In fuga dalla bocciofila

Sangue del mio sangue | La gita a Bobbio

Ho incontrato dentro al cinema semi deserto di mercoledì la madre del mio vecchio amico Lorenzo. Non ci vedevamo da qualche mese, dopo anni di oblio perfetto, quindi in realtà ci siamo salutati con affetto, ma nemmeno troppo. C’era anche il padre di Lorenzo, che ha detto: «Vedi là, che a veder Bellocchio sembra quasi di aver una proiezione casalinga, privata».

Infatti la sala era semi vuota, tutti nella maxi sala sotto o sopra (che l’orientamento dentro i cinema mi sfugge sempre) erano andati a vedere morir la gente in montagna, sull’Everest.

Noi invece là sopra (o sotto) a guardare questo ennesimo Bellocchio per chissà quale forma di fedeltà, e a chi. Se a un’ideologia, se a dei nostri noi del passato. La madre di Lorenzo prima che il film iniziasse mi ha detto:

«Hai letto che il film di Bellocchio è ambientato a Bobbio? Ti ricordi quella nostra unica gita insieme?» Io non mi ricordavo, pensavo che Bobbio fosse un filosofo italiano, neanche mi ricordavo di una località.

Ho negato e lei mi ha detto, «Ma sì dai, quell’unico viaggio che si fece, anni fa, te e e Lorenzo eravate in seconda o terza media, in quel posto tra la Liguria e l’Emilia», e io ho ricordato di un posto con dei fiumi: era Bobbio. «Quattro ore per andarci, una strada al limite», ha ricordato il padre di Lorenzo. E poi non c’era altro da dire. Abbiamo aspettato che iniziasse il film, loro davanti io dietro di loro e il figlio Lorenzo lontanissimo, nella città straniera con il suo lavoro e la sua nuova vita.

A uscita sala abbiamo commentato il film, con i genitori di Lorenzo. Io ero uscito quasi subito, per pensare alle mie cose, quando ancora scorrevano i titoli di coda, mentre loro due solo alla fine della proiezione. Mi ero messo fuori dal cinema a slegare la bici, e poi anche loro erano usciti e mi avevano detto che il film l’avevano trovato disorganico (cosa avranno voluto dire) un po’ confuso, e allora io ho detto la mia, tutto d’un fiato.

«Che con gli ultimi film Bellocchio parla sempre della stessa cosa, ovvero di lui stesso regista che faceva film e ora ne fa un altro ulteriore. Un film come metafora di una donna bellissima, con un naso importante, forse posseduta dal diavolo, forse da un dio, a rappresentare il film stesso, i film che ha girato in passato. Così belli che non sa nemmeno lui come ha fatto. Film e fare film legati tra loro, come le cose alla fabbricazione delle stesse. Film che dopo un’ora si interrompe, svelandone il meta livello, il fare e il presente impossibile, la lontananza del regista da quello che vuol dire, dal suo stesso film».

La madre e il padre di Lorenzo mi guardavano scocciati «Mah… Sì, sarà come dici, ma non è che sei chiarissimo».

«E poi c’è tutta la faccenda “sangue del mio sangue”», ho continuato, «la faccenda che Bellocchio fa lavorare tutta la famiglia nei suoi film, ormai la storia è un discorso privato o quasi, un linguaggio privato, che però si nega, che nemmeno esiste, con Wittgenstein».

«Ma che cosa stai dicendo?», mi ha detto la madre di Lorenzo.

«Cosa ti sei fumato?» ha detto Saverio.

Ma io ero serio, «Ma sì, non capite, il messaggio politico si è esaurito, anche il suo modo di fare film di un tempo non c’è più, la donna con il naso importante è stata murata viva, è là sotto che riemerge nuda e incomprensibile, identica, dopo anni, ma tutt’intorno sono morti: Bellocchio è finito».

Loro mi hanno guardato come si guarderebbe un figlio demente lontano e perduto e mi hanno detto: «Eppure ti ricordi in quella gita a Bobbio, eri così spigliato, così intelligente», ecco cosa pensavano slegando a loro volta le bici, mettendo le loro sciarpe rosse intorno ai loro colli, «Eri un bambino così bravo».

«E scrivi ancora?, mi hanno chiesto proprio un attimo prima di svoltare a una curva.

«Sì», ho urlato io, ma non credo che mi abbiano sentito.

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Fuochi d’artificio in pieno giorno | La scomparsa di Effe

Dopo il cinema abbiamo avuto terribilmente voglia di andare a mangiare qualcosa e siamo andati al cinese.

Siamo andati a quello in Via Sant’Antonino dove ci lavora Effe. O meglio, dove prende una percentuale per la gente che gli riesce di portarci. Se ne sta là in un angolo a fare finta di nulla, con una birra, seduto su un gradino, come se aspettasse qualcuno, come se non avesse nient’altro di meglio da fare e se passa qualche gruppo di turisti lui li abborda e li porta a quel cinese. Gli danno qualcosa, se una birra o dei soldi o del cibo, io questo non lo so.
Comunque c’è da dire che si mangia benino, e si spende poco. Va bene, diciamo che si mangia ok.

Si mangia di merda, comunque si spende ben poco.

Dopo il cinema ci siamo detti, andiamo al cinese di Effe?
Solo perché era il più vicino e nel film che avevamo visto non facevano che mangiare cose cinesi che sembravano squisite.
Siamo andati.
Eravamo due coppie e il mio coinquilino messicano. Eravamo cinque in totale. Effe non lo abbiamo visto, ma di certo ci avrebbe preso qualcosa, perché là al cinese lo sapevano che eravamo amici suoi. Eravamo come a dire merce sua. Abbiamo mangiato male come al solito, abbiamo scherzato sul fatto che avessero messo la salsa agrodolce sul pavimento del bagno. Sembrava di scivolare, come sul ghiaccio, ma era solo salsa agrodolce.
Poi giorni dopo abbiamo saputo che Effe, beh, che non c’era più. Abbiamo seguito tutta la faccenda sui giornali, perché comunque nel quartiere lui era conosciuto, era un personaggio. Hanno scritto quei trafiletti in basso, nella parte di cronaca locale, di come Effe era sparito, se qualcuno ne sapeva niente di contattare e un numero di telefono, pure un comitato e una pagina facebook. Ci siamo iscritti alla pagina facebook.
Abbiamo ripensato intensamente a quella sera dopo il cinema, ne abbiamo parlato tra di noi che eravamo là quella sera, se ci fosse qualcosa di strano, di diverso rispetto al solito. Se con un fare collaborativo ci avessero offerto la grappa cinese, ma era stato tutto come sempre: ci avevano chiesto se la volevamo la grappa, ma mica per offrircela gratuitamente, solo per sapere e poi metterla sul conto. Noi avevamo scherzato su quella cosa: eddai, veniamo qui sempre, potreste anche offrircela una grappa, e il cameriere dietro al banco con i suoi occhiali da impiegato postale, alla fine ce ne aveva portata una. Una grappa in cinque. Tutto da programma.
Effe non c’è più, questo è quanto, girano strane voci, dicono che avrebbe litigato con quelli del ristorante, che ci sono storie di tradimenti, di donne, di omosessuali cinesi gay, non si sa bene, girano storie contraddittorie. Fatto sta che nessuno riesce a sapere niente del vecchio Effe, quell’ammasso di birre seduto sul gradino, quel suo sorriso da persona fondamentalmente buona, ma dopo molti giri di grappa al bambù e i molti turisti e amici e parenti portati tutti a mangiare sempre e solo ed esclusivamente a quel ristorante cinese lì, ecco solo dopo gli appare il sorriso buono.

C’è chi dice che è solo la stagione invernale alle porte, che già altre volte Effe sia sparito per lunghi periodi, nelle regioni meridionali, dove il clima è migliore. C’è chi dice, ma questa voce è la più scontata, che Effe ce lo siamo già bello e mangiato in queste sere condito in salsa agrodolce.

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Non essere cattivo | Snob

C’è tutto un mondo segreto che regola le nostre azioni, il nostro fare o non fare qualcosa, il nostro muoverci silenziosi sotto notti piovose o nebbiose, attraversare ponti, scegliere il film che andremo a vedere al cinema la domenica pomeriggio allo spettacolo delle sette.

C’è un mondo segreto che noi non conosciamo e regola il nostro agire, un mondo che sono i nostri pregiudizi, i nostri occhiali, i nostri occhi, per cui questa domenica ci recheremo stancamente o meno con il cuore triste o lieto al nostro cinema affollato o deserto della domenica.

Questo mondo segreto, che poi così segreto non è, afferma che il nostro desiderio non sia nostro, ma determinato da qualcosa, da qualcun altro, dal nostro modello di riferimento, da un fratello maggiore, da un padre che non ci riconosce, dagli spot pubblicitari, da quello che abbiamo letto sulla domenica del sole alla fermata degli autobus, sulla tranvia andando a lavoro, o magari su mymovie, assolutamente sì, assolutamente no, no, sì.

Così oggi se ti trovi a scegliere un film da vedere al cinema, perché piove, la tua scelta non sarà libera. Se stai leggendo queste righe probabilmente il film che dovresti vedere in questo week end o in questi giorni, è Non essere cattivo e ti spiego subito il motivo.

Un regista di culto: tre film in tutta in tutta la sua carriera (che cazzo ha fatto per tutto il resto del tempo?).

Su wikipedia una pagina per lui, ma di solo sette righe.

Morto (ma come?).

Un cognome (vero?) figo.

Un film dove c’è droga, gli anni 90, musica anni 90, giubbotti jeans con dentro il pelo di cane, bomber alpha industries dentro arancione, giubbotti con scritto dietro JORDAN.

Recensione su Prismo.

Recensione di Francesco Pecoraro su facebook.

Limoncello, morti ammazzati, video poker.

Ma la verità è che io Non essere cattivo l’ho già visto, il giorno che è uscito. Perché sono snob, perché il mio agire non è mio, ma subisce condizionamenti, come per tutti (Il film a mio parere è bello e ben girato, a tratti commovente ma il finale non funziona per nulla. Gli ultimi venti minuti io non credo vadano affatto bene, ma di solito io non li capisco i finali, è vero).

Fatto sta che oggi piove e allora niente, tornerò al cinema, andrò a vedere quel noir cinese che ha vinto a Berlino l’anno scorso, Fuochi d’artificio in pieno giorno, o come hanno scelto di tradurlo. Perché sono un cazzo di snob, ecco tutto. Lo so che anche il mio agire è regolato da preconcetti, come per tutti quanti penso solo che il mio sia un po’ meglio degli altri.

Prima domenica di pioggia, i cinema si apprestano ad accoglierci.

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I film dell’estate | Favoloso ultimo bacio in Sud America

L’estate è da sempre il mio mese preferito in quanto mese autenticamente triste.

Sarà che d’estate la gente sparisce.
Non è che la gente se ne sia andata davvero in vacanza, ma solo il fatto che potrebbeessere andata via, fuori città o dovunque, fa sì che tutti si sentano finalmente sgravati dal peso di chiamarsi.

Ma dovevo parlare di film, quindi vediamo un po’.

* * *

L’ultimo bacio | Cresci Matilde

L’ultimo bacio ovvero avere ventinove anni nel duemila e uno (2001).

Un film che se mai decidessimo di riguardare potrebbe al massimo farci sorridere per come tutto sia cambiato.

Stefano Accorsi ha ventinove anni (29), un lavoro, una ragazza che sta per avere un figlio e si è invaghito di una tipa a una festa. Così grosso modo il film sarà tutto sul senso di colpa che ne deriverebbe e ne deriva, sulle responsabilità e queste puttanate.

A una cena con mia cugina Lucrezia che non vedo mai, lei ventitreenne (23) che di recente ha avuto una figlia, io (30 anni) dicevo alla mia altra cugina Matilde di diciassette (17) che ero esattamente identico a lei, che non c’era motivo guardasse in quel modo la mia fidanzata mulatta sua coetanea e la mia camicia hawaiana e le garantivo che in definitiva io non ero un adulto.

La mia cuginetta Matilde mi diceva: Invece sì, prenditi le tue responsabilità, adesso sei zio. No, ti sbagli, tu sei zia, io sono semmai il bis-zio. Ma Matilde, le dicevo, leggiti piuttosto I destini generali, di Guido Mazzoni (Ed. Laterza, Solaris) forse dove state voi in campagna non vi siete accorti, ma c’è stata una mutazione antropologica, su Matilde, deciditi a crescere, il 2001 è bello e che sepolto e i fratelli Muccino non si parlano più come minimo da dieci anni. Cresci Matilde.

* * *


C’era una volta in America | Propositi per l’anno nuovo

D’estate è tutto un fare liste e guardarci negli occhioni blu e dire: che progetti hai? Cercare un lavoro nuovo, emigrare in Nuova Zelanda, che altro? Il mio progetto, realizzavo in cima al monte Gerbison mentre il maestro trombettista Nello Salza eseguiva con la sua ensamble (al sax Simone Salza e alla batteria Franck Medina) un mix di canzoni western e classici italiani e la nebbia avvolgeva il monte e l’enorme croce costruita con tubolari, è stato allora che ho realizzato che il mio unico proposito per l’anno nuovo era guardare C’era una volta in America, nient’altro.

* * *

Il favoloso mondo di Amélie | Annus Horribilis

Amélie, quel film del 2001 ha fatto più danni della grandine, provavo a spiegare a Diana un giorno che andavamo a lanciar sassi sul canale St. Martin. Lei mi diceva, inserendo le mani dentro un sacco pieno di fagioli di un alimentari cinese, “più danni della grandine”? Non ti sembra di esagerare? E non mi tirare fuori il discorso di giovani ragazze anti-conformiste tutte uguali, pensi davvero che la colpa sia da imputare a un film e non piuttosto a una mutazione antropologica?

Hai ragione come al solito, ho detto a Diana  e le ho raccontato davanti a una creme brulèe di quando vidi il film al cinema, a quel cinema in Via de’ Cerretani a Firenze che oggi nemmeno esiste più e dove adesso andiamo a farci le fototessere alla macchinetta anni ’70 riattivata. Era inverno mi ricordo quel giorno e una volta fuori dal cinema incontrammo quel mezzo barbone che viveva nel giardino davanti casa e lui mostrandoci il membro ci disse che il film era inguardabile perché mancava d’eros, ma noi allora non capimmo, scandalizzati dalla vista delle sue pudenda. A posteriori aveva ragione lui, il vecchio pervertito, e fu probabilmente solo grazie alle sue molestie che noi ci salvammo, o almeno in parte, dalla maledizione di Amélie.

* * *

Benvenuti al Sud | Cecità

Esiste un paese che è il paese dove hanno girato Benvenuti al Sud e è un posto rovinato, tipo tutti gli appartamenti di Barcellona dopo che avevano giratoL’appartamento spagnolo. Che ci sarebbero voluti dieci anni per bonificarli.

Oggi il paese di Benvenuti al Sud gode il suo momento di fama e relativa invisibilità. Sono stato a visitarlo nell’estate del 2015 e c’erano queste persone che non vedevano niente di quello che avevano davanti ma solo il posto dove era stato girato il film. Non era possibile vedere una piazza, ma solo la famosa piazza del film con l’ufficio postale di Claudio Bisio, e che nella realtà non esiste nemmeno (al suo posto c’è un bar). Siamo andati a un’altra piazza dove non c’era nessuno perché non esistendo nel film non esisteva nemmeno nella realtà e là abbiamo preso fiato. Io ho descritto ai miei compagni di viaggio, la mia fidanzata Maria Rosa e il nevrastenico Cobbellis, che l’immagine che più mi aveva colpito visitando il paese di Benvenuti al Sud era quella di un bambino che giocava con un bastone da selfie e che mi aveva richiamato alla mente certe foto di bambini africani che giocano con fucili mitragliatori.

Neanche tu riesci a vedere nulla, mi ha detto Maria Rosa e dopo ha lanciato uno dei suoi sguardi verso il Cobbellis.

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1992 | Ancora dalla parte di Stefano Accorsi

Sai perché la famiglia naturale consiste in un padre una madre un figlio e una figlia?»

«Perché?»

«Il padre e la madre lasciali perdere, problemi loro. Pensa ai figli. Il maschio a far continuare la stirpe, la figlia a garantire un matrimonio di convenienza».

«Ah sì?».

«A questo. Tuttavia negli anni novanta questo modello, entrato in auge dopo il crollo della mortalità infantile, è nuovamente entrato in crisi, e si è avuto il boom dei figli unici. E sai perché?».

«Dimmelo te».

«Perché c’era ottimismo. Non solo nella prospettiva di una vita lunga, ma che tutto si sarebbe messo per il meglio. Che un figlio solo era sufficiente. Per il nome e per il matrimonio. Il fallimento non era contemplato».

«E oggi?».

«Oggi niente. Nessun figlia più. E’ per questo che ci siamo inventati la stronzata delle poesie».

«Che poesie?»

«Quelle sui biscotti».

«Ah, è per quello?»

«Sì, abbiamo detto: o svecchiamo il logo o ci mettiamo le poesie. Lui ha detto: Il logo non si tocca. Così, eccoti le poesie».

«Lui chi?»

«Banderas».

«Le poesie, mi dicevi, le scrivi te?»

«Sì, le scrivevo».

«Cioè?»

«Oggi non ho più idee. Se ci hai fatto caso giù all’ufficio adesivi hanno iniziato a mettere sopra le mie poesie delle finte etichette, tipo promozioni, 10% in omaggio, oppure trova la gallina e vinci la bici elettrica. Comunque sia bollini promozionali che premi sono stronzate, con il solo scopo di eclissare le mie poesie. Quell’idea è stata un boomerang. E va sempre peggio. Le ultime che ho scritto sono terribili. Non sono nemmeno più poesie, sono degli haiku».

«Chi?»

«Haiku. Le poesie giapponesi. Senti, ascolta le ultime».

.

Nastrine

Morbide, fatte in casa da nonna

forse

. . .

Ritornello

dolce scivolare nell’abitudine

veloce o galleggia nella tazza

. . .

Tegolino

forse una ventata

e sei andato

.

«È roba inservibile, lo capisci anche tu, che in questo posto porti solo i caffè».

«Beh, è vero fanno cagare».

«Sì, ma ora vattene. Portami un macchiatone, senza schiuma, e sparisci».

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Mia madre | Il razzismo

Nella sala semivuota del cinema ci sarà spazio sufficiente per trovarmi accanto un tipo psicologico che svelerà la mia natura intollerante: sono i mangiatori di pop-corn e patatine, tante ch’io non avrei creduto potesse uno comprarne a un bar senza provare almeno un po’ di vergogna.

Sospetterò che quelle scorte se le siano portate da casa, infilate in una borsa per non farsi sgamare all’ingresso, il formato MAXI, da festa delle medie, che se davvero le vendessero e le avessero acquistate al bar del cinema ci avrebbero investito almeno un dieci euro.

E non hai pietà tu di me?

Cominceranno a mangiarle soltanto con l’inizio dei titoli di testa, non prima, non durante gli inutili trailer di film primaverili/estivi in cui la programmazione italiana si inabisserà ancor più sotto la media. Attenderanno i titoli di testa per iniziare: scritte bianche su sfondo nero e musica dell’immancabile Arrvo Part, che ormai non ne possiamo più fare a meno. Attenderanno che cali il silenzio in sala, che il film inizi, per iniziare la prima fase della digestione.

Così mangeranno i loro pop-corn e patatine, per i primi venti minuti, forse venticinque minuti del film Mia madre, io sarò ogni volta che masticano e mordono e deglutiscono in uno stato di crescente fastidio e sentirò bruciare dentro di me un odio fortissimo direi quasi razziale che non provo letteralmente mai nella vita di tutti i giorni.

Nel cinema semi vuoto: ci sarà spazio sufficiente perché i mangiatori di pop-corn portate da casa, si siedano vicino a me. Sono loro che si sono seduti in quei posti, io ero arrivato prima, e avrebbero potuto andare in cima o in fondo sapendo di dover cenare, avendo in programma un picnic più che un cinema.

Per un attimo riuscirò a rilassarmi, a smettere di pensare, quando loro finiranno il secchiello, ma è allora che comincerò a preoccuparmi che senza il mangiare essi saranno ancora peggio di come già sono, perché da gente così ci si può aspettare qualsiasi cosa. Metterò una mano a creare un cono intorno agli occhi per non vederli neanche con la mia visione periferica, e sarà solo allora che riuscirò a concentrarmi sul film.

Una volta uscito dal cinema mi rimarrà l’impressione che la prima parte del film di Moretti non funziona per niente, mentre nella seconda qualcosa scatta. Ma la mia lettura del film, adesso lo capisco, è solo lo specchio della fase alimentare dei miei nemici.

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Campari Red Passion|Fornellini in stanze chiuse

Nella camera d’albergo, dentro al letto, sotto le coperte di cotone chiare, lui domanda a lei cosa abbia insegnato oggi ai suoi studenti di scuola staineriana, cosa hai insegnato a quelle merde pensa in verità, e pensa a una professoressa già completamente sovrastrutturata con tutta la pornografia che si è depositata sull’argomento.

Abbiamo studiato Cesare Beccaria.

Lei utilizza sempre il noi e lui, se non fosse concentratissimo su un film per adulti, mentale, ormai inarrestabile, troverebbe quel noi apocalittico, falso, fasullo, malvagio. Lei ha spiegato la roba e loro l’hanno studiata. Fine. Ma quella sera, per l’appunto, pensa ad altro.

Cesare Beccaria, quello della pena di morte, aggiunge lei perché lui è un cane, o crede che lo sia, o tutte e due le cose.

Ah sì, dice lui e prende la mano di lei fino a metterla sul rigonfiamento dei pantaloni.

Sì. Gli ho domandato se fossero favorevoli o meno alla pena di morte e lo sai cos’hanno risposto? Cento per cento favorevoli alla pena di morte. Quei bastardi.
Poi abbiamo letto Beccaria. Abbiamo letto alcuni passi, e abbiamo provato a capire, dice lei dopo aver sbottonato i pantaloni e stringendo la mano intorno al cazzo pulsante, come a volte delle soluzioni che sulle prime sembrano assolutamente vantaggiose, si rivelano essere secondariamente pessime, anche per chi in teoria ne dovrebbe beneficiare maggiormente.

Hh? Mmm

Una soddisfazione immediata, temporanea, dice lei lasciando cadere della saliva sul glande, come può essere la compensazione di una violenza subita che quindi tende a pareggiare il conto, crea una dimensione di godimento immediata, ma che a lungo andare non da nessun tipo di risarcimento, né di piacere. Solo la giustizia può generare quel tipo di godimento.
E lì ha cominciato a stringere il cazzo e a muovere la mano su e giù e lui è completamente partito.
Abbiamo analizzato dei passi del Beccaria, e alla fine sono tornata a domandare ai miei ragazzi che cosa avrebbero scelto, tra pena di morte e un altro tipo di pena. Lo sai che cosa hanno risposto?

Mmmmiiuu

Ancora una volta 100 per cento pena di morte. Brutti figli di puttana. Ma del resto hanno ragione loro, abolire la pena di morte è una cosa decisamente anti-inuitiva. Eppure poi ci si arriva, io credo, a capirlo. Il godimento deve essere posticipato, dice lei fermando il movimento, bruscamente. Il godimento non esiste davvero. Se c’è godimento, sta nella negazione.
Allora ho usato una metafora, che gli risultasse comprensibile. Il fumo delle sigarette. A quell’età fumano tutti. Ho detto loro che il fumo gli farà venire la cellulite, a tutti loro, a maschi e femmine, non tanto la morte, una morte terribile, il dolore o il cancro ai polmoni, non tanto lo sfruttamento dei lavoratori, le multinazionali del tabacco e delle armi, le foreste amazzoniche disboscate, gli indigeni allontanati con la violenza e costretti a vivere in zone periferiche, no, la cellulite su tutte le parti grasse del loro corpo. Che saranno delle persone orribili, con tutta quella cellulite, che saranno additati da tutti come i maschi con la cellulite e le donne con la cellulite, ed è stato così che li ho convinti.

Lui non ha risposto nulla, solo mugugnato dei suoi affermativi senza capo ne coda. Dopo essere venuto si è dimenticato immediatamente di tutto quel discorso.

Il fornellino anti zanzare acceso, le finestre tutte quante chiuse.

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Eisenstein in Messico | Già a giugno

Già a giugno le cose si erano messe al peggio. Dopo maggio era arrivato in città un caldo straordinario, il lavoro non mi piaceva più. Noi due uscivamo a cena dal messicano non buono, ma qualche mese prima la cosa non sembrava interessarmi, invece ora gettava una luce triste su quelle serate passate a bere Margarita.
Il nostro amore dov’era finito?

La nostra ricerca nelle notti, nei locali, nelle chat gay, nei siti gay, tra diverse e consimili categorie d’interesse (erano tutti animali della mitologia nord europea, lontre, orsi, uomini fatti d’argento) tra le foto e le foto e altre foto ancora, dov’era finito il nostro amore?

Già a giugno le cose, risultava chiaro, non potevano durare. Te avevi ricominciato a frequentare i posti dove andavi prima, ma solo ogni tanto, io ero tornato a leggere nei parchi pubblici. Non succedeva niente, è vero, la maggior parte del tempo il caldo ci paralizzava in casa.

Te dicevi: apriamo tutto, apriamo queste finestre, togliamole direttamente, togliamo le porte, togliamo le tende le persiane, impiliamole e bruciamole, non vedremo un’altro inverno in questa casa.

Io dicevo, chiudiamo tutto: chiudiamo bene, apriamo la sera e poi la mattina alle otto quando uscivi per andare al tuo lavoro che sembravi un ballerino di danza classica, mi alzavo pure io per andare a scrivere, ma era solo perché un altro anno era passato senza compicciare niente, neanche quaranta pagine di romanzo degne, mi alzavo e andavo a riguardare i testi al bar degli adolescenti per sentirmi dieci anni di meno e chiudevo ermeticamente tutte le porte e le finestre e ti dicevo: allora lasciami quei soldi per l’affitto, lo so che potremmo anche evitare di pagare a questo punto, ma lo sai com’è fatto quell’altro, ce li metterebbe di tasca sua pur di non creare altri problemi con la padrona, e te già stavi uscendo e mi facevi: te li porto stasera al messicano, e io annuivo e poi dopo essermi masturbato infilandomi due o tre dita nel culo, uscivo anche io nel caldo innaturale di giugno e pensavo che le cose andavano veramente male, eppure se non fosse stato per la casa da lasciare sarebbero potute durare ancora qualche altro anno esattamente identiche. Passasse almeno questo giugno mi dicevo, già sarebbe qualcosa.

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Garrone VS Sorrentino | Prendere posizione

Ho visto nel pomeriggio di giovedì i nuovi film di Sorrentino e di Garrone. Ero a Cannes, ma non è questo che conta. Il festival, le festivàl. Undici ore per arrivare, un treno che nemmeno uno scafista avrebbe avuto il coraggio di propormi, ma vi è crisi economica e tutti dobbiamo adeguarci, perfino io. Undici dodici ore di treno, proprio così. Ero sul vagone e guardavo nella fessura della finestra, in alto, tra placca laminata e sportello satinato, guardavo a testa in sù tramite lo spiraglio tra le due superfici e tra questi spiragli, mentre il treno sferragliava, c’erano delle nuvole e al centro di queste poche nuvole, c’era la luna.

Andavo a Cannes a vedere i film italiani, guardavo fuori dal finestrino e c’era immobile la luna al centro e il treno italiano era uno schifo assurdo, ma in quel momento mi sono dimenticato di tutto, di me, del telefono cellulare, delle foto fica, delle foto cazzo, ho scordato per un momento che di lì a poco avrei dovuto dire qualcosa di interessante sui film italiani, prendere una posizione, tutto era completamente passato in secondo piano, me ne stavo là a guardare la luna che malgrado i movimenti del treno restava sempre al centro, ed è stato allora che mi sono ricordato di una volta, di un tempo lontanissimo, quando andavo alle medie e di una gita scolastica a Vienna, quando sul treno notturno per Vienna, ho ricordato di quando Tommi Bona, modello di riferimento della classe e del quartiere Le Cure, Tommi Le Roy, mise fuori il culo dal finestrino e cacò nella notte, ho pensato solo a questo e il pensiero si è come fissato anche una volta arrivato in città e sopratutto durante la visione dei film italiani in concorso, che ho guardato con un mezzo sorrisetto e dopo i miei commenti sono stati all’acqua di rose perché ancora pensavo alla bellezza di quella scena più che a quei film italiani che ero andato a vedere o a qualcosa di intelligente da dire.

Poi ci sono state le feste e le solite cose, insomma solo per dire che sono stato anche bene a Cannes e il viaggio di ritorno è andato malissimo uguale che all’andata, ma senza nessuna illuminazione e sono stato tutto il tempo sul cellulare.

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Big Hero Six | Videogame

Il vicino di posto pakistano si è impossessato del bracciolo comune. Voliamo sopra i Balcani, in direzione sud-sud-est, meno cinque ore all’arrivo. La nostra compagnia aerea, tranne lo spazio, ci ha fornito quasi tutto: coperta, cuffie cuscino, calzini blu colore della compagnia e un kit di sopravvivenza con dentifricio e mascherina e tappi per le orecchia. Il cibo non è male, se ti piace il genere. A me piace, a Flavio e Walter no, perché qualcuno gli ha detto che non è buono. Anzi mi schifano mentre mangio tutto il menù beef. Poi però il dolce che gli ho offerto se lo sono mangiato, quei deficienti.

Big Hero Six nello schermo piccolo attaccato al sedile davanti, già pensato a monte per farne domani un videogame, già-da-sempre-videogame, e sullo sfondo lo schermo grande che fa vedere il nostro aereo, piccolo ma enorme in confronto alla mappa, e mi fa capire che adesso sorvoliamo la Turchia.

Potremmo benissimo essere fermi, in un videogame anche noi, su un emulatore, una macchina che bascula soltanto ma che in verità è piantato al suolo, se non fosse per Flavio dal mio lato che guarda sfalsato di alcuni momenti il mio stesso film e si toglie una caccola, mentre dall’alto lato il vicino pakistanto torna a fare suo come se niente fosse il mio secondo bracciolo comune. Sono questi particolari a farmi convincere che no, non è un videogame.

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