Category Archives: Spagna (2009-2011)
Tornando a casa, o come divenni scrittore
Faccio la strada per tornare a casa con Nati e Camille. L’allungo, la strada: loro vanno in Triana mentre io sarei già arrivato. Allungo la strada e le espadrillas, che a noi italiani suonano così spagnole ma che qui chiamano esparco, mi si impregnano d’acqua perché lavano le strade, la notte, a Siviglia, e le suole sono di corda, e quando arriverò a casa (perché a un certo punto si torna anche a casa) saranno dure e pesanti per tutta l’acqua assorbita semplicemente camminando, andando, tornando a casa. Continua a leggere
La coerenza
Si tornava dal Poetto in autobus, senza regolare titolo di viaggio, ed era estate. Quasi trentenni, quasi finita l’università e quasi in partenza, alla fine di quella stessa estate, per destinazioni improbabili e possibili o inutili. Continua a leggere
Lettera dalla Spagna
Non mi escono parole in italiano, penso dialoghi in spagnolo. Uno dice: «¿Hay vino?». Due risponde: «No, sólo hay champagne». Personaggio Due allora si alza e va al frigorifero, anche se Personaggio Uno, in reazione alla risposta di Due, ha scosso la testa in segno di disapprovazione e fastidio. Non vuole champagne, vuole vino. Lo champagne lo disgusta. Due allora si alza e guardando dentro il frigo dice: «No. Tampoco queda champagne. Sólo hay media botella de vino para cocinar». Personaggio Tre, che finora era rimasto in ombra, chiede: «Pero ¿blanco o tinto?». Da questa domanda si può capire che Personaggio Tre sono io, perché faccio domande stupide. Il vino per cucinare che si rispetti, e che a casa della nonna Grazia si mette sul tavolo perché a lei piace molto, si chiama Tavernello ed è bianco. Esiste anche rosso, ma è eccezione. La mia domanda è stupida perché non penso troppo. Non posso, non ho le parole per esprimere concetti complessi o eccessivamente complessi, già mi sembra miracoloso poter agire, prendere parte a una discussione normale tra persone normali che si capiscono. Bene. O male, non so. Personaggio Due torna con in mano un abbondante bicchiere di vino, ovviamente bianco, dicendo: «Es super bueno el vino para cocinar». E Personaggio Uno, che aveva negato lo champagne, approva con l’espressione del viso. Sì. Anche a lui, che pur aveva snobbato lo champagne, piace il vino bianco per cucinare, anzi, lo riconosce come qualcosa di buono. Personaggio Uno, che avendo snobbato lo champagne perché voleva il vino, vino sincero, e che quindi aveva guadagnato la nostra simpatia, stupita simpatia per aver snobbato champagne con tanta naturalezza, si dimostra ora molto pragmatico, e molto poco snob rispetto a quanto lo era stato un attimo prima snobbando la bevuta snob per eccellenza. Snobba il suo stesso essere snob e si rivela un pragmatico: «¿Cuánto lleva en la nevera?». La neverasarebbe il frigo, ma in effetti lo spagnolo si intuisce, perlomeno noi italiani lo intuiamo. È così. Gli italiani vanno in Spagna e parlano con gli spagnoli senza conoscere lo spagnolo, ma si capiscono, più o meno si capiscono. Personaggio Uno, dopo aver dimostrato le sue credenziali nobiliari, chiede da quanto tempo quel delizioso nettare divino che in Italia prende il nome di Tavernello giace abbandonato nella nevera. Personaggio Due, che si chiama Nati, che è il diminutivo del suo nome intero, Natividad, risponde a personaggio Uno, che si chiamerebbe Santi, diminutivo di Santiago, che la bottiglia si trova lì da una settimana. «Una semana». Io penso che sta bluffando. E non lo penso perché sono sospettoso e malvagio, ma perché li conosco, dovrei conoscerli abbastanza, in quanto il tempo vissuto in loro compagnia è stato, seppure breve, denso. Personaggio Due, Nati, poco prima aveva proposto da mangiare del brodo vegetale, anzi del potenziale brodo, e non vegetale ma di prosciutto: il dado. Era arrivata dicendo che il dado per fare il brodo era superbuono. Io avevo un qualche ricordo, vaghissimo, della voce di mia madre che mi diceva di non mangiare il dado vegetale, che mangiarlo è una stronzata, ché fa venire il cancro. Nati ha insistito, dicendo che il dado vegetale si mangia regolarmente in tutta Spagna, da sempre. Io le dico ok, ma solo per farla contenta e smetterla con questa storia: ne assaggio un angolo, di dado, ma lo lascio. È come mangiare patatine fritte al prosciutto, ma senza masticare, senza sostanza materiale, solo sapore, solo essenza: una cosa terribile. Per questo che non credo al vino di una settimana. E per sentirmi accettato mi faccio avanti per assaggiarlo io, certo che se fosse cattivo non spunterebbe un cameriere in livrea a cambiare il cartone del Tavernello. Quindi lo bevo. E devo dire che mi sembra davvero buono.
Esta-The alla pesca
Per quanto a oggi il dualismo sia (o possa dirsi a ragion veduta) qualcosa di superato dal nostro spensierato pensiero post-moderno, solo pochi anni fa dominava il mondo, e in particolare la mia amata provincia.
Sorseggiando oggi semi-sdraiato un Esta-The al limone ho rivisto chiaramente i blocchi contrapposti della mia giovinezza, quando il mondo e questa provincia natia si lasciavano decifrare dal mio cuore semplicemente nella distinzione tra Esta-The al limone, appunto, e l’odiato e fin troppo dolce rivale: l’Esta-The alla pesca.
Niente a che fare con le varianti mostruose dei tempi d’oggi: Esta-The Verde, toccasana per la circolazione cardiovascolare, Esta-The Deteinato, per gli ipertesi, immagino, o altri target a me incomprensibili. Il mondo duale di un tempo si definiva dunque per macrocategorie inconciliabili tra loro quanto lo sono appunto un limone e una pesca. Le personalità umane si plasmavano ― ora tutto ciò risulta incredibile ― in relazione a quella semplice scelta, che non lasciava esclusione e scarti. Si potrebbe riflettere sul perché di quella scelta fondativa, sui condizionamenti che avevano spinto una personalità a pendere per un lato o per l’altro e tutte le conseguenze che una tale scelta avrebbe comportato sullo sviluppo di quella personalità, ma sono costretto ad ammettere i miei limiti nel capire e descrivere questi recessi, e quindi lasciar perdere.
Non so cosa fu a portarmi sulla via del Limone, con la sua etichetta gialla, e al mio conseguente rifiuto della via della Pesca e del suo colore arancione. I fatti che a questo preambolo ― si dirà: inutile preambolo ― seguono, e che ora riporto, mi furono raccontati anni fa, ma sembrano decenni tanto le cose sono cambiate: oggi riemergono mentre lascio cadere la cenere di una sigaretta dentro il brik di Esta-The al limone finito. Semper fidelis. Ma la storia riguarda l’altro mondo, quello di falsità e menzogna che era (ed è) il mondo dei bevitori di Esta-The alla pesca. Mi fu raccontata a una penosa cena di coppie in un lussuoso ristorante del centro di… Lei e lui sedevano di fronte a me e a questa mia fidanzata giovanile, i due erano (e chissà forse sono ancora) chiaramente amici di lei e non amici miei e io mi ero prestato a quella cena ridicola solo per la bellezza stolida dell’amica della mia fidanzata. Non è nobile da dirsi e non me ne vanto, anzi, è terribile, ma anche quella cena lo era, e del resto non sono e non erano tempi particolarmente nobili. Niente di nuovo a ogni modo, in una formula: Totem e tabù. E in fondo noi troppo giovani per cene di coppie, tra coppie, la noia mortale, lo scimmiottìo di sistemi ereditati e fallimentari e noi ancora non in grado di riplasmare secondo i nostri nuovi modelli e le nostre esigenze.
F., il ragazzo di lei, quindi il mio doppio, raccontò di un pomeriggio assolato in un bar di provincia (che io immaginai più simile a una casa del popolo), di un pomeriggio noioso quanto lo era lui. Ma in quel pomeriggio accadde che un tale conoscente, un suo amico, ordinando un Esta-The alla pesca per dissetarsi, o forse per abitudine, perché come è noto l’Esta-The alla pesca non disseta affatto, si trovò a succhiare a vuoto nella cannuccia: non saliva niente. Sempre con la cannuccia praticò allora dei piccoli fori fino ad aprire una circonferenza nel brik e poter vedere il contenuto (che pure qualcosa doveva esserci dentro, visto il peso). Dentro il brik, così raccontava F., c’era una piccola pesca, mostruosa, incastonata nei bordi rigidi dell’Esta-The. Qualcosa che mi fece pensare, ora ricordo bene, ai piedi fasciati dei cinesi, o ai colli costretti dentro le file di anelli degli africani. Il tale, l’amico di F., si rivolse agli amici, tutti come lui bevitori di Esta―The alla pesca di lunga data suppongo, cercando aiuto e comprensione; ma nessuno aveva mai visto niente del genere. Infine si rivolsero al barista, un vecchino che ne sapeva meno di loro.
F. concludeva quella storia ripetendone l’assoluta autenticità, pur consapevole di come ciò potesse risultare inverosimile ai nostri occhi scettici. I nostri commenti furono appunto scettici, e io pensavo solo che erano le classiche fandonie dei bevitori di Esta-The alla pesca, mentre continuavo a osservare la sua ragazza così bella che mangiava così bene, guardandomi di tanto in tanto a sua volta, un sorbetto al limone.
Concerti
Forse è venerdì e forse avrò un certo bisogno di uscire. Forse chiamerò ogni numero chiamabile della lista dei numeri da chiamare e forse non mi risponderà nessuno. Forse avrò la tentazione di tornare a casa, ma forse non lo farò, e opterò per il concerto dei Blonde Redhead: li ascoltavo a Siviglia in inverno. Forse per chiudere l’ennesimo cerchio.
Forse percorrerò in motorino via Pistoiese, che ricordavo più corta, e farò la fila da solo mentre dentro iniziano la prima canzone. Ciò che invece non è in forse è lo svolgimento del concerto, che suo malgrado sarà anche commovente almeno per un momento e si ripeterà uguale a tutti i concerti della mia vita.
È il contesto, l’estrinseco, che mi affossa e a volta mi diverte anche. Allora ci sono io tra la folla ed è indubbio che arriverà un uomo coi capelli lunghi, alto e piazzato, e si metterà davanti a me. Lo accetterò perché, pur non avendo i capelli lunghi e non essendo così alto e robusto, comunque potrei fare altrettanto senza rendermene conto. Allora resto a guardare la sua nuca e mi va bene, se non che lui molto spesso si tira in avanti e lancia i capelli indietro, i suoi lunghi capelli ben tenuti che lava col balsamo. Profuma di pulito, ma questo è eccezione.
Poi succede che me lo ritrovo non più esattamente davanti, ma un po’ sulla destra, il che mi dà modo di osservare nuovi scenari. Il che non è propriamente un bene. Sulla mia sinistra c’è un tale, romano?, del sud? ― da Firenze in giù è Africa ― che balla in maniera molto esagerata, o almeno così sembra a me, per un concerto di musica rock colta o rock riflessiva, e che attacca discorso con chiunque ci sia intorno e sia donna. Anche questo è un topos che si ripete ogni volta. Alza le mani, fa dei versi che a parer mio sono ridicoli, ma si sente molto a suo agio e socializza, anche se in effetti non potrebbe, ché un concerto è un atto individualistico, ma questi sono punti di vista. Diciamo che contesto solo il suo stile. Non sento cosa dice, e questo è un bene. Ci prova con questa tizia, che ha il suo ragazzo che osserva, ma forse è il suo quasi-ragazzo e finisce che i tre si mettono a ballare, alla mia sinistra, tutti e tre insieme, ballando una musica immaginaria che solo loro possono sentire. Questo mentre il tizio alto e robusto sulla destra con i capelli lunghi muove la testa in su e giù come a un concerto heavy-metal. E la cantante giapponese dei Blonde Redhead sussurra che tutto è sbagliato. E questo accade sempre.
La scena di solito finisce con un tipo che mi viene direttamente davanti frontalmente, con occhiali da sole verdi o rossi, cappellino e fischietto in bocca, che mi guarda, mi disapprova?, e fischia nel suo fischietto, un fischio lento e continuo. Poi si accendono le luci e il concerto è finito.
Pseudobagnino di Pietramarina
Posso dedurre dalle poche informazioni che ho che il tizio sul toboga non sia il bagnino ufficiale, ma un semplice aficionados di questa piscina, Pietramarina, che si erge a sua volta sulla cima di un colle, sopra la Piana. Il tale è molto abbronzato, lo è davvero molto. Ha i capelli lunghi, ma non molto, e biondi, ossigenati stinti per il sole e per il cloro della piscina. Gli mancano alcuni denti, ma non gli incisivi, ed ha almeno due tatuaggi, stinti. Non è solo questo a farmi pensare a un aficionados. È la maniera in cui si erge: ci sono delle scale da salire, per poi scivolare sul toboga, e una sorta di piano doccia dove la gente in fila aspetta per poi lanciarsi nello scivolo. Lui, il tizio aficionados, però non si tuffa. Si arrampica sulla balaustra e osserva la caduta dei bagnanti. Sta là e si arrabbia quando qualcuno fa qualcosa di poco consono, per esempio con un tale, o una tale, che io non vedo dalla mia posizione, che sta evidentemente andando addosso a qualcun altro. Non so se si arrabbia esattamente con quello fermo a metà dello scivolo o con l’altro, che in fondo non può sapere ciò che l’aficionados sa. Ma la sua rabbia è una rabbia differita, lontana, spuria: sola, dal suo essersi erto lassù sulla balaustra. Grida qualcosa a quel tale che si è scontrato con l’altro, allarga le braccia come a dire: io ti avevo avvertito, non c’è fine alla stupidità umana e comunque sembra che non gli importi niente, facciano come gli pare. E poi è finito tutto. Sta lassù e dà un leggero tocco sulle spalle dei bagnanti, come a dire: va ora. Perché, suppongo, può calcolare col suo occhio di aficionados la velocità dei corpi, in relazione ai differenti pesi, e sa qual è il momento in cui sfiorare la spalla del tuffatore perché non si scontri con chi l’ha preceduto. Non è il suo un ruolo ufficiale, o almeno non sembra, quanto piuttosto quello di guardiano o legislatore volontario del toboga come quei vecchi che si prendono a cuore i giardini, con pazienza e indulgenza, o rabbia e risentimento. Non sembra un bagnino, ma un ex tossico, eppure è credibile nel suo ruolo in cui si è autoeletto per indubbi meriti in materia di piscine e scivoli acquatici. È credibile sempre e, a volte, si spazientisce se qualcuno temporeggia: una bambina con i braccioli che si affaccia timorosa alla bocca del tunnel. Lui sa bene che quei braccioli creeranno attrito nella discesa, altro tempo d’attesa per il successivo tuffatore, da aggiungere al tempo stesso che si sta prendendo adesso col suo temporeggiare. La sua voce, la voce dell’aficionados, allora è ferma: via, via come se avesse visto intere generazioni tuffarsi dal toboga e sempre la sua mano a indicare che quello è il Momento. Rimane lì a lungo, ma non molto, finché si annoia e si tuffa a sua volta. Ma io non lo vedo, tuffarsi, anche se era quello che forse aspettavo: di vedere la sua tecnica superiore. E non faccio in tempo nemmeno a correre in fila per ricevere il suo lieve o rude tocco sulla spalla.
Dormire nel pomeriggio
Sono seduto a un tavolo rotondo con Diana, tra altri tavoli rotondi, dobbiamo mangiare, è un incrocio tra un bar e un ristorante. Il cameriere è un signore di mezza età, con i baffi, viene a prendere l’ordinazione e si siede al tavolo con noi. Mi rendo conto che lui e Diana si conoscono, parlano affabilmente, molto vicini, ma io non penso che ci sia una sorta di flirt tra loro, se non qualcosa come la relazione tra una nipote e uno zio, o qualcosa del genere. Mi squilla il telefono, guardo sul display, o forse prima di guardare penso sia Abramo detto Eby, e scocciato mi alzo senza aver fatto in tempo a ordinare il pranzo. Diana mi dice che potrei anche fare a meno di rispondere al mio medico ortopedico. Chissà poi perché. Col telefono che vibra mi avvicino al bancone, chiedo di vedere il menù e ordino un panino con il pesce spada. Non avevo mai sentito di panini al pesce spada, ma se lo fanno evidentemente esiste. Esco dal locale e guardo il display del cellulare dove c’è scritto Kvrtz, infatti non è Eby, ma è Emanuele del Curto detto Kurtz, scritto Kvrtz sul telefonino. Mi dice che l’altra sera non mi ha visto benissimo, avevo una faccia da bambino per bene. Io dico che non è niente, che non esco molto e quando esco sono molto, troppo, concentrato su di me e poco sul resto. La conversazione finisce e incontro il Cecco detto Cecco, col suo eskimo, gli chiedo cosa stia facendo lì. Mi dice che sta studiando chimica, perché non l’ha mai studiata e quindi deve studiarla. Mi dice che c’è una nostra ex compagna di classe, Jessica Masi, e che lui l’ha salutata e ci ha parlato, mentre io l’ho solo intravista mentre ero al telefono con Kvrtz; il Cecco aggiunge che lei, Jessica, vive adesso con sette persone.
Obesità
A volte mi domando come la gente passi le giornate. È un riflesso, di certo, del mio proiettare nell’universale problematiche particolari, che è come dire mie.
Mann lo direbbe tramite Settembrini, e lo direbbe meglio. Diana direbbe d’altronde che questo è semplicistico e io allora mi vedrei costretto a replicare parlando della semplicistica psicologia maschile, così per escluderla dall’ambito della discussione.
Ci sono questi miei nuovissimi compagni di corso, di cui non so niente, un po’ più giovani di me, poco in effetti, anche se a me sembra tanto, che leggono Nietzsche e non sanno una parola d’inglese, che ricalcano tutti gli stereotipi imputabili a uno spagnolo medio e affermativo, nel senso di ottimista, non è chiaro in cosa, nella loro bruttezza. Alcuni sembrano delle scimmie, su venti ce ne è uno che si salva, anche se a pensarci meglio non si salverà nessuno. Ma non è questo. Mi domando come passano le giornate, solo questo. Come passa le giornate l’obeso che legge Ecce homo e se la ride, inconsapevole che quel libro è scritto contro di lui, ridendo di se stesso. È una risata di risentimento, nervosa, anche se con la sua camicia larga e i pantaloni bianchi ha una posizione certamente disinvolta. E mentre aspettiamo le cinque parla di un’opera, anzi no, di un Requiem, di Verdi credo, mimando col suo corpo il suono dei clavicembali per farsi bello di fronte al professore temibile di Filosofia del Rinascimento. Che lo ignora. Mi chiedo cosa faccia l’obeso che, rapido, dopo il corso delle dodici scivola via, con tutti gli altri relitti del mio corso, e come me aspetta il corso delle cinque, quello col professore temibile appunto. Lo immagino che torna a casa e mangia coi genitori, anzi no, solo con sua madre, guarda la televisione e poi va nella sua stanzina arredata malamente, forse con un poster di Bach appeso (che a conti fatti gli assomiglia), bramando di farsi una sega pensando a Eva Maria, con quella sua faccina da topo, da prima della classe, la più bella del corso: in effetti le ragazze del corso sono due. Eppure non può farsi una sega in quella stanza che la madre riordina, perché è troppo ordinata e pulita, e di sicuro non c’è la chiave. Andrà allora in bagno giustificando con la sua lettura di Nietzsche il tempo eccessivo trascorso lì dentro. Sta bene. Ma anche procrastinando il più a lungo possibile il momento della venuta, sugli occhiali di Eva Maria, rimandando il momento di sospensione in cui lei lo guarda col viso sporco di sborra, se poi sporco lo si potesse davvero chiamare, ebbene resta da capire cosa accadrà nella sua vita in quelle restanti cinque ore. Lo ignoro completamente. È possibile che in quelle cinque ore ci sia tempo (c’è di certo) di farsi, se ne ha forza, un’altra sega, anche questa volta in bagno, tempio di Onan, in piedi, nella doccia (giustificabile per la sua eccessiva sudorazione di obeso), o forse nemmeno in piedi, ma accucciato dentro la vasca o il piatto doccia. Questa volta penserà ad altro, per variare, penserà all’argentina, Melissa, certo bruttina, ma volgare e sguaiata e quindi ipoteticamente più lasciva; in un ipotetico piano immaginario che mai sarà reale sicuramente più abbordabile della cara e summenzionata Eva Maria. Alla quale però tornerà sul finale, stremato, fedele all’immagine mentale di lei grata e appagata, nella sua immagine mentale e reale che lei rappresenta e interpreta. Dopo tutto questo io mi chiedo come possa non fumare, non concedersi una sigaretta, ma invece niente. L’obeso non fuma. Il suo cuore di obeso tornerà dopo l’ennesima schizzata su Eva Maria ai normali battiti sovracelerati di sempre, quelli che un giorno lo uccideranno. Cani, sui divani, con il cazzo rosso di fuori che mi mordicchiano la mano e potrebbero andare avanti per ore. Oscar, si chiama, o Octavio, qualcosa con la O. Mi ha detto Ben che passa le giornate sul divano, con gli occhi tristi, e quando ci sono ospiti mordicchia la mano col cazzo di fuori. Sì. Certo. Ma Omar è un cane. Se comunque l’obeso è un enigma gli altri compagni di classe lo sono ancor di più: l’argentina Melissa non viene al corso del pomeriggio quindi ha certamente tutto il tempo per fare le sue cose (che cosa?), marchette ai vecchi alla stazione di Santa Justa, nelle baracche dietro a Viapol, spompinare sconosciuti nel parco dietro Plaza de España, ancor più improbabile immaginare i pomeriggi di Eva Maria: non ci proverò nemmeno. Mi ha chiamato Diana e le ho chiesto come passasse le giornate e lei mi ha detto di questa sua giornata, tradurre Marías, pranzare con gente di ambiti diversi, subire le avances di uomini (l’Australia, i sorrisi). Dopo penso a mio padre, che si finge operoso, ma che io ho sgamato. Gli spostamenti in auto e motorino sono un modo per procrastinare e riempire in qualche modo le giornate. Ma questo è ingiusto. Mio padre in questo momento sarà nel suo ufficio, starà sbrigando la corrispondenza e spedendo gli ordini davanti al pc, nell’ex studio di mio nonno, ex perché non sopravvissuto al tracollo della classe media. E Diana nella stanza di filosofia, traducendo Marías, con gli occhi dei miei cari amici puntati addosso, sul suo collo, sulle sue braccia, sul suo viso. E poi, quando torno a casa dopo il corso delle cinque, dopo aver aspettato tutto il pomeriggio congetturando sull’obeso in modi che non approfondirò, l’ho vista, l’argentina, Melissa, che usciva dalla cattedrale, con gli occhi abbacinati per il passaggio dall’oscurità alla luce. Forse abbiamo incrociato gli sguardi, forse non mi ha riconosciuto, ma allora ho capito tutto.
Reincarnazione
Sostengono i mistici orientali che se fai schifo nella prossima vita sarai cacca. Meritocrazia? No, reincarnazione. Che poi magari essere capra o cane di piazza Alameda non è per forza una punizione. Anzi, per nulla. Però sembra questo. Ma quello che voglio dire è che per conseguenza, anzi per opposizione, ci sarà un ascendere. Tu prima sei pianta, prima ancora eri sasso, poi sarai capra o cane di piazza e poi sarai uomo perché passando di lì – dall’essere uomo – troncherai il teatrino samsara. O potrai troncarlo. Benissimo. Solo che non si vede perché o cosa di un animale potrebbe alla fine essere meritevole o de-meritevole. Cagare e pisciare sul letto del padrone è giusto o sbagliato? Direbbe Javier poeta andaluso che noi applichiamo categorie umane a valori che non ci stanno a questo, e l’ho capito dopo una settimana che provavo ad addormentarmi con quel film thailandese, lo Zio Bunmè. La spiegazione del film a questo gravoso interrogativo è che sì, chiaro, nell’animale c’è l’istinto e pertanto non si vede dove sta il Santo merito. Lui sembra, lui il regista thailandese, che stia parlando di una sorta di vocazione alla libertà, che Javier poeta andaluso chiamerebbe vocazione alla felicità, equivocandosi, fidandosi di Borges e non di sé. O forse mi sbaglio. C’è nella mucca un principio, una vocazione di libertà. E questo condurrebbe a un avvicinamento, o allontanamento, dai gironi infernali, invernali. Il buddismo e il merito, a ogni modo, sono concetti che fatico a comprendere. Sarà perché c’ho litigato da bambino, con mio padre e i buddisti: il merito e l’etica protestante di mio padre mi annoiano terribilmente. Io voto per la Grazia e il politeismo occidentale.