi quarantacinque anni, pelato, con la faccia molto americana, ma un’espressione pacata inglese. Un uomo ambitissimo dalle ricche signore di Villa Romana, come mi disse Gioacchino, ma irraggiungibile ad esse, poiché già preso dall’indiscussa leader di tutta quella baracconata di artisti, esperti, critici e curatori. Chissà magari era comunque possibile per le giovani, le curatrici; tuttavia, su questo punto Gioacchino non si dilungò, come se sapesse qualcosa ma preferisse evitare, da figura sospettosa quale lui è, che pensa sempre che ogni informazione concessa sarà prima o poi usata, come la pistola nel romanzo, e usata contro di lui.

Si parlò quella sera, con Matthew, prima di andare a una cena con alcuni artisti e i reietti della Villa, quelli non invitati alla cena ufficiale. Si parlò come a volte io ho parlato con gli scrittori, con un’attenzione speciale alle loro parole, al modo di dire una cosa, cercando di capire se stanno parlando o se stanno ricordando qualcosa che scrissero una volta e ora riusano, per stanchezza, abitudine, per semplicità, per scarsa voglia o per voglia di andare avanti al ritmo, di essere simili a quelli che furono, perché poi stare nel presente riesce male ad uno scrittore, penso ora. E anche io chissà dov’ero in quel momento, durante quel discorso con Matthew e durante tutta quella sera in generale, se pensavo a Diana lontanissima nella città in fondo alla strada, se pensavo al lavoro il giorno dopo oppure ai progetti futuri, un romanzo, un ristorante, la partita di calcio del venerdì o cose ancor più piccole, piccolissime beghe del presente che pure riuscivano ad allontanarmi da lì.

Così, come spesso accade quando incontro uno scrittore, gli chiesi come facesse a scrivere, come si facesse a scrivere, come faceva lui, se c’era una regola che seguiva, qualcosa, un trucco, quando ritagliasse del tempo alla vita, al presente così pure poco presente, per scrivere, al computer con la fronte lievemente corrucciata e gli occhi veloci a seguire le dita sui tasti e poi perderli e pensare ad altro.

Rispose di sì, che una cosa c’era, che lui si era dato come regola, e là citò credo Hemingway, quella di scrivere come minimo tre pagine al giorno, anche quando non c’era niente di niente da dire, tre pagine di parole di seguito, a forza, e qualcosa in quelle tre pagine non si sarebbe salvato, mi disse, ma avrebbe contribuito chissà come a fare di quel suo tempo il suo lavoro.

(Apparso il 23/02/2014 su Stanza 251)

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