Ottobre, novembre 2017 Continua a leggere
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Un testo facile e uno difficile per lo schermo dell’arte
1.
Passare dal mondo dell’ufficio, del lavoro, del chiacchiericcio, al mondo del cinema, dello schermo dell’arte, della video arte, è quanto più prossimo io penso sia lo shock culturale. E’ un salto impossibile, è un incontro non dato, è il respingimento, è respingente contro respingente. Il mondo fuori e lo spazio dentro, le mie colleghe e i loro discorsi, il televisore nuovo da acquistare, i figli, e questo vetro incomprensibile, queste superfici, mattonelle che vengono proiettate, con un rumore di sottofondo, una nota continua. Eppure mi sembra che quello che proiettano qui sia un continuo tentativo di rispondere a questa domanda: come spiegare queste immagini incomprensibili ai miei colleghi di lavoro, come spiegare questo reciproco respingimento?
2.
Il Giovedì è la serata che conta. Il momento antitesi. Dopo lo sfarzo (il classico) del primo giorno, dei lustrini, delle file fuori, delle luci della prima sera, è il secondo giorno quello più difficile, quella serata che può spiegare davvero un festival. Lo schermo dell’Arte, cos’é?
Arriviamo di corsa, alla spicciolata, donne del sud strappano i nostri biglietti (ma non c’è nessun biglietto da strappare), donne del sud al festival ci hanno pure fatto entrare, seppur in questo caso l’accento sia milanesissimo, e altre donne ancora siedono tutto intorno a noi: hanno i pantaloni “colore denim”, lo stesso lavaggio identico. Non è un caso, è solo la moda del momento.
Scrivo qui in ultima fila una breve nota su un fogliaccio di carta assorbente, già pronto a partire per il festival di Torino, affranto per quello che mi perdo qui, per la serata tre (le esplosioni che sono il Venerdì, senza le preoccupazioni del domani, il Marzo), senza pensare al Sabato (l’apoteosi), senza pensare alla depressione della Domenica (ma di certo Domenica sarò di nuovo di ritorno in città).
Andare via nel momento migliore, schermo dell’arte, con la tua presentatrice perfetta d’altri tempi flemmatica, con quella sua voce scivolata, quella sua cadenza nobile, quella freddezza e pantaloni larghi dove devono, ma che sto dicendo? E Ester che bella, non si può proprio dire niente al riguardo. Schermo dell’arte, che cosa bella siete voi che mi sedete a lato, che mi attendete su un divano, che mistero, che cosina che io non so dire, schermo dell’arte, già a scrivere queste righe su un pezzo di carta, lo so, io vi sto facendo un mezzo torto.
Sixto Rodriguez – una recensione non direi
Ultimamente con Flavio andiamo solo a concerti di gente over 70.
Sarà perché una mattina Vasco Brondi si svegliò ed era diventato Vasco Rossi. Non si sa.
Fatto sta che poi a questi concerti di ottuagenari riusciamo anche a divertirci e i nostri commenti suonano più o meno così:
-Certo che l’età pensionabile si è alzata parecchio
-Si aggira lo spettro del playback
-I musicisti di Sixto Rodriguez sono anche i suoi badanti
-Il braccio destro non lo usa, guarda come è flaccido in confronto al sinistro
-Ma ti sembra che muova la bocca, perché a me no
-Guarda il piede, come lo usa per fare perno
Durante il concerto mi distraevo e pensavo al significato del nostro ascoltare quei vecchi e la risposta che mi davo era che in fondo si trattava del nostro senso di colpa deviato, per non aver mai dato retta ai discorsi dei nostri nonni, essercene sempre fregati dei loro discorsi.
E ora, eccoci tutti quanti là.
Setti al Volume
Mare, che canzone hai fatto Setti, Nicola.
“Lo sai che noi non siamo persone, siamo relitti di una nave, sopra i tetti delle cose, tu, per me sei come il mare”
Qui, nel dopo sbronza −Sì, forse abbiamo un problema alcolico− mentre piccoli esseri, si direbbero bambini, ma sono dei mostri rumorosi, sono come quelle formazioni rocciose alte centinaia di metri che stanno su Solaris, si muovono in maniera insicura di fronte a me dentro al bar in cui vado a scrivere al mattino, io ascolto con le cuffie a tutto volume la musica di Setti, perché sto cercando di scrivere qualcosa su Setti e ascolto per coprire i rumori dei bambini, ma anche perché ormai sono un professionista assoluto del giornalismo, lo sai, e arrivo sempre a queste cose iper preparato.
Così nel dopo sbronza, possibile -mi domandi- sbronzarsi di mercoledì?, ma non c’è nessun tu, mi diceva Setti, quando in “Mare” utilizza il “tu”, beh, quel tu non c’è.
Setti, andiamo a sentire questo ragazzo un filo triste, cosa c’è?, gli domandavo. Non sei contento? Perché sei giù? Cos’è, domandavo, esistenzialismo? Lui allora mi guardava scuotendo la testa, no, non è quello, diceva.
Il concerto al Volume di Setti: era onesto, una chitarra e una voce, la sua, di Setti, semplice non lo so, so che lui scriveva qualche ora prima, su Facebook: “Non sono figo nemmeno in treno con un chitarra elettrica. Sembro un rappresentante di chitarre”.
Gli domandavo allora di Modena, del suo lavoro, fare il tuttofare in un cinema e quello più recente nei corsi di formazione, i suoi trent’anni, dei suoi gusti musicali, la situazione che aveva intorno, come e quando scriveva le sue canzoni, la maniera in cui era uscito fuori quel suo singolo, e l’album nuovo che avrebbe parlato di violenza e di impiegati alle poste, e l’album vecchio invece, di come erano andate le cose.
Ma malgrado tutte queste domande io non riuscivo a capire Setti, cosa avesse, perché fosse un filo preso male, non tanto, ma un filo, se fosse un atteggiamento nei confronti della vita, e se sì, della vita di chi.
Andando verso casa basculante domandavo a Gioacchino se mi dava una chiave di lettura e lui mi parlava di Chicago, quindici anni fa, che per lui Setti era nostalgia di un posto dove non era nemmeno mai stato, dove forse abitava suo fratello, dove tutto era identico, bambini alti centinaia di metri, dove la gente parlava un’altra lingua, come noi, del resto, che pure ci parliamo.
King Khan And The Shrines live @ tender:club
Riprendo in mano i miei appunti sul concerto di venerdì e vorrei scrivere in un italiano elementare, per poter poi essere compreso da lui, da King Khan, che pure qualche parola e idea dell’Italia doveva averla. Bestemmiava, citava Pasolini, voleva che le persone del pubblico formassero un qualche coro su Salò, ma non conosceva l’accento esatto, King Khan, così lo chiamava semplicemente Salo. Di conseguenza si creava dell’incomprensione, tra lui e il pubblico, l’incomprensione degli inizi, quando si entra al Tender e si attraversano veloci le zone con le luci viola nemiche della forfora, quando si arriva al Tender e ci si domanda quale sia il target della serata e in generale di quel posto.
King Khan, leggo sul mio quaderno degli appunti:
“Che i suoi capezzoli fossero asimmetrici questo era l’ultimo dei suoi problemi”. Infatti il cantante era senza maglietta, solo un mantello e una maschera messicana, per il resto vari tatuaggi e quel suo corpo asimmetrico. Ma non sembrava farci caso.
“Tu chiamalo se vuoi rock, io lo chiamerei Aldo Palazzeschi”
Trascrivo questa frase apparentemente senza senso e mi domando quale connessione neurale avesse fatto il mio cervello, ma forse era semplicemente la grappa cinese, al bambù, mischiata con birra, con jack daniels e coka, e con altra birra, che mi portava a dire quello.
“Non si può fingere con King Khan, con lui si è ciò che si è”. La sensazione che ho, riprendendo in mano questi pochi appunti di venerdì, è di una certa confusione, che si diffondeva tra me e il pubblico, tra i bicchieri di birra vuoti o semi vuoti che volavano, del ritmo sincero e marcio di quella serata, basculatoria, che per me era omaggio a una serata personalmente mitica a cui ero assente, ma a cui prese parte tutto il mio mondo, a Venezia, su una barca e che potrebbe essere forse paragonata in letteratura alla notte di Valpurga, ma su cui ovvio non dirò qui una sola parola.
Me ne andavo via con molta incertezza, il clima rigidissimo di quei giorni e la sensazione che se King Khan ci inchiodava a ciò che eravamo, io allora ero un mezzo sbronzo che vagava solo, verso casa.
I Camillas
La complessità dei Camillas e io là davanti, nell’oscurità a finirmi le unghie.
Sarebbe forse cominciato così il pezzo, e così comincia. Ma poi sarebbe stato tutto diverso, avrei parlato di me, che mi alzavo stanco lo stesso, anche se ero andato a dormire presto e la mattina facevo tutto con calma: arrivare al bar in orario, sedere al tavolo d’elezione, il primo sulla destra, nella saletta quella luminosa e avrei scelto quel tavolo specifico non tanto per una questione difensiva, che da là riuscivo a controllare chi entrava e usciva, così le fiere non mi avrebbero attaccato, quanto tutto l’opposto: per un fatto di aggressione, mia, di gerarchie degli affetti, che quel luogo io me lo sono conquistato. Avrei detto qualcosa del genere e poi avrei parlato della complessità dei Camillas, del loro essere colti, estenuanti, del loro criticare così smaccatamente chi li ascoltava e avrei parlato anche della mia incapacità di avvicinarmi a loro, mentre era stato così facile avvicinarmi a Cristiano che quasi si era avvicinato lui a me. Cristiano che avrebbe suonato prima dei Camillas e mi aveva parlato piano di altre date e di vino, come si può parlare prima di un concerto, con una leggera tensione che poi sarebbe scesa dal suo volto, ma solo dopo, dopo quelle sue canzoni dolci e dopo quelle dei Camillas così complicate che la mattina mi svegliavo e mi sanguinavano ancora tutte le pellicine.
Poi le cose sono andate diversamente, dicevo, e in particolare la mattina io non sono riuscito a svegliarmi e arrivare in orario anche se nessuno mi aspettava, al bar della mattina. Fatto sta che qualcuno si era già preso il mio tavolo, qualcuno che neanche avevo mai visto. Come sia stato possibile questo ritardo non ha niente di strano, sono sempre in ritardo, ma questo specifico è conseguenza di qualcosa che in parte, inconsueto, lo era, ovvero che la sera del concerto avevo fatto tardi, e anche qui tutto normale, avevo fatto tardi al termine del concerto dei Camillas, perché io ero diventato un vero giornalista musicale, anche se per meriti non miei e intenzioni sconosciute, riuscendo quasi a intervistare uno dei Camillas.
Così ho fatto davvero delle domande e non ho appuntato le risposte, ma è stato utile a capire che quasi tutto quello che avevo pensato su di loro, tutta la complessità, l’essere ubriachi, l’aggressione e addirittura l’odio per quel pubblico che rideva alle battute era roba mia, e adesso che ne scrivo qui nel bar e ancora mi titillo le pellicine arrossate ripenso a come sia possibile andare così lontani dal capire, e mi domando anche cosa volesse dire Giulia con quelle parole di sfuggita fuori dal locale, che li sentiva per la prima volta anche se era il suo decimo o undicesimo concerto e non tanto perché non ci si bagna due volte nello stesso fiume, come dicevo io tanto per riempire blandamente un discorso che non capivo o cesellarlo, ma cesellare niente, era tutt’altro, quel suo discorso che poi terminava in un pensiero ulteriore, che forse era lo stesso pensiero o forse non era un pensiero e sarebbe in sostanza la differenza tra fare qualcosa e dirla. Allora Giulia mi prendeva per un gomito e Giacomo le diceva, mentre gli passavamo davanti: Sì, Giuglia, prendi Simone per un gomito e portalo là, e così eravamo davanti ai Camillas e io mi avvicinavo all’altro che rimetteva a posto i cavi e dopo c’era quel suo discorso così calmo, così poco atto a mettere in discussione tutta la mia intera vita.
Allora era il mio viso ad essere disteso e non solo quello di Cristiano, e i Camillas non erano fratelli ma quasi e avevano iniziato a somigliarsi come una coppia e la mattina Toto avrebbe lavorato nella costa est dell’Italia e io, avrei ripensato a quel suo discorso sul successo, quelle sue declinazioni oscillanti tra tirarsi schizzetti di merda addosso o poter arrivare a un pubblico più ampio, ci ripenserò ancora la mattina dopo, qui seduto a un tavolo che non è il solito, al mio bar di elezione, seduto a un tavolo dal quale non riesco a controllare quasi niente a causa della posizione, chi entra e chi esce, in ritardo di circa un’ora su tutte le mie abitudine e quel ritardo poi me lo proietterò sulla giornata, ma sto bene o benino e mi lascio leggermente scivolare sulla sedia, scrivendo di quell’ennesimo martedì da questo mercoledì e stasera ci sarebbe perfino una partita di calcio e dentro la mia testa un’asta, come dentro ai qualunquisti, ma non ne sono sicuro che ci sia quell’asta, per fortuna non lo sono e anche le intenzioni, sempre sconosciute.
26 marzo 2014
Marcello e il mio amico Tommaso
Fuori dal Volume, una Piazza, c’è Giacomo con il berretto da impresario che gli ho portato io da Boston e forse una mezza sigaretta che pende dalle labbra. Si muove con le spalle incurvate, si muove calcando i passi, com’è sgraziato Giacomo, ma non lo è per niente quando suona con Giulia, lui allora si aggira con il viso truce e il concerto deve ancora iniziare e non inizierà a breve che i Marcelli son tutti là fuori a mangiare la pizza con la fame degli adolescenti, con una fame e degli occhi di gente che ha vent’anni e forato la macchina mentre venivano qua da Roma. La prima cosa che dico loro è che la voce di Marcello è tutta diversa da come pensavo fosse, pur essendo di fatto riconoscibile a quella già sentita nell’album. E’ quella stessa voce, ma è pure un’altra. Faccio il mio ingresso nel mondo delle interviste ai musicisti con questa cazzata qui.
Il concerto poi va bene. Loro sono bravi, tanti là sul palco, e reggono bene la stanza stretta, angusta, gli americani seduti nelle prime file, reggono bene la loro giornata lunga cominciata in un’altra regione. Suonano il loro pezzo tormentone senza farne un caso, quando gli viene richiesto. Diana allora se ne può andare contenta e io rimango là, tra le prime file in ordine a dialogare con Giacomo ancora impresario che finalmente comincia a rilassarsi e tutto semplicemente va bene. Poi il concerto è finito e noi usciamo là fuori, la Piazza, dove si parla dei nostri progetti, brevissime interviste, calcio, In Fuga dalla Bocciofila, e altri progetti ancora, con quel modo che abbiamo noi di parlare delle cose ultimamente e così poi continuiamo a parlare con questi ragazzi di Roma che non hanno trentanni, che mi parlano di S.Lorenzo, del Pigneto lontano, di come si sono conosciuti Tommaso e Marcello, una volta tanto tempo fa che quest’ultimo ancora non parlava italiano e andava alla casa al mare, ad Albinia, ad Anzio, qualcosa con la A., non mi ricordo e là ci stava –sì, ci stava, nel senso che c’era– anche Tommaso che già allora giocava a calcio di Cristo, come ora, che gioca come un olandese, come Crujff, e là al mare nemmeno diventarono amici, solo si videro di sfuggita e parlarono la lingua internazionale del calcio o dei bambini e semplicemente costruirono i presupposti per l’incontro del futuro, quello sul Lago Trasimeno, in una minuscola isola dove si davano appuntamento i musicisti di mezza Italia o del centro Italia. Così là si riconobbero, ma anche quella volta finì là. Poi ci fu un terzo momento che avrebbe fatto di loro un loro specifico e un gruppo, ma di quello non abbiamo parlato, che qualcosa deve essere sopraggiunto, forse c’era da spostare la macchina perché pulivano le strade.
Poi Neri ha fatto i tarocchi, poi Giacomo e Giulia hanno suonato così bene, come una coppia alla Fitzgerald, come suonano bene quando non possono suonare che mezzanotte è passata e loro continuano a farlo pianissimo quasi al rallentatore o nel replay della moviola, e poi erano le tre ed era già mercoledì e domani c’era del resto da lavorare, quindi si andava a casa a fare una canna anche se io avevo proposto una tisana ed ero stato ringraziato, cortesemente, ma no, la tisana non la vogliamo che comunque siamo in tour e potremmo al limite drogarci e scopare, ma mai bere una tisana depurativa prima di dormire. Si parlava allora di letteratura, di Buzzati, di Un amore,
La mattina Marcello si presentava in cucina con la sua faccia appena sveglia quasi inglese e mi raccontava le ultime cose, come se io stessi facendo un’intervista a lui, e in effetti era così, ma mi chiedeva anche di me, della mia vita, delle mie mattine, del mio yoga e del mio ufficio, di questo quartiere, come se non facessimo interviste o non interviste di un certo tipo. Poi io uscivo di casa e gli spiegavo di chiudere bene la porta quando uscivano. Cominciava il mercoledì.
12 Marzo 2014
Halibut | Curriculum Vitae
Mi chiamo Alessandro Bechi, ho trenta tre anni, e sono originario dell’alto Lazio. Al confine con l’Umbria. Mi sono trasferito a Firenze con la famiglia quando ero piccolo. L’alto Lazio è il posto più bello al mondo. Là, la vita costa meno. Gli affitti. Le bollette: della luce e del gas. Le assicurazioni della macchina. Del motorino. L’allacciamento alla rete telefonica, la connessione a internet. Oltre a questo è molto importante dire che là, nell’alto Lazio, la vita è in bianco e nero. I colori, vi dico, non sono quelli normali che ci sono a Firenze o dovunque, nel mondo, ma là vi è solo una scala di grigi e bianchi e neri e grigini, e altre medie tonalità. Qualcuno potrebbe forse parlare di sfumature di grigio, ma io non faccio questo genere di film. Faccio un altro genere di film. È bene che lo sappiate fin da subito.
Comunque dicevamo dell’alto Lazio. A parte il fatto che non ci sono colori, per il resto è tutto identico a qui, stesse persone, stesse cose da fare di sera, tutto esattamente identico, escluso il prezzo medio della vita. Altra differenza che avevo scordato di dire è la presenza, a volte, durante certe ore prefissate della giornata, di una musica. Di Chopin (valzer in si minore, opera 69, registrato e reinterpretato da jewelbeat), per cui tutti, nell’alto Lazio, interrompono le loro attività o le continuano, ma si fanno silenziosi, e risuona questa musica tristissima di sottofondo, come se fosse la steppa russa, come se fosse un sogno di Tarkovskij. Vieni diffusa nell’ambiente a volume medio alto da delle casse posizionate ad ogni angolo di strada, per legge.
Ci sono delle persone, per lo più anziani, a cui viene chiesto di indossare dei party bag, che sarebbero degli speciali zaini trasporta casse amplificate, perfette a diffondere la musica nelle zone più difficili da raggiungere con la normale filodiffusione. Penso che quando sarò vecchio tornerò nell’alto Lazio e chiederò di essere assunto anche io, a compiere il ruolo di anziano porta cassa. Ma per il momento mi dedico al cinema. Il posto da cui vengo non influenza la mia poetica e il mio modo di fare cinema. Per niente.
Mi piacciono moltissimo le maschere di carnevale. La mia città preferita al mondo è Venezia, la seconda è Viareggio, la terza Rio de Janeiro, in Brasile. A causa del carnevale.
Il fatto che mi piacciano le maschere non fa di me una persona strana. Sono una persona normalissima, anche a livello sessuale non ho nessun tipo di fissazione particolare. Il missionario. Ecco quello che ci vuole per me.
Nessuna mascherina, No, No, No, ho detto di no.
Dheepan – Una nuova vita | Cose che sarebbe meglio non fare in dopo sbronza
Partendo dal presupposto che in dopo sbronza non è piacevole fare nessuna cosa, ci sarebbe da aggiungere che alcune sono particolarmente da s-preferire.
Penso ad esempio all’essere chiamati al telefono. Io odio il telefono sempre, ogni giorno della mia vita e dell’anno, ma sarebbe assolutamente da non accendere in quelle giornate specifiche, quelle in cui la sera prima si è bevuto del gin cantando i tormentoni cingalesi.
Se però si dovesse decidere di rispondere al telefono e fosse per caso qualcuno che non ha sbagliato numero, ci sarebbe da augurarsi che non fosse la nostra presunta moglie, ma di fatto perfetta sconosciuta, con cui siamo scappati da un paese in cui c’è la guerra civile e in cui tutta la nostra famiglia è stata uccisa. Questa telefonata risulterebbe oltre modo spiacevole, in dopo sbronza, e la cosa potrebbe essere implementata ancora se lei fosse in ostaggio di un qualche spacciatore francese mezzo morto all’interno di un palazzo circondato da balordi drogati.
Così si tratterà di rimettere un po’ i cocci insieme, senza passare dal divano, vedere un po’ se si rimedia una mezza mannaia e poi, sempre con un mal di testa lancinante e un viso gonfio come quello di un calciante di calcio-storico fiorentino dopo una domenica di fine giugno, si tratterà allora di fare mente locale a dove sono le chiavi e se per caso c’è qualcosa di cui ci dovremmo vergognare riguardo il nostro comportamento della sera prima, ma tutto questo farlo ve-lo-cis-si-ma-men-te perché nostra moglie (non veramente nostra) potrebbe essere molto arrabbiata con noi. Anche per dei motivi non chiarificati. Detto questo la cosa migliore, in quelle mattine, è che non sia lei a telefonarci, ma uno che ha sbagliato o che vorrebbe venderci un nuovo contratto telefonico, ma puta caso fosse lei è importante, questo voglio dire, che non si sia colti da uno scoppio d’ira irrefrenabile che ci riporta al nostro passato di guerriglieri tigri tamil proprio in quella mattinata in cui, è vero, si sarebbe stati volentieri a rigirarci nel letto.
Detto questo è possibile che vada proprio così.
(L’ultimo film di Audiard è davvero molto bello. C’è una prima parte abbondante che è quasi perfetta (non so se il film sia al livello de Il Profeta, ma perché poi paragonare le cose?). Se poi qualcuno mi volesse far notare che il regista francese Audriard rappresenta una Francia come un paese dove vige o quasi lo stato di natura (seppur tutti trovino lavoro e una casa), una Francia composta da zone franche dove la legalità è soppressa, di contro a una rappresentazione (seppur brevissima) di un’Inghilterra isola felice, dove sembra esserci il sole e i cortili con l’erbetta, ecco, io non lo so. Non credo francamente che sia così, né che sia così semplice, sennò la metà dei miei coetanei vivrebbero già a Londra (è così, ora che ci penso). Comunque in conclusione quello che vorrei dire (confessare) è che veramente ho pianto tutto il tempo come un deficiente ripetendo: un film doveroso, un film doveroso, la dignità del lavoro, la dignità del lavoro e altre frasi così.
In conclusione. Se vi capita andate a vederlo, me ne assumo la responsabilità io, anche per i vostri commenti imbarazzanti).
La prima luce | Film che non ho finito di vedere al cinema
Uno. Grindhouse
Un tempo aveva un’amante. Si incontravano a casa di un amico, o nei dintorni della casa dell’amico che era un po’ fuori città e i rischi di incontrare gente conosciuta erano minimi. Si incontravano una volta a settimana o anche meno. Lui là aveva un qualche lavoretto saltuario per cui che fosse da quelle parti non stupiva nessuno. Lei lo raggiungeva con la sua panda bordò, perché era una studentessa e aveva molto tempo libero. I rispettivi compagni, chissà se sapevano qualcosa, o no, ma magari qualcosa potevano sospettare, comunque quella situazione era a tratti bella e a tratti faticosa. Molto faticosa sopratutto mentalmente, cosa ho detto a chi, che registro usare in un caso e nell’altro, frasi ripetute più volte. Perché dopo un po’ che durava la storia clandestina anche quella iniziava a normalizzarsi e si entrava in dinamiche di abitudine, come dall’altro lato, nella relazione solare. Poi una sera lei insistette per andare al cinema, a vedere Grindhouse, in un cinema del centro, che oggi non esiste nemmeno più. Era mercoledì sera e lui lo sapeva che non era una buona idea accettare, ma accettò. Perché era stufo di quella situazione, di segreti, di bugie. E al cinema preciso nella poltrona dietro la loro c’era seduto il miglior amico della ragazza, di quella ufficiale, ecco come fu. Lui a metà film si alzò e andò via perché era certo di esser stato riconosciuto e perché il film comunque gli sembrava un po’ una cacata.
Due. Il muro
All’epoca loro andavano con una tessera amici del cinema, al cinema quasi tre volte alla settimana. Avevano diritto a sconti assurdi con quella tessera, non pagavano quasi niente, una tessera che pagavi all’inizio dell’anno ottanta euro e vedevi più di cento film, se avevi voglia. Ma dopo un primo anno molto intenso quelli dell’organizzazione alzarono il prezzo delle tessere, di pochissimo, ma lo fecero, così che loro decisero che malgrado fosse giusto (il primo anno era stato quasi un errore quel prezzo, era sotto gli occhi di tutti) loro decisero di comprarne una solamente, di tessera, e poi rifarne altre tre o quattro, con la stampante e i primi programmi di grafica che giravano. Le carte dei finti amici del cinema venivano stampate su un cartoncino identico all’originale, e nessuno si accorse mai di niente. Eppure quel secondo anno i film al cinema sembrarono meno belli, nella loro gratuità. Se avessero dovuto ricordarne uno solo dei film di quel secondo anno, forse a loro sarebbe venuto in mente quel documentario Il muro, o qualcosa di simile, sul muro a Gerusalemme, erano gli anni dell’edificazione. A quella proiezione uno di loro si addormentò del tutto e lo abbandonarono là per scherzo, mentre la sala rimaneva vuota.
Tre. La prima luce
Di fatto quella sera lei voleva solo uscire. Aveva scritto a lui un messaggio, poi telefonato perché lui non rispondeva. Erano andati in un ristorante di pesce, dove lei era stata varie volte con la madre e il nuovo compagno di lei. Aveva sempre pagato lui, che le donne lo vedessero, e in particolare la figlia. Non sua. Si mangiava benino, non eccezionale, ma il pesce era sempre freschissimo. Così aveva commentato la madre. Quella sera aveva chiamato il ragazzo e detto: cena e poi cinema? Va bene. Lui in verità un mezzo poveraccio, aveva ordinato tutti piatti da povero, atti a negare questa sua condizione di inferiorità. Ostriche aragoste astici. Lei capiva la psicologia di lui, perché lo faceva anche lei, a quelle cene con il nuovo marito della madre. Si erano abbuffati, avevano mangiato da stare male, e bevuto. Tanto il cinema stava là vicino. La prima luce, con Scamarcio. E già le cose si erano messe male, una prima tappa al bagno, poi mentre il film iniziava lei si era resa conto che si sarebbe cacata o vomitata addosso. Una delle due. Se ne era resa conto con la lucidità di certe consapevolezza, aveva detto, devo andare via, ho mal di pancia, ma tu resta, abbiamo pagato per il cinema e per la cena, ti chiamo domani. Il film del resto, avrebbe scritto a lui il giorno seguente, per quel poco che ho visto, rasentava l’inguardabile.