Concerti dovunque

Sixto Rodriguez – una recensione non direi

Rodriguez, Firenze, simone lisiUltimamente con Flavio andiamo solo a concerti di gente over 70.
Sarà perché una mattina Vasco Brondi si svegliò ed era diventato Vasco Rossi. Non si sa.

Fatto sta che poi a questi concerti di ottuagenari riusciamo anche a divertirci e i nostri commenti suonano più o meno così:

-Certo che l’età pensionabile si è alzata parecchio
-Si aggira lo spettro del playback
-I musicisti di Sixto Rodriguez sono anche i suoi badanti
-Il braccio destro non lo usa, guarda come è flaccido in confronto al sinistro
-Ma ti sembra che muova la bocca, perché a me no
-Guarda il piede, come lo usa per fare perno

Durante il concerto mi distraevo e pensavo al significato del nostro ascoltare quei vecchi e la risposta che mi davo era che in fondo si trattava del nostro senso di colpa deviato, per non aver mai dato retta ai discorsi dei nostri nonni, essercene sempre fregati dei loro discorsi.
E ora, eccoci tutti quanti là.

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Concerti dovunque

King Khan And The Shrines live @ tender:club

King Khan, simone lisi, VolumeRiprendo in mano i miei appunti sul concerto di venerdì e vorrei scrivere in un italiano elementare, per poter poi essere compreso da lui, da King Khan, che pure qualche parola e idea dell’Italia doveva averla. Bestemmiava, citava Pasolini, voleva che le persone del pubblico formassero un qualche coro su Salò, ma non conosceva l’accento esatto, King Khan, così lo chiamava semplicemente Salo. Di conseguenza si creava dell’incomprensione, tra lui e il pubblico, l’incomprensione degli inizi, quando si entra al Tender e si attraversano veloci le zone con le luci viola nemiche della forfora, quando si arriva al Tender e ci si domanda quale sia il target della serata e in generale di quel posto.
King Khan, leggo sul mio quaderno degli appunti:
“Che i suoi capezzoli fossero asimmetrici questo era l’ultimo dei suoi problemi”. Infatti il cantante era senza maglietta, solo un mantello e una maschera messicana, per il resto vari tatuaggi e quel suo corpo asimmetrico. Ma non sembrava farci caso.
“Tu chiamalo se vuoi rock, io lo chiamerei Aldo Palazzeschi”
Trascrivo questa frase apparentemente senza senso e mi domando quale connessione neurale avesse fatto il mio cervello, ma forse era semplicemente la grappa cinese, al bambù, mischiata con birra, con jack daniels e coka, e con altra birra, che mi portava a dire quello.
“Non si può fingere con King Khan, con lui si è ciò che si è”. La sensazione che ho, riprendendo in mano questi pochi appunti di venerdì, è di una certa confusione, che si diffondeva tra me e il pubblico, tra i bicchieri di birra vuoti o semi vuoti che volavano, del ritmo sincero e marcio di quella serata, basculatoria, che per me era omaggio a una serata personalmente mitica a cui ero assente, ma a cui prese parte tutto il mio mondo, a Venezia, su una barca e che potrebbe essere forse paragonata in letteratura alla notte di Valpurga, ma su cui ovvio non dirò qui una sola parola.
Me ne andavo via con molta incertezza, il clima rigidissimo di quei giorni e la sensazione che se King Khan ci inchiodava a ciò che eravamo, io allora ero un mezzo sbronzo che vagava solo, verso casa.

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Concerti dovunque

Cocorico a Bologna (Venti anni di Memorabilia)

Cocorico, simone lisi, memorabiliaDopo dieci minuti netti dentro l’Unipol Arena, Riki aveva già perso il portafogli mentre io il biglietto del guardaroba. Sarei tornato a casa senza giubbotto, ma si proceda con ordine.

Alcuni giorni fa il mio amico che chiameremo semplicemente A. mi domandava di accompagnarlo a una serata per il ventennale di Memorabilia. Organizzata dalla celebre discoteca Cocoricò di Riccione, si sarebbe svolta per l’occasione a Bologna, Unipol Arena. Accettavo, salvo poi pentirmene immediatamente.

Il Cocoricò, come a dire, la giovinezza che non vissi mai. Nel ’95 era già tutto finito: Riccione, la piramide, i voli charter diretti da Londra, il primo Moby. A me sarebbe giunta come un’eco, come un riflesso di luce laser specchiata in scimmiette e simboli, nei racconti di qualche tamarro che conosceva qualcun altro che c’era stato, al Coco.

Poi una sera di gennaio siamo partiti da Firenze in quattro, e dopo un’ora eravamo già persi allo svincolo di Casalecchio. Superavamo indenni i posti di blocco delle volanti. Posti di blocco ovunque. Dentro al palazzetto era una sorta di incubo, con musica e luci laser e gente che ci passava accanto chiedendo: Emme-Di-Emme-Di-Emme-Di-Emme-Di. Poi la musica e i nomi dei dj storici e i figli, e i figli dei loro figli, come nella mitologia greca. Sullo sfondo l’enorme piramide ricostruita sul palco.

Abbiamo bevuto, ci siamo drogati, abbiamo ballato fino alla fine della serata. L’impatto di quella cosa era a tratti spaventoso per chi come me aveva quasi mai fatto niente del genere. Che potesse degenerare, che potessero scoppiare risse, che se mai mi fossi sentito male nessuno mi avrebbe aiutato. Ma a tratti era tutt’altro, era incredibile.

Partiva l’inno d’Italia, qualcuno faceva dei saluti romani, ma erano una netta minoranza. La maggioranza era gente normale, magari sù di giri, di età varie che semplicemente ballava, vestiva come se fosse il novantasei, alcuni direttamente senza maglietta, ma alla fine di gente smostrata ce n’era poca, si concentravano sotto cassa, mentre noi ci mettevamo un po’ defilati. Stavamo là a bere qualcosa gin-tonic-vodka-lemon e il tempo semplicemente passava.

A. sembrava così felice di essere là ed ero felice pure io, ma non credo fosse per la droga chimica, o almeno non solo per quello, era per un altro motivo che adesso non ricordo. Dopo qualche ora Dj Cirillo salutava tutti, mentre un vocalist che aveva sottolineato certi momenti patici, ci guidava alla riaccensione delle luci.

Io non lo so cosa sia il Cocoricò e cosa rappresenti. Cosa abbia rappresentato. Come un punto di incontro, uno snodo nella vita di molte persone. Un’avanguardia o una fine. L’ho chiesto ad A. ma non ricordo cosa ha risposto, ha fatto un giro di parole, mi ha detto vieni giudica te, ma considera che è cambiato quasi tutto, forse quello che cercavo non esiste neanche più.

Tornavamo a casa che aprivano i bar e i giornalai, le strade erano deserte, senza portafogli, senza giubbotto, con il freddo addosso, con ancora una certa energia a livello delle spalle, dei trapezi, sarà stata la droga chimica, ma io credo di no. Era piuttosto un’energia accumulata dai corpi, dalla musica ascoltata, dai kilometri e dalla visione di A. che ballava in controluce.

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Diaframma @ Flog Poggetto, Firenze

Fiumani, Diaframma, Simone LisiFiglio spurio di piazza Dalmazia, caro agli dei, Fiumani, come farai questa mattina a uscire di casa e comprare il latte pure tu? Con il tuo ciuffo argentato e una faccia patibolare, questo è certo.

Il concerto partiva male, spigoloso, ma poi invece diventava qualcosa di bello, con la gente sotto il palco a pogare e la musica davvero in grado di accorpare quel gruppo eterogeneo, di cinquantenni, quarantenni e quasi trentenni come me, diaframmisti di ritorno, figli dell’ultimo colpo di reni del gruppo, nel circolo di morte e rinascita che vivono tutte le cose.
Ma quando partivano “Vaiano”, “Diamante grezzo” e, infine, “Gennaio”, noi là nelle ultime file smettevamo di pensare al Fiumani degli Ottanta, che avrebbe dovuto ma che non se ne era mai andato, uno che aveva creato un gruppo musicale al liceo e poi le cose gli erano semplicemente sfuggite di mano, con quei testi da bambino delle elementari. Smettevamo di pensarlo e ci convincevamo che c’era tutt’altro: come un nucleo problematico che dice qualcosa di questa città, della provincia e non solo di certi anni passati, semmai del passare degli anni; ed era sorprendente rendersi conto che Fiumani era tutt’ora un figo assoluto, uno che ancora resiste (nel suo essere antipatico, certo), che si ostina. E le cover che gli hanno chiesto di fare non ha voglia di farle, perché lui ha le sue canzoni, il suo modo, nient’altro.

Cosa ne sarà di questa tua domenica mattina? E se questa specifica mattina magari stai dormendo, Fiumani, mi domando: il tuo lunedì?

W Diaframma.

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Concerti dovunque

Ismael Circus @ Combo Social Club

Ismael Circus, Combo, Simone Lisi

Chiedevo a Fede se il bassista avesse qualche problema o disturbo o paresi (era solo una nota cinica derivante dal mio vecchio amico Cecco che non vedevo da cinque anni almeno, un modo di difendermi attaccando, il cinismo, un atteggiamento in definitiva di destra, quindi negativo) lei mi diceva: macché cavolo dici lui e in generale tutti e tre sono bravissimi, sono il mio gruppo preferito, li vado a vedere ad ogni concerto che fanno, esco praticamente di casa solo per andare a sentirli suonare.
Al che il mio discorso era finito.
Era vero, comunque. Gli Ismael Circus erano bravissimi e il loro jazz tecnicissimo quasi progressive in concerto al combo: niente da dire, bravissimi.

Eppure il mio vecchio amico Cecco che si era lasciato dalla fidanzata dopo una vita e che aveva smesso di cedere al cinismo era lontano semplicemente altrove, tutta una serie di progetti, di vorrei, che dovevano diventare atto, adesso quasi lo capiva. Io ascoltavo il concerto e mi fissavo sulle faccette del bassista e capivo a mia volta che erano qualcosa che mi infastidiva perché parlavano a me, dicevano qualcosa a me e allora me ne restavo zitto accanto al vecchio amico del passato e poi gli dicevo: ce ne andiamo?
In motorino verso casa ricordavamo di una volta, sullo zip piaggio 50, sempre in via Mannelli, che i tifosi della Triestina calcio ci avevano sputato addosso, per nessun motivo particolare. All’epoca non avevamo neanche il parabrezza.

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