Prato vista dalla Luna

Tribeca

Siamo stati al Tribeca, di venerdì, dopo una cena al ristorante etiope (capitolo a parte) e al Tribeca c’era la stagnola su tutte le pareti. Le stagnole erano nuove, e ci siamo domandati quanto ci avessero messo a impacchettare tutto col domopak.

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Undicesimo pratese

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Se le cose fossero state diverse e fossimo rimasti a Sesto Fiorentino. In quella piazza che si affaccia sul Despar. Magari avrei un rapporto diverso con le periferie, con Monte Morello e con la Calvana, con le città di Firenze e Prato, magari anche con la letteratura.

Magari fossimo rimasti a Sesto Fiorentino oggi sarei un Dostoevskij. Avrei passato molte più ore a riflettere sulla vita, avrei avuto del tempo libero, sarei diventato un grande scrittore, e questo sarebbe stato bello non tanto per me, ma per la letteratura in generale. Se le cose fossero andate diversamente e in una guerra del passato che mai si è combattuta tra Prato e Firenze avesse vinto Prato, ecco allora Sesto Fiorentino non si sarebbe nemmeno chiamato Sesto, ma Undicesimo Pratese.

A volte penso a come sarebbero andate le cose se fossero state diverse. I nomi e le parole sarebbero stati diversi, questo penso a volte. Più che la sostanza. Ma forse i nomi sono la sostanza e le guerre sono fatte per i nomi.
I dialoghi sarebbero andati così:
«Da dov’è che viene tuo padre? »
«Da Undicesimo Pratese».
«…»
«MBE? Che vuoi da me?»

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TROVA LA DIFFERENZA

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Oggi, o forse ieri, ho iniziato questa rubrica su Prato. Ho chiesto alla persona che dorme accanto a me (originaria di Prato), le ho chiesto di nuovo la differenza tra un pratese e un fiorentino (l’ho chiesto come se fosse l’inizio di una barzelletta: su un autobus ci sono un pratese un fiorentino e un… ), le ho chiesto questo come se non parlassi di noi due.

Lei mi ha detto che la differenza starebbe in un certo grado di consapevolezza. Il pratese vive nel complesso di essere in una città di provincia. Il fiorentino non lo sa, pensa in cuor suo di essere a New York, a Londra, o in un posto del genere. E sbaglia.

Per il resto, pratesi e fiorentini sono assolutamente identici. Io ho ascoltato e non ho detto niente, poi lei si è messa a preparare le lezioni per i suoi studenti americani, dopo che aveva finito di riguardare delle bozze per il suo secondo lavoro come correttrice di bozze (in realtà di lavori ne fa tre, ma io cerco di non sopravvalutarla), mentre io mi sono messo con estrema calma a scrivere questa rubrica. A scriverla così, a caso, come mi veniva. Per nessun motivo particolare. La mia fidanzata pratese stava là davanti a me a lavorare, mentre io scrivevo due righe e ogni tanto la guardavo. Mi limitavo a perder tempo. Già.

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IL LABORATORIO DI SCRITTURA

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È successo che, con il mio collega di scrittura Ferruccio, abbiamo cominciato l’anno scorso ad andare a un laboratorio di scrittura. A Prato. L’ambiente fiorentino completamente saturo, ai reading non c’era posto neanche in quinta fila, ci avevano escluso anche dalle letture di poesie organizzate dalle scuole medie secondarie.

La prima volta che siamo andati eravamo emozionati, siamo partiti con la macchina di Ferruccio e ci siamo presentati al laboratorio di scrittura vagamente in ritardo. Per l’occasione, così da non creare equivoci al riguardo, ci siamo presentati con barbe lunghe di due mesi (alla Tolstoj per intenderci) e pesanti pastrani che arrivavano fino alle ginocchia. Facce lugubri. Così per mettere tutti a loro agio, là al laboratorio. Non abbiamo detto niente tutto il tempo, stavamo in fondo a massaggiare le nostre rispettive barbe, e poi ce ne siamo andati.

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TIRO CON L’ARCO

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Quando ero ancora alle scuole elementari il mio amico Davide P. e la sua famiglia (i P.) si trasferirono a Prato. Ragioni di lavoro, di affitto, non so nemmeno io cosa. Ora che ci penso loro non erano fiorentini, ma stavano a Firenze già da molti anni. Fatto sta che decisero di lasciare la città nella conca per trasferirsi negli spazi ampi della piana.

Lo andavo a trovare il sabato o la domenica, a volte per l’intero week end. Eravamo i figli unici di quella generazione di apri-pista di figli unici, ancora privi di supporti tecnologici a cui i genitori potessero sbolognarci.

La casa nuova di Davide era più grande e più bella di quella vecchia. C’erano ampi campi intorno e in fondo stava una strada ad alta percorrenza. Mi ricordo che giocavamo come giocavamo a Firenze, stessa merenda con il pane e Nutella, e ricordo infine che il padre di Davide prese una nuova abitudine: di tirare con l’arco.

La cosa divenne sempre più un’ossessione per lui, al punto che aveva addirittura dei bersagli che non erano i normali covoni con al centro dei cerchi concentrici, ma dei finti cervi che da lontano sembravano veri. Io più che interessato all’arco, che per me era inutilizzabile come per i Proci a casa di Ulisse, ero affascinato da quel cervo finto. Così Davide e la sua famiglia, a trasferirsi a Prato, ci avevano guadagnato di possedere un cervo, pensavo.
Possedere un cervo: quasi un ossimoro.

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GLI AMICI ARTISTI

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Ho degli amici artisti che sono giovani e sono artisti e vivono vicino a Firenze.
Sono belli e bravi, ma sono molto complicati.

Hanno esposto un loro lavoro a Prato, l’anno scorso, e io li ho accompagnati qualche volta a fare le riprese per questa loro opera. Da esporre. A Prato. L’opera era un video, una cosa concettuale sulla mappatura dei suoni che emette la città stessa. La città di Prato. Non concettuale, volevo dire: complicata.

Loro hanno esposto il loro video, e la sera dell’inaugurazione sono andato con la mia amica Silvia, ma siamo arrivati tardissimo, ci siamo persi in zona Inter-porto.

Non trovavamo il posto anche una volta arrivati in centro, l’università dei canadesi, abbiamo chiesto aiuto a una ragazza e lei ci ha accompagnato e se l’è pure vista con noi, l’opera dei miei amici. Non l’ha capita «Non ho capito», mi ha detto. E io le ho detto: «Come non hai capito? La mappatura… una cosa, le hai viste le formiche? Lo sai com’è l’arte contemporanea», ho detto alla ragazza sconosciuta.

Poi siamo andati via, e l’opera ha continuato a esporsi, in loop, per tutta la sera.

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VIAGGIO AL CENCIO’S

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La prima volta a Prato, per me fiorentino doc fu alla soglia dei sedici anni. Intendo per la prima volta autonomamente, in età di ragione. Fu al Cencio’s.

Avevo da poco scoperto che si poteva uscire anche di sera. Non c’entra molto, ma bisogna che io lo dica. Ero stato una sola volta oltre il tramonto in un locale notturno di Firenze. Era la fine degli anni novanta e il pub si chiamava Transilvania (ca va sans dire). Ero andato in questo posto apparentemente pauroso (le finte bare su cui mettere una birra piccola), ma per me che non ero mai uscito, autenticamente pauroso.

La seconda uscita serale fu al Cencio’s, come dicevo. Con alcuni amici più grandi di qualche anno fricchettoni/grunge (confusi?) con le magliette degli Smashing Pumkins, loro, e io? Mi domando: vestito come? Con quale maglietta improponibile?

Partii che era buio con il mio vecchissimo Zip 50 nero a sella lunga (malgrado dessi di continuo passaggi al mio amico Cecco, era vietato andare in due sul cinquantino. Perché allora quelle selle?), partii per Prato come si parte per il mare, come quando si è giovani e tutto è ancor più che possibile: probabile.

Ho dei ricordi vaghissimi di quella sera, non perché avessi bevuto, ma perché fu come quando gli aborigeni ti portano nel bosco per farti diventare uomo. Non successe niente, in verità, ricordo solo un ambiente fumoso e bevute rovesciate per terra, musica alta e strade di campagna tutto intorno, impossibili da decifrare per arrivarci. Ma fu qualcosa di epocale, lasciapassare per l’età adulta, mitologia da rubrica.

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Ravioli da Ravioli Liu

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Se anche i Super Duper vanno a cena da Ravioli Liu vuol dire che ormai Ravioli Liu ce l’ha fatta. Ravioli Liu, un solo ristorante rimbalza tra le bocche dei fiorentini con cappelli e cappellini, con occhiali e lenti a contatto, con (ahimé) risvolti e raramente belle caviglie, molto spesso brutte.

Ravioli Liu, una sola voce si diffonde nelle strade (prima piano, poi si rafforza, quasi lampeggia), andiamo a Ravioli Liu, prenotiamo da Ravioli Liu, portiamo i nostri amici francesi (nizzardi) e romani (del nord) portiamoli tutti da Ravioli Liu, dice che c’è pure un pene di daino in salamoia, all’ingresso (ad uso decorativo).

Poi al momento di partire per Prato (finalmente Plato) la macchina non si è messa in moto e noi siamo rimasti in zona San Frediano.

La voce (Ravioli Liuuuu) si è fatta via via più esile e quando poi una sera, mesi dopo, abbiamo di nuovo chiamato per prenotare, un signora cinese ci ha detto che non c’era posto. A noi è rimasto il dubbio che non accettassero più le prenotazioni.

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