San Niccolò (2015- 2017)

Nostra Signora della Provincia

«Insomma se ti sta tanto a cuore, chiediglielo», ha ripetuto l’uomo con il cappello di lana colore cremisi a quell’altro con i ricci che era stato in silenzio tutto il tempo, e mi sono domandato in quale fase della serata avesse così a lungo espresso il suo dubbio. 

«Chiediglielo, che c’è da vergognarsi?» ha insistito ed era tutto vestito così. Anche i pantaloni in velluto e il maglione pesante. Tutto di quel colore senza che sembrasse una cosa strana o voluta. 

Ma qualcuno glielo aveva fatto notare e lui aveva risposto facendo riferimento al gruppo musicale, o forse mi confondo. Si era parlato prima del gruppo musicale e di cosa volesse dire crimson, e solo dopo era venuto fuori che era interamente vestito di quel colore. Sia come sia «va bene» sussurra. «Allora se proprio non vuoi parlare, glielo chiederò io.»

E mi ha guardato negli occhi dicendo «il mio amico voleva sapere se siete una coppia o siete fratelli.»

Nel bar un breve silenzio, poi i presenti hanno aspettato che io rispondessi qualcosa.

Prima. 

Il giorno prima Diana mi aveva chiesto se l’accompagnavo a San Mauro a vedere la mostra di un cubano, a una villa, e io le ho risposto va bene, andiamo, ma ho anche pensato che era una pessima idea. A San Mauro non ci torno mai, neanche a Natale. 

C’è stato un periodo della mia vita in cui potevo concepire che i miei genitori morissero, ma non di vivere altrove. Poi siamo partiti. Prima io e poi loro.

Diana lavora nell’arte, o meglio ci prova. Era sul divano che guardava le mostre da recensire e mi ha detto se avevo voglia di accompagnarla a San Mauro e io le ho detto sì. Siamo arrivati al paese che già era sera. 

La mostra. 

La mostra era finita prima ancora di entrare, perché nel vialetto d’ingresso l’artista aveva esposto tutto quello che di buono aveva da dire. Cioè prendere robaccia marcia trovata lungo il corso del fiume fatta come dei nodi, grumi di cose come quando i legni e la roba si incastrano all’altezza dei ponti. La gente del luogo, passando per strada, si lasciava andare a facile ironia mentre una volta dentro la villa le luci e i grandi disegni li paralizzavano.

«Posso immaginare» mi aveva detto Diana, «che la gallerista abbia detto al cubano belle le tue installazioni, ma mica si vendono. Di queste tue cose ora mi fai dei quadretti. Niente di particolarmente grande, magari due o tre enormi se ne hai voglia, ma comunque sì: l’ideale sarebbero un bel po’ di quadretti» e lui aveva accettato. Forse la ragione stava nel fatto che l’artista era nato il mio stesso anno e anche lui aveva capito come quadretto fosse sinonimo di compromesso e che compromesso fosse sinonimo di vita. 

Anche se a questo proposito con Diana ci eravamo avvicinati, anzi Diana da sola per chiedere se avesse scelto San Mauro o se San Mauro avesse scelto lui, visto che le sue opere erano proprio in cassa di risonanza a certe derive industriali e fluviali che ben definivano il luogo, ma a me sembrava una domanda insensata, come se il peyote trova te o te il peyote. 

Il cubano le aveva risposto qualcosa, ma lei non parlava spagnolo, insomma pochissimo e non si erano capiti (come d’altronde avrebbe potuto capire una domanda insensata?) e lei mi aveva fatto un cenno, anzi prima un cenno e poi preso per mano e portato fino davanti al cubano, per capire cosa le stesse dicendo. Io gli avevo detto hola, que tal, ma lui si era come scordato del compromesso con la realtà e dei quadretti e ci aveva liquidato dicendo che la conferenza stampa sarebbe iniziata ahorita e allora avremmo potuto fare qualsiasi domanda avessimo voluto. 

Aspettando che cominciasse eravamo usciti nell’ampia terrazza dietro la villa, che poi si era rivelata essere un terrapieno sulla sponda del fiume, ed eravamo stati là a guardare nel buio il chiarore dei sacchetti di plastica appesi agli alberi lungo la riva del fiume come creature notturne o installazioni di artisti meno compromessi del cubano, che comunque, diceva Diana per giustificarlo, era «solo molto timido.»

Ci eravamo allontanati dalla villa con ancora tutti quei discorsi negli occhi: la voce del cubano sovrastata da quella dei politici e sindaci e dei sindaci dei paesi vicini, e dei curatori, e dei galleristi e dei critici amici di Diana, tutti là a parlargli sopra, sopra quell’angolo di stanza completamente stipato di scarpe buttate e spaiate e Diana a quel punto non aveva retto più. Era venuta a cercarmi e mi aveva trovato seduto fuori per le scale, ad aspettare che finisse. C’era una comunità di rifugiati che aveva aiutato il cubano a raccattare la roba lungo il fiume, ed erano alla mostra completamente fuori contesto, con i loro vestiti migliori, ma in effetti anche la gente di San Mauro lo era: tirata a lucido e pacchiana. 

Io pensavo solo: eccola qua, Nostra Signora della Provincia. 

Stavo sulle scale ad aspettare Diana che non sarebbe riuscita a fare quella sua unica e insensata domanda sul trovare o essere trovati, e c’era accanto a me un tipo nero se non che era albino, che si era sentito in imbarazzo ad andare con gli altri ragazzi di colore a farsi vedere tipo esposizione universale e sedevamo accanto senza parlare, ognuno aspettando qualcuno, e io pensavo soltanto se quel tipo fosse un segno di malaugurio o se invece l’opposto, ma no, era certo malaugurio perché ogni profezia non può che recare cattive notizie. 

Poi Diana era tornata incazzata e la nostra visita alla mostra era finita.

«Mangiamo qualcosa, già che siamo qui?»

«Sì» 

«Andiamo a San Mauro Alta?»

«Sì. In verità», ho continuato, «non si dice San Mauro Alta. Esiste solo San Mauro e San Mauro Bassa. Serve a definire dei livelli sociali che non possono essere scalfiti né, in un certo senso, comparati.»

«Ah già. Tu sei di qui, no?»

«Sì. Ero di qui.»

«Non si dice ero di qui. Si dice di un morto. Un vivo è e rimane di un posto.»

«Anche se non ci torna mai più?»

«Sì.»

«Come un cubano con Cuba?»

«Esatto.»

Così siamo andati verso il sabato sera di San Mauro a cercare un posto dove lasciare la macchina, ma come non trovare posto per la macchina a San Mauro? E mostrare con il dito a Diana alcune cose che pensavo in mia assenza si fossero spostate come i ghiacciai sulle montagne, ma invece erano sempre rimaste lì. 

«Vedi quei bar? Sono nuovi.» 

«Uao.» 

«Invece certi lavori a loro modo epocali, come questo ascensore che porta al parcheggio giù in basso, io a quel tempo ero presente, quando lo fecero.» 

«Ah sì?»

«Sì. Chissà che pensavano in Comune. Quante macchine sarebbero arrivate. E invece poi anche quella cosa era passata, le macchine avevano raggiunto il limite.» 

A dimostrarlo il parcheggio giù in basso semideserto, come una promessa di felicità disattesa.

«Allora proviamo qui?» e siamo entrati nell’osteria che sembrava mezza vuota. Ma né all’osteria, né alla pizzeria dentro l’ex-cinema fallito siamo riusciti a trovare un posto libero. La crisi in paese era solo esteriore, così abbiamo provato all’unico bar dove non volevo andare perché sapevo che avrei trovato qualcuno del mio passato, e infatti là c’era posto a sedere. 

Il bar Burro e Acciughe era vuoto, fatta esclusione per uno di spalle che sembrava in tutto distaccato da sé e dal contesto e che unicamente dopo ho riconosciuto come un vecchio conoscente. 

«Ehi, ti ricordi? Come va?»

«Benissimo» ha risposto, «molte e grandi soddisfazioni. Sto veramente bene. Mai stato meglio.»

«Bene» ho detto io, «mi fa piacere saperlo.»

Ma poi, dal modo in cui lui ha piegato il capo pieno di riccioli e gli occhi schiacciati, ho capito che non era vero, che stava male e che era ubriaco. A quel punto lo hanno raggiunto nel bar anche l’uomo pelato con i baffi e i vestiti che tendevano al rosa, ma ancora non sospettavo fossero cremisi. Poi un altro più vecchio, con un piumino, tutti e tre con le rispettive bottiglie in mano. Io ho cercato di disinteressarmi e concentrarmi sul menù, di mostrarmi assorto quanto meno agli occhi di Diana, ma non era semplice. Dopo qualche minuto l’uomo con i baffi ha fatto la sua domanda sulla natura del nostro rapporto, senza mai cambiare espressione, anche se in verità l’altro con i ricci non doveva avergli chiesto proprio niente, e di certo non aveva fatto caso che io e Diana ci somigliassimo. Perché neanche ci guardava. Ho spiegato che eravamo una coppia e che non ce l’aveva mai detto nessuno, che fossimo simili. 

«Magari dopo un po’ si comincia ad assomigliarsi. Come nelle isole o nei piccoli paesi» ho spiegato tanto per dire qualcosa. 

Siamo rimasti nel bar il tempo di finire i panini e ancora qualche discorso, poi siamo usciti. Mentre scendevamo nella strada che portava al bar centrale Diana ha detto «che cosa incredibile è appena successa. In città non sarebbe mai capitato di parlare così con qualcuno semplicemente perché ti si trova vicino. Ti sei accorto?» ed io «sì. Te dici che cosa bella, ma a me mi è sembrato un incubo. Che stavolta siamo stati solo un momento vicini, ma che se vivessimo qui non ci saremmo più liberati di quei tre.»

E, come a conferma delle mie parole, è ricomparso l’uomo con i riccioli accanto al bancone del bar e ci ha guardato come a chiedere una carezza, ma io non avevo niente da dire, e lui non ha detto niente, limitandosi a mostrare alla barista dagli avambracci pelosi i suoi soldi, come a sottolineare «ce li ho», e io e Diana abbiamo preso le nostre tazzine e ci siamo spostati a un tavolo più in là, per restare da soli, quasi fossimo nuovamente in città.

«Non hai detto niente a quel tuo vecchio amico?»

«E che gli dovevo dire?»

«Ma che cosa aveva? Perché stava male?»

«Saranno tormenti d’amore», ho risposto. 

«Sono tipici qua in provincia.»

Usciti dal bar per tornare in città, il paese che era sembrato così vivo fino a un attimo prima era buio e vuoto. 

«Che belle queste scale», ha detto Diana. 

«Sembra di stare a Parigi.» 

«È vero» ho detto io, «ma adesso andiamocene» e mi sembrava che qualcuno ci venisse dietro. Di certo, ho pensato, era ancora l’ubriaco coni ricci che camminava per le strade tipo un vascello fantasma.

«Perché hai lasciato San Mauro?» mi ha domandato Diana che già entravamo nel parcheggio deserto. 

«Cosa è successo?» 

«Beh. La gente» ho risposto. «Non ti lasciano in pace, li incontri dovunque, ogni giorno, sempre gli stessi. Bisogna partire, andare lontano, e così ho fatto.»

«Sì, ma in concreto: che cosa ti ha spinto? Quale occasione? Perché dai tuoi racconti d’infanzia sembrano tutto l’opposto: campagne dove ci sono soltanto bambini e i genitori tutti a lavoro. Mattine lunghissime a risalire la collina.»

«Eh» ho detto, «se non ci nasci fai fatica a capire.»

Tenendo Diana per la manica siamo entrati nel parcheggio, e dietro quell’ombra. «È che le persone in provincia non sono come in città: si ricordano tutto. Te gli dici una cosa, ed è quella. In verità non sono cattive. È che si annoiano. Allora cercano lo scontro, la mettono sul personale. Come fare a non mettersi sul loro piano? Uno dovrebbe evitare, poi ti rigiri e fai peggio.»

«Non capisco. In che senso?»

«Che ci fate a San Mauro?»

«Siamo venuti per la mostra. Anzi in verità io qui ci sarei nato.»

«Ah, ritorni eccellenti.» 

«E venite proprio dalla città? O da qualche quartiere periferico?» 

«Città.» 

«Le opere di un tipo cubano.»

«Alla villa accanto al fiume.»

«Era bravo il cubano?»

«Promettente.» 

«Non ho mica capito se vi è piaciuto.»

«Siamo venuti a vedere.»

«A vedere e farvi vedere.» 

«Come dici?»

«Lo so come funziona quel mondo. Non è mica un segreto. Il sindaco, il cugino, gli amici del sindaco.»

«No, veramente.»

«Vi dico che ci ho avuto a che fare. Lo so che è così.»

«Solo a vedere un artista esiliato, non a sentire i discorsi» ha detto Diana, ma era dubbiosa. Allora sono intervenuto, perché avevano iniziato loro. Erano stati i primi a essere scortesi e ho fatto la sola domanda che sapevo non dovevo fare. 

«E voi ragazzi, che fate di bello stasera?» 

Ancora silenzio, quindi il pelato vestito di rosa mi ha detto «pensi che ci sia qualcosa da fare a San Mauro?» 

«Chiedevo soltanto» ho spiegato, evitando il suo sguardo.

«Io questo l’odiavo, questo dirsi le cose precise che fanno più male» ho detto a Diana camminando veloce nel parcheggio in penombra. «Ma forse» ho continuato, «anche io sono fatto così. Rimugino, penso che gli altri si facciano gioco di me. Un complesso. Qualcosa di tipico nelle persone di bassa statura o che vengono della campagna. Pensiamo che gli altri lo capiscano subito, che siamo gente da niente. Allora ci prende la cattiveria, quest’odio da bisce di fiume.» 

«Ma che dici?»

«Vieni Diana. Voglio tornare a casa» le ho detto riconoscendo tra le altre la nostra automobile parcheggiata. 

L’uomo con i baffi stava appoggiato alla portiera che si massaggiava la testa pelata. Appoggiato alla macchina e c’era anche l’altro con il piumino e impugnavano le bottiglie di birra finite come a volerle lanciare. 

«Ecco che arrivano i fratellini» ha detto quello più vecchio che era stato zitto per tutto il tempo, mentre l’altro con i ricci è comparso dal retro del parcheggio e ha singhiozzato un lamento. 

Per alcuni secondi nessuno ha parlato, e io ho pensato al cubano e alle sue opere ignorate da tutti, che ancora stavano là nel vialetto d’ingresso. Poi ho detto pianissimo più a me stesso che a Diana che mi stava vicina «ora guardala bene, cos’è la provincia.» 

Racconto uscito 11.10.2017 nell’antologia effequ Odi a cura di Raffaele Merlini
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