Santa Croce (2017-...)

Al cimitero acattolico

Il binario non era ancora stato annunciato.

Guardavo il tabellone delle partenze, e mi guardavo attorno perché avevo appuntamento con mia moglie. Invece, tra la folla vidi il volto di Giacomo, il mio amico giovane. Stava fermo davanti a un binario qualsiasi, dove non partiva e non arrivava nessun treno. Mi avvicinai a lui per salutarlo, e venne fuori che prendeva il mio stesso treno per Roma.

Ma come, disse, ti avevo detto che avrei fatto il week-end a Roma.

Io annui, ma non ricordavo, o solo come una lontana informazione recepita in un momento confuso e messa da una parte, remota, nella mente. Sarebbe andato a trovare un amico, che a quanto diceva mi aveva presentato in passato, un critico musicale, o qualcosa del genere. Poi vidi arrivare Diana, e allora ci scambiammo saluti e io parlai della mia stanchezza, stanchezza che mi sembrava emanare come un calore dal mio viso e Giacomo disse qualcosa sul week-end a Roma e come mi avrebbe fatto bene. Uscì fuori anche il numero del binario, e ci dirigemmo tutti quanti verso l’11. Chissà, disse Giacomo, che non capiti che adesso ci troviamo seduti accanto.

A meno ce tu non viaggi in prima, disse Diana, noi abbiamo trovato i biglietti allo stesso prezzo e abbiamo preso quelli. Infatti eravamo seduti in altre carrozze e al momento di scendere dal treno, a Termini, io non pensai a fermarmi alla fine del binario ad aspettarlo, e ci dirigemmo veloci verso la fermata dei taxi.

Il giorno dopo, camminavamo con Diana in una giornata di febbraio fredda e limpida, tersa avrebbero forse scritto i poeti, dopo aver visitato un museo, ci aggiravamo nel mercato del Testaccio, cercando qualcosa da mangiare. C’era un clima lieto, ma ai nostri occhi sembrava tutto malinconico. Era probabilmente conseguenza della mostra che avevamo appena visto, su un esule documentarista che aveva ripreso quasi tutta la sua vita e aveva trovato poesia in molta di essa. Anche il mercato sembrava velato di tristezza, il suonatore di sassofono, un venditore ambulante di teste d’aglio, probabilmente di etnia sickh per la barba tinta con l’henneè, e mille altre facce giovani e vitali o vecchi e stanche che si muovevano in quel sabato mattina che già diventava ora di pranzo.

Forse la malinconia non si addice a Roma, aveva detto lei, e siamo noi che la vedremmo ovunque.

E a quel punto avevo di nuovo visto Giacomo. Camminava affianco a un ragazzo, il critico evidentemente, e non si erano accorti di noi, allora mi sono alzato da un tavolo e li ho raggiunti.

Che strana coincidenza, è la seconda.

Si sono seduti al tavolo con noi, e abbiamo parlato di cose a tratti futili e a tratti serie, della nostra differenza d’età, noi di dieci anni più vecchi, delle cose nuove che vedevano loro e che noi non vedevamo, di quello che invece noi con la nostra maggiore esperienza potevamo forse, chissà, aver capito, e ancora dei giovani ancora più giovani di loro due, che già gli sopravvanzavano, malgrado loro a tratti lo negassero, e di cosa questi novissimi dovevano vedere.

Poi per loro era ora di andare, ma prima di congedarsi Diana ha chiesto al critico musicale, romano, sebbene di un quartiere lontanissimo a quello in cui eravamo, un quartiere che non avevo mai sentito neanche nominare e che distava quasi due ore d’auto (cosa che rendeva quella seconda coincidenza ancor più radicale), Diana ha chiesto se lui avesse da consigliarci qualcosa là, nella zona.

Una cosa ci sarebbe, ha detto lui.

Poi quando ha finito di parlare, ci siamo salutati, dicendo: chissà se avremo ancora tempo d’incontrarci una terza volta, e convinti di no, ci siamo allontanati.

Il cimitero acattolico, diceva Google maps, distava solo sei minuti a piedi, ma il motore di ricerca mi indicava che fosse chiuso. Ho preferito omettere questa informazione a mia moglie e ci siamo incamminati ugualmente. Non so spiegarne il motivo, speravo fosse aperto, o forse semplicemente non riuscivo a pensare a un’alternativa. Parlavamo dei giovani, di Giacomo e del critico, che si sentivano così in cassa di risonanza col presente, e aggiungevamo noi, così poco consapevoli che pure quel momento stava passando. Noi ci sentivamo scollegati da tutto, ma per questo forse più in simbiosi con i pini silvestri che si stagliavano verso il cielo, o i murales disegnati sulle case o ancora le fila di monopattini elettrici parcheggiati dovunque, senza criterio e pronti a finire in delle discariche.

Abbiamo girato intorno alle mura del cimitero, non capendo dove fosse l’entrata e con la mezza idea, io, che ci saremmo fermati davanti al portone sbarrato. E invece era aperto.

Una ragazza all’ingresso con un grande sorriso e delle frasi ripetute molte volte ci ha indicato su una piantina le tombe dei famosi Keats, Shelley e poi ne ha aggiunti altri imparagonabili per importanza, ma che forse potevano interessarci. Noi abbiamo ascoltato distrattamente, poco attratti dalle tombe dei famosi, e piuttosto inclini a perderci tra le lapidi e i gatti randagi.

Camminavamo in silenzio e ho detto a Diana, Sai, ora ho come la sensazione, guardandomi indietro, a questo fine settimana a Roma, che incontrare Giacomo alla stazione, poi di nuovo al mercato, fossero coincidenze che servivano a incontrare il suo amico, il critico, che a sua volta ci avrebbe consigliato di venire qua. E quindi, forse ora, ho detto a Diana mentre lei cercava di avvicinarsi a un gatto acciambellato su un angelo di marmo, forse ora troverò qualcosa che mi parlerà, che mi dica qualcosa.

Certo, ha detto lei, è possibile, ma qualcosa di che genere?

Non saprei, ho risposto, se questo fosse un racconto, forse troverei una tomba con sopra scritto il mio nome.

Certo, se fosse quel genere di racconto, sì, ha detto lei.

Ma questo non è un racconto.

No, non lo è.

E allora cosa pensi che troverai in questo cimitero, tra queste bare e lapide scritte in tutte le lingue. Guarda là ce n’è una giapponese.

Non so, ho risposto.

Abbiamo continuato a camminare a lungo, io leggendo quelle scritte sulle lapidi come se fossero dei messaggi, dei messaggi per me, ho cercato e ho cercato, ma non ho trovato niente.

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San Niccolò (2015- 2017)

Nostra Signora della Provincia

«Insomma se ti sta tanto a cuore, chiediglielo», ha ripetuto l’uomo con il cappello di lana colore cremisi a quell’altro con i ricci che era stato in silenzio tutto il tempo, e mi sono domandato in quale fase della serata avesse così a lungo espresso il suo dubbio. 

«Chiediglielo, che c’è da vergognarsi?» ha insistito ed era tutto vestito così. Anche i pantaloni in velluto e il maglione pesante. Tutto di quel colore senza che sembrasse una cosa strana o voluta. 

Ma qualcuno glielo aveva fatto notare e lui aveva risposto facendo riferimento al gruppo musicale, o forse mi confondo. Si era parlato prima del gruppo musicale e di cosa volesse dire crimson, e solo dopo era venuto fuori che era interamente vestito di quel colore. Sia come sia «va bene» sussurra. «Allora se proprio non vuoi parlare, glielo chiederò io.»

E mi ha guardato negli occhi dicendo «il mio amico voleva sapere se siete una coppia o siete fratelli.»

Nel bar un breve silenzio, poi i presenti hanno aspettato che io rispondessi qualcosa.

Prima. 

Il giorno prima Diana mi aveva chiesto se l’accompagnavo a San Mauro a vedere la mostra di un cubano, a una villa, e io le ho risposto va bene, andiamo, ma ho anche pensato che era una pessima idea. A San Mauro non ci torno mai, neanche a Natale. 

C’è stato un periodo della mia vita in cui potevo concepire che i miei genitori morissero, ma non di vivere altrove. Poi siamo partiti. Prima io e poi loro.

Diana lavora nell’arte, o meglio ci prova. Era sul divano che guardava le mostre da recensire e mi ha detto se avevo voglia di accompagnarla a San Mauro e io le ho detto sì. Siamo arrivati al paese che già era sera. 

La mostra. 

La mostra era finita prima ancora di entrare, perché nel vialetto d’ingresso l’artista aveva esposto tutto quello che di buono aveva da dire. Cioè prendere robaccia marcia trovata lungo il corso del fiume fatta come dei nodi, grumi di cose come quando i legni e la roba si incastrano all’altezza dei ponti. La gente del luogo, passando per strada, si lasciava andare a facile ironia mentre una volta dentro la villa le luci e i grandi disegni li paralizzavano.

«Posso immaginare» mi aveva detto Diana, «che la gallerista abbia detto al cubano belle le tue installazioni, ma mica si vendono. Di queste tue cose ora mi fai dei quadretti. Niente di particolarmente grande, magari due o tre enormi se ne hai voglia, ma comunque sì: l’ideale sarebbero un bel po’ di quadretti» e lui aveva accettato. Forse la ragione stava nel fatto che l’artista era nato il mio stesso anno e anche lui aveva capito come quadretto fosse sinonimo di compromesso e che compromesso fosse sinonimo di vita. 

Anche se a questo proposito con Diana ci eravamo avvicinati, anzi Diana da sola per chiedere se avesse scelto San Mauro o se San Mauro avesse scelto lui, visto che le sue opere erano proprio in cassa di risonanza a certe derive industriali e fluviali che ben definivano il luogo, ma a me sembrava una domanda insensata, come se il peyote trova te o te il peyote. 

Il cubano le aveva risposto qualcosa, ma lei non parlava spagnolo, insomma pochissimo e non si erano capiti (come d’altronde avrebbe potuto capire una domanda insensata?) e lei mi aveva fatto un cenno, anzi prima un cenno e poi preso per mano e portato fino davanti al cubano, per capire cosa le stesse dicendo. Io gli avevo detto hola, que tal, ma lui si era come scordato del compromesso con la realtà e dei quadretti e ci aveva liquidato dicendo che la conferenza stampa sarebbe iniziata ahorita e allora avremmo potuto fare qualsiasi domanda avessimo voluto. 

Aspettando che cominciasse eravamo usciti nell’ampia terrazza dietro la villa, che poi si era rivelata essere un terrapieno sulla sponda del fiume, ed eravamo stati là a guardare nel buio il chiarore dei sacchetti di plastica appesi agli alberi lungo la riva del fiume come creature notturne o installazioni di artisti meno compromessi del cubano, che comunque, diceva Diana per giustificarlo, era «solo molto timido.»

Ci eravamo allontanati dalla villa con ancora tutti quei discorsi negli occhi: la voce del cubano sovrastata da quella dei politici e sindaci e dei sindaci dei paesi vicini, e dei curatori, e dei galleristi e dei critici amici di Diana, tutti là a parlargli sopra, sopra quell’angolo di stanza completamente stipato di scarpe buttate e spaiate e Diana a quel punto non aveva retto più. Era venuta a cercarmi e mi aveva trovato seduto fuori per le scale, ad aspettare che finisse. C’era una comunità di rifugiati che aveva aiutato il cubano a raccattare la roba lungo il fiume, ed erano alla mostra completamente fuori contesto, con i loro vestiti migliori, ma in effetti anche la gente di San Mauro lo era: tirata a lucido e pacchiana. 

Io pensavo solo: eccola qua, Nostra Signora della Provincia. 

Stavo sulle scale ad aspettare Diana che non sarebbe riuscita a fare quella sua unica e insensata domanda sul trovare o essere trovati, e c’era accanto a me un tipo nero se non che era albino, che si era sentito in imbarazzo ad andare con gli altri ragazzi di colore a farsi vedere tipo esposizione universale e sedevamo accanto senza parlare, ognuno aspettando qualcuno, e io pensavo soltanto se quel tipo fosse un segno di malaugurio o se invece l’opposto, ma no, era certo malaugurio perché ogni profezia non può che recare cattive notizie. 

Poi Diana era tornata incazzata e la nostra visita alla mostra era finita.

«Mangiamo qualcosa, già che siamo qui?»

«Sì» 

«Andiamo a San Mauro Alta?»

«Sì. In verità», ho continuato, «non si dice San Mauro Alta. Esiste solo San Mauro e San Mauro Bassa. Serve a definire dei livelli sociali che non possono essere scalfiti né, in un certo senso, comparati.»

«Ah già. Tu sei di qui, no?»

«Sì. Ero di qui.»

«Non si dice ero di qui. Si dice di un morto. Un vivo è e rimane di un posto.»

«Anche se non ci torna mai più?»

«Sì.»

«Come un cubano con Cuba?»

«Esatto.»

Così siamo andati verso il sabato sera di San Mauro a cercare un posto dove lasciare la macchina, ma come non trovare posto per la macchina a San Mauro? E mostrare con il dito a Diana alcune cose che pensavo in mia assenza si fossero spostate come i ghiacciai sulle montagne, ma invece erano sempre rimaste lì. 

«Vedi quei bar? Sono nuovi.» 

«Uao.» 

«Invece certi lavori a loro modo epocali, come questo ascensore che porta al parcheggio giù in basso, io a quel tempo ero presente, quando lo fecero.» 

«Ah sì?»

«Sì. Chissà che pensavano in Comune. Quante macchine sarebbero arrivate. E invece poi anche quella cosa era passata, le macchine avevano raggiunto il limite.» 

A dimostrarlo il parcheggio giù in basso semideserto, come una promessa di felicità disattesa.

«Allora proviamo qui?» e siamo entrati nell’osteria che sembrava mezza vuota. Ma né all’osteria, né alla pizzeria dentro l’ex-cinema fallito siamo riusciti a trovare un posto libero. La crisi in paese era solo esteriore, così abbiamo provato all’unico bar dove non volevo andare perché sapevo che avrei trovato qualcuno del mio passato, e infatti là c’era posto a sedere. 

Il bar Burro e Acciughe era vuoto, fatta esclusione per uno di spalle che sembrava in tutto distaccato da sé e dal contesto e che unicamente dopo ho riconosciuto come un vecchio conoscente. 

«Ehi, ti ricordi? Come va?»

«Benissimo» ha risposto, «molte e grandi soddisfazioni. Sto veramente bene. Mai stato meglio.»

«Bene» ho detto io, «mi fa piacere saperlo.»

Ma poi, dal modo in cui lui ha piegato il capo pieno di riccioli e gli occhi schiacciati, ho capito che non era vero, che stava male e che era ubriaco. A quel punto lo hanno raggiunto nel bar anche l’uomo pelato con i baffi e i vestiti che tendevano al rosa, ma ancora non sospettavo fossero cremisi. Poi un altro più vecchio, con un piumino, tutti e tre con le rispettive bottiglie in mano. Io ho cercato di disinteressarmi e concentrarmi sul menù, di mostrarmi assorto quanto meno agli occhi di Diana, ma non era semplice. Dopo qualche minuto l’uomo con i baffi ha fatto la sua domanda sulla natura del nostro rapporto, senza mai cambiare espressione, anche se in verità l’altro con i ricci non doveva avergli chiesto proprio niente, e di certo non aveva fatto caso che io e Diana ci somigliassimo. Perché neanche ci guardava. Ho spiegato che eravamo una coppia e che non ce l’aveva mai detto nessuno, che fossimo simili. 

«Magari dopo un po’ si comincia ad assomigliarsi. Come nelle isole o nei piccoli paesi» ho spiegato tanto per dire qualcosa. 

Siamo rimasti nel bar il tempo di finire i panini e ancora qualche discorso, poi siamo usciti. Mentre scendevamo nella strada che portava al bar centrale Diana ha detto «che cosa incredibile è appena successa. In città non sarebbe mai capitato di parlare così con qualcuno semplicemente perché ti si trova vicino. Ti sei accorto?» ed io «sì. Te dici che cosa bella, ma a me mi è sembrato un incubo. Che stavolta siamo stati solo un momento vicini, ma che se vivessimo qui non ci saremmo più liberati di quei tre.»

E, come a conferma delle mie parole, è ricomparso l’uomo con i riccioli accanto al bancone del bar e ci ha guardato come a chiedere una carezza, ma io non avevo niente da dire, e lui non ha detto niente, limitandosi a mostrare alla barista dagli avambracci pelosi i suoi soldi, come a sottolineare «ce li ho», e io e Diana abbiamo preso le nostre tazzine e ci siamo spostati a un tavolo più in là, per restare da soli, quasi fossimo nuovamente in città.

«Non hai detto niente a quel tuo vecchio amico?»

«E che gli dovevo dire?»

«Ma che cosa aveva? Perché stava male?»

«Saranno tormenti d’amore», ho risposto. 

«Sono tipici qua in provincia.»

Usciti dal bar per tornare in città, il paese che era sembrato così vivo fino a un attimo prima era buio e vuoto. 

«Che belle queste scale», ha detto Diana. 

«Sembra di stare a Parigi.» 

«È vero» ho detto io, «ma adesso andiamocene» e mi sembrava che qualcuno ci venisse dietro. Di certo, ho pensato, era ancora l’ubriaco coni ricci che camminava per le strade tipo un vascello fantasma.

«Perché hai lasciato San Mauro?» mi ha domandato Diana che già entravamo nel parcheggio deserto. 

«Cosa è successo?» 

«Beh. La gente» ho risposto. «Non ti lasciano in pace, li incontri dovunque, ogni giorno, sempre gli stessi. Bisogna partire, andare lontano, e così ho fatto.»

«Sì, ma in concreto: che cosa ti ha spinto? Quale occasione? Perché dai tuoi racconti d’infanzia sembrano tutto l’opposto: campagne dove ci sono soltanto bambini e i genitori tutti a lavoro. Mattine lunghissime a risalire la collina.»

«Eh» ho detto, «se non ci nasci fai fatica a capire.»

Tenendo Diana per la manica siamo entrati nel parcheggio, e dietro quell’ombra. «È che le persone in provincia non sono come in città: si ricordano tutto. Te gli dici una cosa, ed è quella. In verità non sono cattive. È che si annoiano. Allora cercano lo scontro, la mettono sul personale. Come fare a non mettersi sul loro piano? Uno dovrebbe evitare, poi ti rigiri e fai peggio.»

«Non capisco. In che senso?»

«Che ci fate a San Mauro?»

«Siamo venuti per la mostra. Anzi in verità io qui ci sarei nato.»

«Ah, ritorni eccellenti.» 

«E venite proprio dalla città? O da qualche quartiere periferico?» 

«Città.» 

«Le opere di un tipo cubano.»

«Alla villa accanto al fiume.»

«Era bravo il cubano?»

«Promettente.» 

«Non ho mica capito se vi è piaciuto.»

«Siamo venuti a vedere.»

«A vedere e farvi vedere.» 

«Come dici?»

«Lo so come funziona quel mondo. Non è mica un segreto. Il sindaco, il cugino, gli amici del sindaco.»

«No, veramente.»

«Vi dico che ci ho avuto a che fare. Lo so che è così.»

«Solo a vedere un artista esiliato, non a sentire i discorsi» ha detto Diana, ma era dubbiosa. Allora sono intervenuto, perché avevano iniziato loro. Erano stati i primi a essere scortesi e ho fatto la sola domanda che sapevo non dovevo fare. 

«E voi ragazzi, che fate di bello stasera?» 

Ancora silenzio, quindi il pelato vestito di rosa mi ha detto «pensi che ci sia qualcosa da fare a San Mauro?» 

«Chiedevo soltanto» ho spiegato, evitando il suo sguardo.

«Io questo l’odiavo, questo dirsi le cose precise che fanno più male» ho detto a Diana camminando veloce nel parcheggio in penombra. «Ma forse» ho continuato, «anche io sono fatto così. Rimugino, penso che gli altri si facciano gioco di me. Un complesso. Qualcosa di tipico nelle persone di bassa statura o che vengono della campagna. Pensiamo che gli altri lo capiscano subito, che siamo gente da niente. Allora ci prende la cattiveria, quest’odio da bisce di fiume.» 

«Ma che dici?»

«Vieni Diana. Voglio tornare a casa» le ho detto riconoscendo tra le altre la nostra automobile parcheggiata. 

L’uomo con i baffi stava appoggiato alla portiera che si massaggiava la testa pelata. Appoggiato alla macchina e c’era anche l’altro con il piumino e impugnavano le bottiglie di birra finite come a volerle lanciare. 

«Ecco che arrivano i fratellini» ha detto quello più vecchio che era stato zitto per tutto il tempo, mentre l’altro con i ricci è comparso dal retro del parcheggio e ha singhiozzato un lamento. 

Per alcuni secondi nessuno ha parlato, e io ho pensato al cubano e alle sue opere ignorate da tutti, che ancora stavano là nel vialetto d’ingresso. Poi ho detto pianissimo più a me stesso che a Diana che mi stava vicina «ora guardala bene, cos’è la provincia.» 

Racconto uscito 11.10.2017 nell’antologia effequ Odi a cura di Raffaele Merlini
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Fogli sparsi, San Niccolò (2015- 2017)

No-Nose Man

for Gioacchino Turù

No-Nose Man is a perfectly normal man, except he doesn’t have a nose. I don’t mean in the Russian sense, as in Gogol’s story, I mean it literally. No-Nose Man has a sort of nose, but it’s smashed against the rest of his face, as though he’d put a rubber band around his head for a joke but left it there too long, and his nose simply stayed that way, as if he’d applied photographic fixer.

No-Nose Man’s nose is a nose bent in upon itself, an extremely shy nose that wants to return into the face from which it sprung, but it never manages to go anywhere. No-Nose Man has a dog, and the dog definitely has a nose. No-Nose Man’s probably retired. He takes his dog out on a leash, takes him outside to do his business. I don’t know if he picks up after the dog, which is what interests me most whenever I see someone take a dog for a walk, because that’s the part concerns me too. The dog, and various canine-oriented stuff about breed, animal psychology, their similarity to human beings, their resemblance to me or their owners, doesn’t concern me, or only vaguely. All I care about is whether the dog’s owner picks up the dog’s shit. If I find out that he does pick up the shit, then the matter no longer concerns me. If he doesn’t pick up the shit, or pretends he’s got a phone call or some other phony excuse at the crucial moment, then I turn around. I don’t say anything, but I stare at the person and let him figure out what I’m thinking on his own.

With No-Nose Man, I attempt this mental process—we do this with a lot of things, every event comes with its own mental process attached, one that keeps us from thinking about the thing itself, or makes us think about it only in reflection—as I was saying, with No-Nose Man I try to do my usual. That is, I watch to see whether he picks up his dog’s shit, but with him I’m unable to do the same thing I usually do. It’s probably his lack of a nose that makes my thought-process less fluid; his non-nose and his murderous look.

I never think about what happened to his nose, I mean, what really happened. I’d rather think of some funny story, like the rubber band he might’ve stuck there for a joke. I’d rather think about the dog. I try to concentrate on the shit, I really try, but No-Nose Man disarms me. Maybe it’s his non-nose. I think about him, and everything slides and seems relatively unimportant, even the shit.

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In fuga dalla bocciofila

33TFF | Bocciofila goes to Torino

image1Nei giorni di Torino non ho scritto una riga, solo deambulato in uno stato febbrile tra una sala e l’altra e tra un bar e un ristorante cinese e uno torinese e la casa di Claudio in Corso Regio Parco (grazie Claudio, tra l’altro).

Sono stato bene come si sta bene ai Festival in cui si è totalmente liberi di vedere, non vedere, scrivere non scrivere, fare tardi, perdersi, sentire freddo caldo medio, mettere una sciarpa non metterla, la canottiera, la camicia, rimbombarsi tutto il giorno la testa dalla mattina alla sera dentro al cinema, non pensare ai problemi della vita, che ne sarà di me la mia famiglia l’Europa mio nonno Brunello, strafarsi di cinema e basta: quella libertà là.

Il film più bello che ho visto (considerato che siamo arrivati venerdì sera e domenica mattina siamo andati via, cinque non è male) è stato il nuovo del caro Apichatpong “Joe” Weerasethakul, diventato universalmente noto con il suo Lo Zio Bunmee che si ricorda le sue vite precedenti. Questo nuovo Cemetry of Splendour non è lontanissimo dal precedente: se vi erano piaciute le scimmie con gli occhi laser e quel clima da tetraidocannabinolo che si diffonde nel cervello tramite pellicola, allora anche questo vi piacerà tantissimo, e passerete giorni a cercare di memorizzare il nome del regista e a cercare quelle lucette che cambiano colore e conciliano il sonno.

Il secondo film più bello tra quelli visti è stato il giapponese dal titolo Real Oni Gokko o semplicemente Tag del regista Sion Sono, che probabilmente è Dio. Questo lo amerete senz’altro tutti voi amici che mi leggete (penso specialmente a te, Ferruccio), davvero, alimentando un lato pop che è dentro ciascuno di noi, perché è un film violentissimo, dove ci sono solo protagoniste donne per lo più liceali che indossano vestitini succinti tipo divise e minigonne e vengono fatte a pezzi o si trucidano l’una con l’altra o sono squartate da demoni (il vento).
È tutto molto ironico però con i giapponesi non si sa mai fino a che punto.
Io non amo questo genere di cose, ma il film è davvero interessante (seppur sul finale si perde completamente) e dentro al cinema c’erano anche dei fan/nerd del regista che battevano le mani durante le scene più violente del film. Va bene.

Altri film visti: Te prometto anarquia, Messico, skaters gay narcos ‘nsomma, Borsalino City un pacco assoluto, The day of the Triffids, un horror/fantascienza degli anni sessanta, con cecità globale, piante assassine e Londra in fiamme, perché no?

In conclusione Torino è una città bellissima, mi è venuta voglia di trasferirmi, ma una voce dentro di me mi ripete che non vale averla vista con il sole e in questi giorni di Festival. E il mio ultimo pensiero è che a questi festival viene voglia di lasciare tutto: lasciare anche il mantello e seguire per sempre ogni film possibile, smettere con tutto il resto e dedicare la mia intera esistenza alla contemplazione dei film, tutti vanno bene, film dalla mattina alla sera, come in estasi, come un mistico. Prima o poi, mi ripeto la sera che torno da Torino, io lo farò.
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In fuga dalla bocciofila

Un testo facile e uno difficile per lo schermo dell’arte

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Passare dal mondo dell’ufficio, del lavoro, del chiacchiericcio, al mondo del cinema, dello schermo dell’arte, della video arte, è quanto più prossimo io penso sia lo shock culturale. E’ un salto impossibile, è un incontro non dato, è il respingimento, è respingente contro respingente. Il mondo fuori e lo spazio dentro, le mie colleghe e i loro discorsi, il televisore nuovo da acquistare, i figli, e questo vetro incomprensibile, queste superfici, mattonelle che vengono proiettate, con un rumore di sottofondo, una nota continua. Eppure mi sembra che quello che proiettano qui sia un continuo tentativo di rispondere a questa domanda: come spiegare queste immagini incomprensibili ai miei colleghi di lavoro, come spiegare questo reciproco respingimento?

2.
Il Giovedì è la serata che conta. Il momento antitesi. Dopo lo sfarzo (il classico) del primo giorno, dei lustrini, delle file fuori, delle luci della prima sera, è il secondo giorno quello più difficile, quella serata che può spiegare davvero un festival. Lo schermo dell’Arte, cos’é?

Arriviamo di corsa, alla spicciolata, donne del sud strappano i nostri biglietti (ma non c’è nessun biglietto da strappare), donne del sud al festival ci hanno pure fatto entrare, seppur in questo caso l’accento sia milanesissimo, e altre donne ancora siedono tutto intorno a noi: hanno i pantaloni “colore denim”, lo stesso lavaggio identico. Non è un caso, è solo la moda del momento.

Scrivo qui in ultima fila una breve nota su un fogliaccio di carta assorbente, già pronto a partire per il festival di Torino, affranto per quello che mi perdo qui, per la serata tre (le esplosioni che sono il Venerdì, senza le preoccupazioni del domani, il Marzo), senza pensare al Sabato (l’apoteosi), senza pensare alla depressione della Domenica (ma di certo Domenica sarò di nuovo di ritorno in città).
Andare via nel momento migliore, schermo dell’arte, con la tua presentatrice perfetta d’altri tempi flemmatica, con quella sua voce scivolata, quella sua cadenza nobile, quella freddezza e pantaloni larghi dove devono, ma che sto dicendo? E Ester che bella, non si può proprio dire niente al riguardo. Schermo dell’arte, che cosa bella siete voi che mi sedete a lato, che mi attendete su un divano, che mistero, che cosina che io non so dire, schermo dell’arte, già a scrivere queste righe su un pezzo di carta, lo so, io vi sto facendo un mezzo torto.

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Fogli sparsi, Malta (2011-2012)

Londra 2012 | This is the new austerity

When the showing ended, someone asked about the plot to kill Hitler. The discussion moved to plot in general. I found myself saying to the assembled heads, “All plots tend to move deathward. This is the nature of plots. Political plots, terrorist plots, lovers’ plots, narrative plots, plots that are part of children’s games. We edge nearer death every time we plot. It is like a contract that all must sign, the plotters as well as those who are the target of the plot”. Is it true? Why did I say it? What does it mean?

Don De Lillo, White Noise

Se sei povero, a Londra, mangerai malissimo. A volte a Londra ti svegli e c’è il sole e Gaia deve andare a lavorare. Io attraverserò la City per andare a Richmond, al mio corso da mentecatto. Sii umile. Ci provo. Richmond è bella e tutti sono particolari e diversi, è solo la mia visione delle cose. Il vecchio alla fermata dell’autobus a cui chiedo d’accendere. Lo ringrazierò fin troppo. E perché mai le fermate degli autobus sono chiuse dal lato della strada e non viceversa? Io andrò in metro ad ore intere, che l’abbonamento settimanale è la più grande stabilità che ho, qui a Londra. Muoversi con la città, a le diverse ore della sua vita. Alle sei andando verso Waterloo, che si pronuncia, anzi che pronuncia l’interfono della tube, in un modo che nessun professore di storia della mia intera vita ha mai pronunciato. Uaterluu. Alle sei andando a Waterloo. I treni strapieni, e la gente che è così vicina eppure riesce lo stesso ad ignorarsi: come fanno? E’ l’abitudine. E allora io guardo tutti, i due operai della mia età che scenderanno a Victoria: uno di loro due non ha una scarpa. Perché? Esistono gli infortuni sul lavoro anche qui? E perché non ha preso un ambulanza? E la mattina quelli che vanno da dentro a fuori la città, così luminosi, si incontreranno alle fermate della metro di superficie. Poi tutti stanchi, che crollano dal sonno o che dormono semplicemente, dormire in metro, e chissà quale parte di loro ancora li permetterà di alzarsi prima o poi e scendere. Non lo vedo mai, quel momento. Martedì dieci di Aprile, Londra, solo come un cane, di passaggio come e ancora più di sempre, mi riscopro mosso dalle abitudini e se me le togli mi crolla tutto. Ma le abitudini si costruiscono in un attimo e allora andare da Tesco a prendere ancora dei nuddle che sono buoni o forse cattivissimi, come tutto, se sei povero, a Londra. La casa vuota, i nuddle sullo stomaco, che ieri che non sapevo cucinarli li avevo mangiati che ancora non si erano completamente evoluti, Gradual development, li avevo trovati più digeribili. Domani opterò per un grado intermedio, come il livello mentecatto del corso d’inglese a cui sono ascritto. A ragione.

***

Venerdì ancora a Londra, circa le sette. Io stanco morto finito sul divano di questa casa dove non rimetterò mai più piede, e su questo divano dove mai più dormirò. Le settimane passano e io me ne accorgo solo perché il computer mi dice di riavviare, che è trascorsa una settimana, dall’ultimo riavvio. Vagavo, su una metropolitana di superficie e crollavo anche io dal sonno, finalmente, come tutti gli altri intorno a me. Derivavo, è l’espressione. Poi a Bethnam Green iniziava a diluviare, col sole e io e gli indiani e i pazzi inglesi drogati e le madri di famiglia ci nascondevamo dentro Mc Donald, che non era più un non-luogo come un tempo, ma era luogo. C’era questo vetro grande tutta la parete che si affacciava sulla strada e passavano solo musica classica, nel sudicio, che nessuno si sogna neanche lontanamente di buttare la sua roba come noi inesperti italiani vorremmo fare. Lasciare tutto sui tavoli, che qualcuno lo butterà. Buttare tutto, qui a Londra, dietro un vetro e fuori diluvia. Dura poco. E prima ancora a Richmond, per l’ultima volta, era bello, era un venerdì dell’umanità, compagni trovati e perduti senza neanche i mezzi discorsi che talvolta si fanno, di tornare a vedere-sentire-sfiorare. Tutto un buttare, un perdersi continuamente sulle metropolitana di superficie e quelle sotterranee, il segnale del telefono e i volti della gente a miliardi, che tanti non credevo ne avessero partoriti. Tendo a creare legami, creare abitudini, ma sempre, ancora, ai margini del mio campo visivo. Così l’angolano Pombal e il thailandese dall’insicura sessualità, e poi la giapponese e la spagnola del pomeriggio di cui rimarranno queste parole su un computer che mi avverte che passano le settimane, mentre io dimentico tutto. Allora questi nomi che forse sono importanti, sono Luke  Giapp che aveva solo una anno più di me ed era bravo, era scorpione anche lui, e si è finiti a parlare di tutto quello che volevo io e al tavolo del venerdì c’erano solo segni di terra, fatta esclusione per me. Chissà la colombiana madre di famiglia che segno era e chissà quelli del pomeriggio, con cui era stato più difficile, ma solo perché ci era mancato il tempo, di perderci. Era dolce uscire da quella porta con Patricia parlando di Siviglia in inglese e salutarci alla spagnola e poi tornare subito ad essere inglesi di riflesso, a crollare sulle metropolitane a sognare che sia notte, che sia domani e pulire la casa, i piatti, per terra, che nessuno si accorgerà che qualcosa è accaduto. Sono giorni belli, mi sento come al limite dell’adolescenza, forse l’epoca è proprio finita, eppure siamo qui sui divani in case sconosciute e non si sa come fare.

9-13:4:2012

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In fuga dalla bocciofila

Halibut | Curriculum Vitae

Mi chiamo Alessandro Bechi, ho trenta tre anni, e sono originario dell’alto Lazio. Al confine con l’Umbria. Mi sono trasferito a Firenze con la famiglia quando ero piccolo. L’alto Lazio è il posto più bello al mondo. Là, la vita costa meno. Gli affitti. Le bollette: della luce e del gas. Le assicurazioni della macchina. Del motorino. L’allacciamento alla rete telefonica, la connessione a internet. Oltre a questo è molto importante dire che là, nell’alto Lazio, la vita è in bianco e nero. I colori, vi dico, non sono quelli normali che ci sono a Firenze o dovunque, nel mondo, ma là vi è solo una scala di grigi e bianchi e neri e grigini, e altre medie tonalità. Qualcuno potrebbe forse parlare di sfumature di grigio, ma io non faccio questo genere di film. Faccio un altro genere di film. È bene che lo sappiate fin da subito.

Comunque dicevamo dell’alto Lazio. A parte il fatto che non ci sono colori, per il resto è tutto identico a qui, stesse persone, stesse cose da fare di sera, tutto esattamente identico, escluso il prezzo medio della vita. Altra differenza che avevo scordato di dire è la presenza, a volte, durante certe ore prefissate della giornata, di una musica. Di Chopin (valzer in si minore, opera 69, registrato e reinterpretato da jewelbeat), per cui tutti, nell’alto Lazio, interrompono le loro attività o le continuano, ma si fanno silenziosi, e risuona questa musica tristissima di sottofondo, come se fosse la steppa russa, come se fosse un sogno di Tarkovskij. Vieni diffusa nell’ambiente a volume medio alto da delle casse posizionate ad ogni angolo di strada, per legge.

Ci sono delle persone, per lo più anziani, a cui viene chiesto di indossare dei party bag, che sarebbero degli speciali zaini trasporta casse amplificate, perfette a diffondere la musica nelle zone più difficili da raggiungere con la normale filodiffusione. Penso che quando sarò vecchio tornerò nell’alto Lazio e chiederò di essere assunto anche io, a compiere il ruolo di anziano porta cassa. Ma per il momento mi dedico al cinema. Il posto da cui vengo non influenza la mia poetica e il mio modo di fare cinema. Per niente.

Mi piacciono moltissimo le maschere di carnevale. La mia città preferita al mondo è Venezia, la seconda è Viareggio, la terza Rio de Janeiro, in Brasile. A causa del carnevale.
Il fatto che mi piacciano le maschere non fa di me una persona strana. Sono una persona normalissima, anche a livello sessuale non ho nessun tipo di fissazione particolare. Il missionario. Ecco quello che ci vuole per me.
Nessuna mascherina, No, No, No, ho detto di no.

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Fogli sparsi, Malta (2011-2012), Racconti

Ultimi racconti maltesi

I. Morale della lucertola
Qui sulle rocce accanto al mare una lucertola come me. Esce dalla caverna e si ferma al sole di Marzo e il suo corpo palpitante. Ieri sera nella grotta pensavo ancora al mio credo, riflesso di riflesso Herman Hessiano, più Herman che Hesse. Pensavo che se una cosa è chiara allora è certamente falsa. Questo il mio credo di lucertola. Quindi nella non-chiarezza starebbe la verità delle cose vere. Ma poi pensavo, sempre nella notte, mentre disperderdevo il calore incamerato sulle rocce, vicino al mare, che il concetto così espresso era tragicamente chiaro e quindi si annullava da solo.
Cosa nutre la lucertola, oltre al sole, mi chiedo. E questo dubbio alimentare, riflesso di riflesso kafkiano, mi riporta ancora ad altre notti in altre grotte e poi affacciarmi all’imboccatura in questo sole di marzo che è alimento e forse basta. Ora solo incamerarare, tutto un incrementare, ma incrementare nulla e siamo così vicini, io e lucertola, ma come direbbe Camilla ciò che mi allontana sono nuovamete io e le mie superga nere. Per una morale delle lucertole e della loro rarefatta alimentazione. Guardiamo ai lati e non vediamo davanti, o meglio lei, la lucertola, che quindi non mi guarda se mi guarda, ma mi guarda solo quando non mi guarda. E io allora? Di riflesso non la guardo.

II. Sciamano sull’autobus
Ieri (o forse l’altro ieri) era il mio compleanno ed andavo in autobus. Ieri o l’altro ieri ero un pò triste per quella storia del compleanno, ma non so spiegarne la ragione. C’ho pensato anche, perché me l’hanno chesto e mi succede ogni anno, alla ragione vera, ma non ne sono venuto a capo neanche quest’anno. Mi sono detto che è perché, malgrado tutto, vi è un investimento di senso, in quel giorno, che io lo voglia o meno, e siccome c’è investimento c’è aspettativa di senso e quindi necessariamente disincanto e disillusione. Non importa, ci riproviamo l’anno prossimo a non investire di senso.
Ma non è questo che volevo dire. Andavo in autobus e c’era davanti a me a sedere un signore di colore, si sarebbe potuto pensare del Benin, che mi guardava, ma non come si guarda in autobus, ovvero come si guarda sempre, mi guardava in un altro modo. Questo signore sembrava uno sciamano, ma vestito come uno normale, quindi non per l’abbigliamento, ma per la sua faccia espressiva e segnata e sopratutto per il suo modo di guardare. Guardava tutto molto attentamente e dopo un pò che mi fissava, mi sono convinto che potesse leggermi nella mente, non solo a me, ma a tutti. Non immaginavo un vocìo caotico che doveva sentire lo sciamano, ma ritenevo piuttosto che fosse in grado di isolare i pensieri. Allora lui mi guardava e mi stava leggendo la mente e quello che io pensavo e che lui sapeva, era che io stavo pensando a lui e alla sua capacità di leggere i pensieri. Il mio in quello specifico momento.
Quindi la mia teoria non tornava, perché se io sapevo che lui sapeva, avrebbe dovuto stupirsi un minimo oppure farmi un segno d’intesa, qualsiasi cosa, ma invece niente. Eppure, pur di continuare a credere che lo sciamano potesse leggere le menti mi sono convinto che fosse preparato da anni a quella eventualità smascherante, che fosse preparato e dissimulasse. O in alternativa che leggesse sì i pensieri, ma non quelli superficiali, non quella stronzata di io che pensavo che lui leggesse le menti, ma quelli più profondi, quei pensieri che si hanno quando si pensa a qualcosa di più immediato, per esempio quando siamo in autobus. O quando è il tuo compleanno. Quei pensieri gravi sulla vita e sul tempo, o altri ancora più profondi. In ogni caso lo sciamano sull’autobus mi capiva, capiva la mia tristezza che io pure non capivo interamente e poi al capolinea siamo scesi tutti quanti, lui compreso e ci siamo dispersi. L’ho rivisto, lo sciamano, alla porta della città, che si girava indietro come se qualcuno lo seguisse o avesse dimenticato qualcosa sull’autobus, l’ombrello oppure la felpa. Poi l’ho semplicemente perso di vista e un altro compleanno anche per quest’anno.

III. Progetti per il futuro
I fragilisti di domani andranno in giro con tatuaggi di Icaro in caduta libera, o forse solo l’idea di tatuarselo, e lucertole al guinzaglio, o forse solo l’idea. Parleranno con sciamani sull’autobus, anzi non ci parleranno, che non c’è proprio nulla che questi non sappiano già.

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Fogli sparsi, Racconti, San Frediano (2013-2015)

The Eye in the Ass

to Matthew Licht

When I got my Ph.D. in moral philosophy in June, 2008, there were only a few items on the list of things I wouldn’t do: eat the flesh of relatives killed in ritual sacrifice, waste water, or screw a friend’s woman.

This last rock-solid, Ten Commandments-style precept was by far the stupidest, but somehow I couldn’t let it go. Silly, I thought. As though a woman belongs to someone. An OK rule for Mesopotamian shepherds, maybe. Nevertheless, when I finished my degree at Columbia, I still believed in that third rule alone. Shortly thereafter, I left academic life. My morally abject colleagues disgusted me. I ditched their world and started fresh, with no regrets, even though my moral conceptions had been influenced. I remained true to my conviction, and never screwed a friend’s woman.

In April 2011, I was sharing an apartment near Prospective Park with Laura and her boyfriend Cyril. Laura entered my room dressed in jeans and bra. She rubbed against me like a cat, pushed her pointy tits in my face. I said, “C’mon Laura, quit it.”

She looked at me and said, “Huh? You come off like some fascist blasphemer whoremaster jack-off artist but you don’t want to grab these?”

“Course I want to, but what about Cyril?”

And that was that. Didn’t even matter that Laura was no big deal, physically, or that she and Cyril broke up shortly thereafter, which made life in that Brooklyn closet impossible. I remained true to my moral imperative.

Years passed and I hooked up with Mary Ann, who gave me a different view of morality. In other words, stop thinking about it all the time, and try to live like everyone else. We had our habits, worked regular full-time jobs, ate out a lot. Life became a minor concern, and morality was no longer an interesting topic for discussion. We often went out with our friends Bill and Samantha—to restaurants, movies, or just for a walk. Mary Ann would say, “What a lovely day. Let’s go for a walk.” So I’d call Bill and Samantha. We felt good with them, there was no tension. On October New England evenings, we’d walk along the shore, listen to music, stop somewhere for beer or coffee, and it was great. At night, in bed, Mary Ann and I would talk about them, and us. Pretty banal, but the truth was that I really wanted to fuck Bill’s wife, Samantha. I dreamt about her after our evenings out together, after dinners where my cock stayed pointed straight at her. I used to dream about her in every possible position, but there was nothing doing. She was my friend’s woman, no matter which way I turned it. Prohibition, I thought, is the perfect fuel for desire. She’s not that hot, and even kind of dumb, I told myself, but that didn’t change anything. I wouldn’t trade her for Mary Ann, I thought, in fits of exactly the sort of typical bourgeois paranoia I wanted to avoid. That’s what I’ve turned into, I thought. But the situation refused to change.

One evening when Bill was vising relatives in Connecticut and Mary Ann was out on Cape Cod with her sister, Samantha called and invited me to a party she’d organized. Of course I went. She wasn’t looking her best, maybe due to the stress of getting a party together, or getting up the nerve to phone me. So we spent the evening following different interests: she socialized while I got looped. But we kept an eye on each other in all the rooms of the house we were in, and every now and then we clinked glasses, drank a toast to nothing, to the end of the world, the triumph of evil, to Satan, the horsemen of the apocalypse. When the party was over, we went home together.

Bill and Samantha’s place glowed with an unfamiliar reddish light. We drank a nightcap on the sofa, then our bodies came together and we started kissing and touching each other. She had a habit of putting a finger crosswise on her lips, and it always seemed like a No Go sign. Now her lips silently said, here we are. Finally, I touched her tits, which I’d scoped and studied the best I could. And they were worth the wait: big and firm. While I was grabbing them, she got my pants down and jacked me off nice and slow. We were hot, but there was some tension, a block. My moral philosophy degree had come back to haunt me right when I was finally about to reject and abjure an ancient self-imposed prohibition. I turned Samantha around and entered her from behind. I humped her easy, then picked up the pace. She twisted back to face me, moaning softly. That’s when I spotted the eye in her ass.

The eye was watching me. At first I thought it was a ping-pong ball, or a pustule, but I wasn’t grossed out. It was an eye, no doubt about it, and it looked a lot like my friend Bill’s eye. I stopped cold. Samantha asked, what’s wrong?

Nothing, I said, and started in again, pretending nothing was wrong, but that clever eye was staring. At times it seemed benevolent, but mostly angry, mean, and it never looked away while I fucked my friend’s wife. So I spat on the eye, again and again, until it closed. I stuck a finger against her asshole and pushed. The eye closed further, closed in on itself. She turned around and gave me the OK go ahead signal, so I stuck it in her ass, pushing the eye as far as I could into the depths of her rectum. I came hard, full of rage, pulled out my cock and made her lick it. She looked me right in the eye while my sperm dripped off her chin, then I took off, just like in some porn flick that’s not even worth talking about.

Days passed, as they will, and many more, until Mary Ann came back from Cape Cod and we got together with Bill and Samantha again. Samantha and I acted like nothing had happened, but there was one thing no one could ignore: Bill was wearing a piratical eye-patch. He explained he’d been injured while skiing. A ski-pole had blinded him, but he said he was lucky: a few millimeters deeper and he’d have been dead. There was some really complicated, expensive surgery possible, but he said he probably wouldn’t risk it. Basically, he liked the way he looked with an eye-patch. Samantha and Mary Ann laughed. I felt a pain in my eye, like a burn, a wound, as though a closed eye were watching me from within. I didn’t smile and I didn’t say anything.

capainteira

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