Al festival degli scrittori a cui non volevo andare.
Avevo litigato ieri e oggi con Chiara che aveva scritto una mail per la partecipazione, anche la mia.
Non avevo nessuna voglia di andare, ma perché? Continua a leggere
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Flavio Giurato @ Volume
Flavio Giurato, a non sapere né leggere né scrivere, mi ricordava le Luci della Centrale Elettrica, con la differenza che lui era bravo. “Centocelle” gli usciva fuori benissimo ed era un mezzo miracolo; forse la migliore interpretazione di sempre. Se Flavio non si ricordava più i testi delle sue stesse canzoni, c’era uno nel pubblico che li ricordava per lui. Gioacchino Turù si metteva a fare le foto col cellulare, e allora voleva dire che le cose stavano andando bene: era come ammettere di dover filtrare con lo strumento.
Poi lo svolgimento della serata un po’ si sfaldava in una favola senza capo né coda e Flavio cantava “Walterchiari” per recuperare e far contento Damiano, seduto in prima fila. I pezzi dell’album nuovo occupavano la sua mente: sillabe mistiche, i pazzi, Majorana in traghetto da Napoli a Palermo. Alternava la sua dizione pulitissima con un romano sbiascicato: interruzione tra vernacolo e vernacolo, tra poesia e poesia, tra spiegazione di come si lancia una palla da baseball, come la lancerebbe un interno, in cosa consiste un lancio “full extension”. Perché ci raccontava quella storia? Non chiarissimo.
Poi diceva: Facciamo una pausa?
(Flavio non lo sapeva che le pause ai concerti non si fanno, mai, che la vita non ne contempla, di pause, ma poi mi dicevo anche: ma questo che vuol dire, che importanza ha?)
Uscivamo tutti fuori a fumare le sigarette, anche i due ragazzi che lo accompagnavano con il basso e il tamburo e che sorridevano sempre (sembravano i due aiutanti di K. nel Castello, e quando prima del concerto gli avevo parlato di qualche cosa super scontata romana tanto per trovare un appiglio, loro non avevano letteralmente idea di cosa io stessi dicendo), mentre uscivamo fuori a fumare già partiva dentro al Volume una musica del presente. Il concerto era finito.
Io pensavo di sfuggita che era assurdo e un peccato che lui non fosse riconosciuto tra i maggiori cantautori italiani, come un Dalla o un Battisti. Meglio per lui, perché sarebbe stato morto.
Poi erano le due. Andiamo a dormire, gli dicevo, ti cambio le lenzuola. Ma no, ma lascia stare, rispondeva lui, e grazie di ospitarmi.
Quando poi alla sera tornavo a casa dopo la giornata in ufficio, Flavio Giurato aveva lasciato il letto rifatto.
Gioacchino Turù e Vanessa V. ovvero il santo che voleva acqua
Giacomo viene da Ivrea, lo dice sempre. Ti parla di Olivetti come se non te ne avesse mai parlato, ma te lo ha raccontato anche la volta prima. E’ vero, che glielo avevo domandato io. Giulia viene da Fortezza, credo, un posto lievemente più a nord ancora di Bressanone che già era parecchio, a Nord. Si sono trovati a Firenze, ma su questo incontro ci sono varie storie, varie ricostruzioni e siccome di non apocrife, ho solo la versione di Giacomo, non ne dirò una riga. Hanno fatto un primo album che era improducibile, impubblicabile, perché conteneva bestemmie e riferimenti a atti innominabile. Era un bell’album rotondo e io ne ho una copia da qualche parte su una pennetta usb, una copia senza i titoli delle tracce e c’erano canzoni capisaldi della cultura turuttica, tipo Sposa Sposata, o traccia 15 e altre, dove si parla di assassini, rumeni, froci. Il secondo album, Il crollo della Stufa Centrale è attualmente oggetto di culto. Ormai introvabile raggiunge somme stratosferiche su ebay o al mercato nero, comunque lo dico se qualcuno è interessato io ho una copia e la vendo, contattatemi in privato.
Detto questo, detto che Giacomo viene formato ad essere uomo che significa bukkake nel bosco da parte degli anziani del gruppo, viene formato dicevo nella Berlino d’Italia, Ivrea appunto, dove seppur il più piccolo e con minor talento, partecipa al progetto StuproBrucio Records, dove impara l’ABC, anche questo me lo sono levato.
Detto questo Giulia e Giacomo hanno suonato al Volume ieri sera, che prima ero stanco della giornata e poi mi rilassavo. Hanno suonato i primi venti minuti molto bene, anche se Giacomo avrebbe scazzato la prima traccia eseguita, quella dove si fa riferimento ad un Icaro in caduta libera, bambini che pisciano sul sole, dei sassi nelle tasche, una citazione esplicita a un pezzo minore di Jovanotti il quale sarebbe insieme a Jean-Paul Sartre il referente culturale dei due. Comunque. Malgrado la prima traccia andata così così, poi tutto si è innalzato e io pensavo che questi martedì passati fossero poi stati solo un grande preludio a quel momento là, in cui Giacomo riusciva a conquistare gli americani, seduti in prima fila, quel momento là in cui Giulia cantava, che suonava il piano accanto a lui, che tornavano ad essere una di quelle coppie che una mia amica segno zodiacale pesci avrebbe parlato di loro come una sorta di pieno orientale, ecco, c’è stato un momento e il momento si è prolungato una ventina di minuti e ha raggiunto un’apice esplicito con quel pezzo che si chiama De LaVega, così i Turù andavano a caccia di elettronica e Giacomo ballava come un bonobo e Giulia aveva fatto qualcosa ai capelli, che davvero posso aver pensato ad Hegel, un momento sintetico, capito, al sorriso di Diana e quello di Lapo e Silvia e quei due minuti dei dieci totali di felicità che lui aveva scelto di sacrificare su un tappetto elastico nella giornata di pasquetta. Poi qualcosa si è rotto e io non so cos’è stato, i pezzi nuovi erano finiti e loro tornavano ai vecchi pezzi circoli di ripetizione, senza che questo gli desse troppa voglia, che già erano scivolati avanti rispetto a là. Dopo il concerto era finito e le tanto annunciate cover dei Joy Division erano barattate da quella classica di Tiziano Ferro, riferimento sessuale di Giacomo, così il concerto finiva e si accendevano le luci su quella sala piena, incredibilmente.
C’era ancora tempo per guardarci negli occhi, rimasti da soli dopo che la sala era stata così piena, portavo Diana a casa, con il mazzo di chiavi unico, poi Neri se ne andava con due tipe, ma quella era un’altra storia ancora. Come non ricordare quella mia domanda, panni appesi ad asciugare in una corte, mentre due ragazze ripetono Cartesio e io non sento la lezione, perché nelle orecchie ascolto un loro pezzo tragico del passato, se fossimo a Parigi ti porterei in bici, e mi viene da piangere, se non dovessi finire di scrivere qui e poi andare a lavoro e mi ha pure telefonato Lapo e ha interrotto il flusso creativo, ma sono questi tempi qui, sono tempi fortunati. Ma dicevo di me, grande assente di questo pezzo ingiustificatamente buono verso due musicisti che a me piacciano molto, dove sono io? Mi domando, e Diana è gelosa e dice che sono innamorato di loro ed è vero, ma in un certo senso. Comunque io ormai sono diventato un giornalista completo, che si informa, studia, si prepara prima del concerto e sempre quel quadernino che all’inizio dei miei pezzi non esisteva nemmeno, era un quaderno ipotetico, letterario, quello di cui parlavo, ma poi ne ho preso davvero uno a casa e c’ho scritto sopra delle cose e ora lo tengo nella tasca (è così che funzionano le cose: prima per finta, poi succedono, così che ci si addormenta la sera, si finge di dormire, dopo ci si addormenta), comunque dicevo di me, me che facevo la domanda del secolo ovvero se i loro concerti fossero poi metafora del loro rapporto, se da quei concerti specifici si potesse capire come stavano loro e mi sembrava davvero di aver fatto la domanda più intelligente della storia, ma era la mia solita domanda del cazzo, ma non è questo che voglio dire, non è questo il punto, ma il punto di tutto questo preludio, affresco, di quel mio discorso era invece parlare della risposta dei due, alla mia domanda, la risposta di Gioacchino e Vanessa e la risposta dei due era:
Giulia: No
Giacomo: Beh, sì.
Era di nuovo mercoledì e io pensavo a questo nostro costeggiare l’alcolismo, sudare freddo a lavoro e tisane depurative al mattino: come se niente fosse. Al bar della mattina avrei sorpreso tutti con quel the verde e non il consueto mezzo litro di caffè americano.
23 aprile 2014
Calcutta
Il fatto che io fossi di Rockit non sembrava impressione Calcutta. Forse aveva capito che mentivo. Mi ero anche portato un’agendina e ho scritto alcune frasi prive di senso, fatto domande insensate, sulle foglie, sul suo nome e sulla sua fidanzata, argomento che riemergeva anche durante la lettura di tarocchi. Chiedevo qualcosa su quelle sue occhiaie, come se le fosse guadagnate, ma era tutto un po’ in salita per il fatto che l’intervista era iniziata con io che confondevo la sua provenienza, invece che Latina dicevo Olbia e lui c’era rimasto male.
Si iniziava tardi, che ormai le giornate si erano allungate. Si entrava al Volume e c’erano quelle dieci facce, che ormai ci conoscevamo tutti, ed eravamo quasi innervositi che le americane sedute in prima fila continuassero a parlare e non scomparissero, come poi facevano. Occupavamo noi con i nostri corpi e spazi, quei posti in prima fila, come omini di cartone, come sagomati, e pure così il Volume era deserto, uno svuotino avrebbe detto Pro Loco, io avrei pensato solo ad un problema comunicativo, ma era certo più complesso.
Calcutta, che si chiama così per nessun motivo, o anzi sì, perché gli piace il modo in cui tale nome si può sillabare, sì, come tutto, aggiungeva, cominciava dalla punta, dalle sue canzoni più forti, Asciugamano, poi quell’altra canzone spagnola scritta il giorno prima con Pop-X e io avrei dovuto capire che questo sforzo iniziale aveva a che fare con il nostro comune segno zodiacale, zodiaco che dopo il concerto Gioacchino per rendermi ridicolo mi diceva di dirlo di tutti i calciatori della Fiorentina, i presenti, ovviamente e nemmeno quelli posteriori al mercato invernale, e io li dicevo, o ne dicevo un po’ fino ad arrivare al segno di Wolsky e di Gioacchino stesso, scorpioni. Così Calcutta e le sue occhiaie cantava con questa sua voce così bella, così udita, con quella sua chitarra e voce, con quei suoi testi semplici che io per la prima volta dopo martedì e martedì non mi sentivo come se la mia vita fosse in discussione, con Diana affianco a me e i miei amici passati a cena e dopo scesi in piazza con me e ancora una settimana e la casa senza contratto e la busta di equitalia, non mia, come tutto, che tenevo in tasca del giubbotto. C’era ancora tempo per quei cappotti appesi agli angoli del Volume, angoli che ormai conoscevamo tutti e là appesi, i nostri cappotti.
Continuo la mattina successiva ad ascoltare Calcutta, i suoi pezzi lunghi, Mi piace andare al mare in bici, mi fa sentire libero, che ho scaricato da internet, qui al solito caffé della mattina, era allegro Calcutta, malgrado quello che dicesse Gioacchino, che invece di dischi avrebbe dovuto vendere dei cappi a fine concerti, io lo trovavo sorridente, comprensibile come lo sono io, semplice e superficiale, quel suo studiare il portoghese, ma portoghese di Brasile e io che gli parlavo di rimando di Chico Buarque e lui mi diceva, mm no, là non ci sono arrivato, e io dicevo ma guarda neanche io, me lo consigliava Spotify, lui sapeva che piaceva a una mia vecchissima fidanzata, non vecchissima nel senso che lei fosse vecchia. Era scorpione, come mia madre. Poi mi parlava di New York, di quel suo tempo là in cui si era fatto uomo, in cui aveva capito niente, come con i libri che aveva letto, girato per le feste, ma diciamo meglio: a una festa, e poi era tornato in Italia e ora viveva a Roma e c’era stato anche un duo, inizialmente, ma facevano tutt’altro, batteria e un’altra voce, poi era arrivata la rottura, per le solite questioni di soldi, donne, invidia e loro si erano solo salutati, ciao, anzi peggio, come sempre accade in questi casi, tra uomini, senza tirarsi i capelli, solo parecchio risentimento e delusione ingiustificata e lui si era trovato solo, con questa fidanzata a cui pensava sempre e a cui non scriveva le canzoni, e certo, quelle sue occhiaie.
Continuo a ascoltare quella sua Canzone, che ormai è mia perché l’ho scaricata da Youtube, quella sua canzone ripetitiva, che sembra un po’ la traccia finale di un album allegro, in cui si lascia e si vuole lasciare un messaggio positivo, seppur poco chiaro, rifarsi al mare, la bici, l’amicizia, archetipi in definitiva da italiano medio, ma roba su cui: fermi tutti. Riguardo ancora il quadernino, e vedo che ho scritto i luoghi in cui Edoardo, così si chiama Calcutta di nome, vive e dove vive il suo vecchio compagno di musica, a volte si incontrano e si salutano: lui a Torpignattara e l’altro a Centocelle, o viceversa. Vedo anche scritto che la musica che facevano insieme era musica: design, poi una parola che non riesco a leggere, Emmanuelle, Scream, qualcosa di urlato, ma con tematiche sentimentali, mi sembra di ricordare, ma la mia ricostruzione potrebbe essere inventata. Poi erano le due e mezzo di notte e l’ora che io salutassi tutti, Giacomo al piano, Neri ai tarocchi e Calcutta con le sue questioni sentimentali in testa, il futuro, che fare?, e Giulia con la sua giornata piena di impegni e i camerieri del Volume come angeli custodi di tutto quello e le loro serate piene di impegni e Tommi Tanini con il kebab tra i denti e il suo amore romano, ora che io tornassi al mio.
16 aprile 2014
Pro Loco (Trevius)
Il temporale, la corsa in bicicletta, poi la piazza, svuotata. Si arrivava al Volume che il concerto era appena iniziato, lamentando il fatto che cominciavano quando cazzo gli pareva. Sul palco Trevius e Giacomo Laser eseguivano Traccia Uno.
Le prime file e poltrone erano occupate da avventori generici e quelli venuti per il concerto erano pochi, forse dieci, o quindici al massimo, ma nessuno sembrava rimanerci troppo male, non Trevius e nemmeno Neri e tantomeno Giacomo Laser, ma questo non è possibile dirlo, che le sue espressioni erano invisibili sotto la sfera verde che aveva in testa, e allora solo un’analisi dei suoi movimenti corporei avrebbe potuto dirlo (il suo stringere con entrambe le mani il microfono, come un cono gelato da bambini, il suo muovere le mani a dividere lo spazio, come in una liturgia già vista, che se avesse avuto un gatto in braccio io non ci avrei visto niente di strano – ma forse ora che ci penso ci sarebbe stato da analizzare movimenti ancora più piccoli, o i dettagli minuscoli e penso ad esempio a quella macchia di vernice o colla o sperma sulla tasca sinistra dei pantaloni che si trascinava dietro da chissà quando, oppure un’analisi dei suoi organi interni, una radiologia del suo intestino, o forse ancora tutt’altro: un’analisi con i massimi esperti internazionali di cartomanzia e divinazione, di quelle carte di coppe e denari sollevate davanti a Neri a fine concerto – ma forse anche così sarebbe stato difficile capire cosa pensava Giacomo Laser e nello specifico del fatto che al concerto dei Pro Loco non fosse venuto quasi nessuno).
Ho appuntato sul mio taccuino alcune righe, che adesso riporto. È una strategia nuova, atta a ricordarmi le cose, rispetto a quella adottata finora, di lasciare semplicemente passare e poi vedere quello che si è sedimentato. Non so francamente quale tecnica sia più utile, ma ho pensato che forse mi avrebbe aiutato a restare più vicino al concerto. Scrivo così:
Traccia Uno: musica sacra. Traccia Due: Ferro da stiro. La prima traccia, 38 mn, avrebbe purificato come il fuoco i peccatori seduti nelle prime file. C’era questa tipa che si opponeva, che ballava la sua canzone interiore e provava anche ad argomentare circa il senso, di quel martedì sera. Poi appunto l’onda d’urto della musica sacra la polverizzava e non restava niente.
Ricordo anche questo, che Trevius era molto calmo e a volte sorrideva e dal muro dietro lui, dall’intonaco della parete uscivano dei volti di colore rosso, ma a lui, Trevius, non importava niente e forse non li vedeva che era occupato con i tasti e Giacomo Laser chissà, forse lui li vedeva, e parlava del padre e di quelle quattro settimane di silenzio, mentre risuonavano di sottofondo tutti i suoni dell’universo che Trevius voleva e sceglieva e la sala si svuotava e si restava là a veder comparire i volti dall’intonaco.
Avrei chiesto circa quel suo rifiuto della parola, suo di Trevius (non del padre di Giacomo Laser, quello lo capivo bene), se fosse un rifiuto o cosa, e lui diceva che era solo una pausa, che era un periodo, con gli occhi saettanti da uomo religioso, che teme l’eresia, che crede nella parola. Dopo il concerto, che durava troppo poco, secondo alcuni, come per quei gruppi affermati che si permettono concerti di 50 minuti e biglietti da minimo sessanta, come è giusto che sia, loro salutavano e ringraziavano e si rimaneva ancora un poco là davanti al Volume, in cui io chiedevo qualcosa circa la sua scelta di rinunciare alle parole, qualcosa circa quella musica sacra e se gli importava della gente che andava via e lui rispondeva con i suoi occhi di ghiaccio, come aveva detto il mio coinquilino Lapo, ore prima nel corridoio di casa, che non gli importava tanto, che era la natura delle cose, che per capire il perché e il per come di tutte quelle mie domande ci sarebbe voluta un’analisi fin troppo complicata di questioni e fattori socio geografici economici, che in definitiva Firenze era così, un posto come Venezia, dove non contava e cambiava poi molto quello che tu potessi e volessi fare e dire, che le cose sarebbero andate benissimo comunque, che tutto era talmente bello, con quelle barzellette razziste, il tipo che partiva per il Giappone la mattina dopo, ma non poteva vedere niente, e poi i papponi e i camerieri e i venditori di rose, nella piazza svuotata per la pulizia della strada.
Circa Traccia Due, la ricordo più conflittuale, meno distesa, diciamo così, meno rotonda, più da battaglia, come se fosse sopravvenuto un pensiero di riflesso su quella sala svuotata, rimasta deserta tranne per alcuni estimatori del genere, ma più che genere direi alcool o situazione o quei volti e quella maschera là sul palco e sempre quelle note che potevano dialogare con gli organi interni. Il concerto era finito e io tornavo verso casa salutando i nuovi amici e mi sembrava che stavolta il mio chiedere e intervistare fosse stato meno totalizzante, che la rinuncia alle parole di Trevius e quelle carte dei tarocchi, quelle prime identiche, mie e di Laser, dicessero qualcosa che se io non capivo fino in fondo non fosse tanto per un limite di quelle carte, ma per un limite mio, e questo non capire non facesse di me niente da colpevolizzare, che fosse semplicemente così, che dopo tutte quelle carte di coppe, ci fossero proprio altre coppe, il valletto, a sancire il mio limite, quello che provo e provavo io. Ma cosa importa cosa provo io?
Stavo bene ieri sera, dopo la cena con Diana, dopo il bene che le voglio e la bicicletta sotto il temporale e poi una casa e un martedì ancora, che tutto davvero era in equilibrio e ripensavo al martedì prima quando Niccolò faceva quel numero di prestigio con la sigaretta e la banconota e ci sarebbe stati altri martedì ancora, successivi, così tutto tiene, penso in quel solito bar della mattina, mentre il caffè americano si raffredda sul tavolo, non so che fare, come per quei tarocchi, ma tutto tiene.
Pro Loco era un figo.
9 aprile
Pop-X
Ancora un martedì al Volume, tra la folla ammassata, pensavo a varie cose e alcune specifiche domande, che ormai il mio ruolo e le mie nuove responsabilità lo esigevano. Pensavo a Theodor Adorno che in un suo racconto giovanile di cui ho scordato il titolo, un raccontino di nemmeno tre pagine in cui scrive principalmente di se stesso, parla tra le altre cose del potere e della critica che il potere vorrebbe criticare. Inizia così: Hai fatto torto al potere, come se parlasse a se stesso o alla critica in persona. Ricordo solo questa frase. E sempre in quel testo si fa notare che la critica ha la sua ragion d’essere proprio sull’oggetto che voleva criticare, che vive perciò di questo scandalo interno.
Questo dicevo a Davide dei Pop-X dopo il concerto, per metterlo spalle al muro, a lui che mi sorrideva con i suoi denti un po’ a punta e il volto vagamente kafkiano, che diceva: No, non è così, io ho un buon rapporto con quello che te chiami il potere, le canzoni pop o dance o di Jovanotti, è musica che a me piace, o magari è musica -e penso a Jovanotti- che nel momento in cui è uscita non poteva essere udita perché sovrastrutturata, ma che si meritava di essere salvata e se merito è eccessivo, diciamo solo che mi piace, che io ascolto qualcosa e quel qualcosa mi piace.
Così diceva più o meno Davide dei Pop-X usando meno parole di quelle che ho usato io, circa quella mia prima e unica domanda con cui pensavo di metterlo spalle al muro, ma lui le aveva già da prima e si verificava quindi una sorta di rotazione planetaria per cui le spalle al muro le avevo io. Era un movimento rotatorio che si univa a un pensiero che avevo avuto prima, mentre di fronte a me, al concerto, brillavano le luci strobo e gli occhiali luminosi si illuminavano al ritmo della musica e Davide si muoveva come una scimmia e il suo percussionista batteva delle bacchette su un tamburello. Il secondo pensiero era dedicato ai pianeti che ruotavano quella sera dentro la stanza, e quindi c’era lui, Pop-X che era al centro del sistema solare-serata, con la sua luna percussionista e attorno a essi, che pure ruotavano, c’erano vari pianeti e penso a Giacomo e indubbiamente Giulia e subito dopo Neri e Lapo e Anna e Garna e Ferro e Lucia e molti altri tra cui me stesso, defilato punto di osservazione sullo spazio e infine un pianeta che gravitava lontanissimo e dormiva nel mio letto in fondo alla piazza ed era Diana, un pianeta o stella distante, ma pure presente e solo verso la fine del concerto io mi mettevo a osservarne uno ancora, di pianeti, ed era Niccolò, cantante del famoso gruppo musicale dei …. che gravitava pure lui in quella stanza-cosmo e io lo riconoscevo e lo osservavo da un angolo della stanza chiedendomi se, dopo quei suoi testi e quelle sue canzoni, se fosse in grado di divertirsi ai concerti divertenti; provavo a capire solo guardandolo che tipo di pianeta fosse, di che materiale, se fosse un pianeta umido o secco, lento o veloce e me lo continuavo a domandare anche dopo, mentre parlavo di Adorno e annotavo su un minuscolo taccuino le risposte di Pop-X. Niccolò allora ascoltava la mia intervista, con uno sguardo scettico, verso quel mio taccuino, quel mio scrivere veloce con una matita e quei fili che si formavano e quel registratore con cui segnavo tutte le cose che Davide rispondeva.
Quindi, diceva Niccolò, sei in questa dinamica di interviste e io me ne rendevo conto in quel momento là, in cui lo diceva, che non mi stavo comportando come si comportano le persone quando fanno amicizia, ma come quando si cerca qualcosa, un linguaggio proprio e Niccolò faceva una canna e non mi riusciva di chiedergli niente di niente, solo un brevissimo accenno a Nabokov, che lo lasciava sorridere impercettibilmente, era un secondo, e poi di nuovo quel suo registrare il registrato, il suo correre veloce nel sottobosco, in un territorio non delimitato che si è fatto nemico, ma io non so cosa dico e forse era semplicemente il nostro essere entrambi Arieti, quella nostra polarità planetaria, che ci impediva di scoprirci fratelli, e io pensavo a quel mio passato dove c’era stato lui eppure lui non c’era, a quelle sue canzoni che lui si era portato sulle spalle, come ci si porta una zaino o un vecchio padre quando si fugge dalle città in fiamme, ma non so che dico, ripeto, ho dormito molto poco, Diana dormiva già e io ho fatto tutto piano, la piazza svuotata, la pulizia delle strade a rendere più netti i contorni e la mattina una tendenza ad accelerare, per poi entrare al mio lavoro non-glamour un’ora prima, perché c’erano da fare i bilanci di fine mese, e poi quell’appuntamento in Via del Drago d’oro con gli scrittori fiorentini di altra generazione e altri impegni ancora che andavano a sovrapporsi come orbitali, al mio pensiero di me durante il concerto e quegli occhi rossi di Pop-X, come le scimmie in quel film thailandese che vinse a Venezia o Cannes, Zio Bonmee che si ricorda delle vite passate, quel film che guardavo in Spagna per addormentarmi, sera dopo sera, senza mai finirlo, quando ancora mi facevo tutte quelle canne e ascoltavo già allora Niccolò cantare, e tutto era ancora molto distante da come si sono messe le cose oggi, con questo mio non fumare e casa e sistema planetario strutturato in cui ci sono così tante variabili e cose da dire che non basterebbe la carta dell’universo e lo spazio virtuale illimitato non potrebbe comunque sopportare la tensione di un pensiero come quello.
Ma il riferimento al film e al mio passato e gusto musicale non lo dicevo durante l’intervista, che sarebbe sembrato fuori luogo. Poi si tornava nella grotta Volume a bere ancora qualcosina di impercettibile, pulviscolo, che non avrebbe spostato molto i valori la mattina dopo e i ragazzi terribili suonavano gli strumenti e Giacomo conquistava tutti cantando le sue canzoni e Davide suonava il pianoforte e a volte non si ricordava gli accordi mona e Niccolò si rifiutava di suonare perfino una cover degli 883 o riadattare Velleità a quel momento e stanza. Poi erano le tre di notte e Neri i suoi aiutanti avevano solo voglia di andare, che oggi è mercoledì e il sistema continuerà a ruotare anche domani e i pianeti torneranno ad allinearsi, tra un certo tempo e in un altro spazio, ma non più quella sera, che era andata così, e dopo la sveglia che suona, il solito bar di elezione e un affitto non ancora maggiorato, da pagare.
2 aprile 2014