Il binario non era ancora stato annunciato.
Guardavo il tabellone delle partenze, e mi guardavo attorno perché avevo appuntamento con mia moglie. Invece, tra la folla vidi il volto di Giacomo, il mio amico giovane. Stava fermo davanti a un binario qualsiasi, dove non partiva e non arrivava nessun treno. Mi avvicinai a lui per salutarlo, e venne fuori che prendeva il mio stesso treno per Roma.
Ma come, disse, ti avevo detto che avrei fatto il week-end a Roma.
Io annui, ma non ricordavo, o solo come una lontana informazione recepita in un momento confuso e messa da una parte, remota, nella mente. Sarebbe andato a trovare un amico, che a quanto diceva mi aveva presentato in passato, un critico musicale, o qualcosa del genere. Poi vidi arrivare Diana, e allora ci scambiammo saluti e io parlai della mia stanchezza, stanchezza che mi sembrava emanare come un calore dal mio viso e Giacomo disse qualcosa sul week-end a Roma e come mi avrebbe fatto bene. Uscì fuori anche il numero del binario, e ci dirigemmo tutti quanti verso l’11. Chissà, disse Giacomo, che non capiti che adesso ci troviamo seduti accanto.
A meno ce tu non viaggi in prima, disse Diana, noi abbiamo trovato i biglietti allo stesso prezzo e abbiamo preso quelli. Infatti eravamo seduti in altre carrozze e al momento di scendere dal treno, a Termini, io non pensai a fermarmi alla fine del binario ad aspettarlo, e ci dirigemmo veloci verso la fermata dei taxi.
Il giorno dopo, camminavamo con Diana in una giornata di febbraio fredda e limpida, tersa avrebbero forse scritto i poeti, dopo aver visitato un museo, ci aggiravamo nel mercato del Testaccio, cercando qualcosa da mangiare. C’era un clima lieto, ma ai nostri occhi sembrava tutto malinconico. Era probabilmente conseguenza della mostra che avevamo appena visto, su un esule documentarista che aveva ripreso quasi tutta la sua vita e aveva trovato poesia in molta di essa. Anche il mercato sembrava velato di tristezza, il suonatore di sassofono, un venditore ambulante di teste d’aglio, probabilmente di etnia sickh per la barba tinta con l’henneè, e mille altre facce giovani e vitali o vecchi e stanche che si muovevano in quel sabato mattina che già diventava ora di pranzo.
Forse la malinconia non si addice a Roma, aveva detto lei, e siamo noi che la vedremmo ovunque.
E a quel punto avevo di nuovo visto Giacomo. Camminava affianco a un ragazzo, il critico evidentemente, e non si erano accorti di noi, allora mi sono alzato da un tavolo e li ho raggiunti.
Che strana coincidenza, è la seconda.
Si sono seduti al tavolo con noi, e abbiamo parlato di cose a tratti futili e a tratti serie, della nostra differenza d’età, noi di dieci anni più vecchi, delle cose nuove che vedevano loro e che noi non vedevamo, di quello che invece noi con la nostra maggiore esperienza potevamo forse, chissà, aver capito, e ancora dei giovani ancora più giovani di loro due, che già gli sopravvanzavano, malgrado loro a tratti lo negassero, e di cosa questi novissimi dovevano vedere.
Poi per loro era ora di andare, ma prima di congedarsi Diana ha chiesto al critico musicale, romano, sebbene di un quartiere lontanissimo a quello in cui eravamo, un quartiere che non avevo mai sentito neanche nominare e che distava quasi due ore d’auto (cosa che rendeva quella seconda coincidenza ancor più radicale), Diana ha chiesto se lui avesse da consigliarci qualcosa là, nella zona.
Una cosa ci sarebbe, ha detto lui.
Poi quando ha finito di parlare, ci siamo salutati, dicendo: chissà se avremo ancora tempo d’incontrarci una terza volta, e convinti di no, ci siamo allontanati.
Il cimitero acattolico, diceva Google maps, distava solo sei minuti a piedi, ma il motore di ricerca mi indicava che fosse chiuso. Ho preferito omettere questa informazione a mia moglie e ci siamo incamminati ugualmente. Non so spiegarne il motivo, speravo fosse aperto, o forse semplicemente non riuscivo a pensare a un’alternativa. Parlavamo dei giovani, di Giacomo e del critico, che si sentivano così in cassa di risonanza col presente, e aggiungevamo noi, così poco consapevoli che pure quel momento stava passando. Noi ci sentivamo scollegati da tutto, ma per questo forse più in simbiosi con i pini silvestri che si stagliavano verso il cielo, o i murales disegnati sulle case o ancora le fila di monopattini elettrici parcheggiati dovunque, senza criterio e pronti a finire in delle discariche.
Abbiamo girato intorno alle mura del cimitero, non capendo dove fosse l’entrata e con la mezza idea, io, che ci saremmo fermati davanti al portone sbarrato. E invece era aperto.
Una ragazza all’ingresso con un grande sorriso e delle frasi ripetute molte volte ci ha indicato su una piantina le tombe dei famosi Keats, Shelley e poi ne ha aggiunti altri imparagonabili per importanza, ma che forse potevano interessarci. Noi abbiamo ascoltato distrattamente, poco attratti dalle tombe dei famosi, e piuttosto inclini a perderci tra le lapidi e i gatti randagi.
Camminavamo in silenzio e ho detto a Diana, Sai, ora ho come la sensazione, guardandomi indietro, a questo fine settimana a Roma, che incontrare Giacomo alla stazione, poi di nuovo al mercato, fossero coincidenze che servivano a incontrare il suo amico, il critico, che a sua volta ci avrebbe consigliato di venire qua. E quindi, forse ora, ho detto a Diana mentre lei cercava di avvicinarsi a un gatto acciambellato su un angelo di marmo, forse ora troverò qualcosa che mi parlerà, che mi dica qualcosa.
Certo, ha detto lei, è possibile, ma qualcosa di che genere?
Non saprei, ho risposto, se questo fosse un racconto, forse troverei una tomba con sopra scritto il mio nome.
Certo, se fosse quel genere di racconto, sì, ha detto lei.
Ma questo non è un racconto.
No, non lo è.
E allora cosa pensi che troverai in questo cimitero, tra queste bare e lapide scritte in tutte le lingue. Guarda là ce n’è una giapponese.
Non so, ho risposto.
Abbiamo continuato a camminare a lungo, io leggendo quelle scritte sulle lapidi come se fossero dei messaggi, dei messaggi per me, ho cercato e ho cercato, ma non ho trovato niente.
