Il temporale, la corsa in bicicletta, poi la piazza, svuotata. Si arrivava al Volume che il concerto era appena iniziato, lamentando il fatto che cominciavano quando cazzo gli pareva. Sul palco Trevius e Giacomo Laser eseguivano Traccia Uno.
Le prime file e poltrone erano occupate da avventori generici e quelli venuti per il concerto erano pochi, forse dieci, o quindici al massimo, ma nessuno sembrava rimanerci troppo male, non Trevius e nemmeno Neri e tantomeno Giacomo Laser, ma questo non è possibile dirlo, che le sue espressioni erano invisibili sotto la sfera verde che aveva in testa, e allora solo un’analisi dei suoi movimenti corporei avrebbe potuto dirlo (il suo stringere con entrambe le mani il microfono, come un cono gelato da bambini, il suo muovere le mani a dividere lo spazio, come in una liturgia già vista, che se avesse avuto un gatto in braccio io non ci avrei visto niente di strano – ma forse ora che ci penso ci sarebbe stato da analizzare movimenti ancora più piccoli, o i dettagli minuscoli e penso ad esempio a quella macchia di vernice o colla o sperma sulla tasca sinistra dei pantaloni che si trascinava dietro da chissà quando, oppure un’analisi dei suoi organi interni, una radiologia del suo intestino, o forse ancora tutt’altro: un’analisi con i massimi esperti internazionali di cartomanzia e divinazione, di quelle carte di coppe e denari sollevate davanti a Neri a fine concerto – ma forse anche così sarebbe stato difficile capire cosa pensava Giacomo Laser e nello specifico del fatto che al concerto dei Pro Loco non fosse venuto quasi nessuno).
Ho appuntato sul mio taccuino alcune righe, che adesso riporto. È una strategia nuova, atta a ricordarmi le cose, rispetto a quella adottata finora, di lasciare semplicemente passare e poi vedere quello che si è sedimentato. Non so francamente quale tecnica sia più utile, ma ho pensato che forse mi avrebbe aiutato a restare più vicino al concerto. Scrivo così:
Traccia Uno: musica sacra. Traccia Due: Ferro da stiro. La prima traccia, 38 mn, avrebbe purificato come il fuoco i peccatori seduti nelle prime file. C’era questa tipa che si opponeva, che ballava la sua canzone interiore e provava anche ad argomentare circa il senso, di quel martedì sera. Poi appunto l’onda d’urto della musica sacra la polverizzava e non restava niente.
Ricordo anche questo, che Trevius era molto calmo e a volte sorrideva e dal muro dietro lui, dall’intonaco della parete uscivano dei volti di colore rosso, ma a lui, Trevius, non importava niente e forse non li vedeva che era occupato con i tasti e Giacomo Laser chissà, forse lui li vedeva, e parlava del padre e di quelle quattro settimane di silenzio, mentre risuonavano di sottofondo tutti i suoni dell’universo che Trevius voleva e sceglieva e la sala si svuotava e si restava là a veder comparire i volti dall’intonaco.
Avrei chiesto circa quel suo rifiuto della parola, suo di Trevius (non del padre di Giacomo Laser, quello lo capivo bene), se fosse un rifiuto o cosa, e lui diceva che era solo una pausa, che era un periodo, con gli occhi saettanti da uomo religioso, che teme l’eresia, che crede nella parola. Dopo il concerto, che durava troppo poco, secondo alcuni, come per quei gruppi affermati che si permettono concerti di 50 minuti e biglietti da minimo sessanta, come è giusto che sia, loro salutavano e ringraziavano e si rimaneva ancora un poco là davanti al Volume, in cui io chiedevo qualcosa circa la sua scelta di rinunciare alle parole, qualcosa circa quella musica sacra e se gli importava della gente che andava via e lui rispondeva con i suoi occhi di ghiaccio, come aveva detto il mio coinquilino Lapo, ore prima nel corridoio di casa, che non gli importava tanto, che era la natura delle cose, che per capire il perché e il per come di tutte quelle mie domande ci sarebbe voluta un’analisi fin troppo complicata di questioni e fattori socio geografici economici, che in definitiva Firenze era così, un posto come Venezia, dove non contava e cambiava poi molto quello che tu potessi e volessi fare e dire, che le cose sarebbero andate benissimo comunque, che tutto era talmente bello, con quelle barzellette razziste, il tipo che partiva per il Giappone la mattina dopo, ma non poteva vedere niente, e poi i papponi e i camerieri e i venditori di rose, nella piazza svuotata per la pulizia della strada.
Circa Traccia Due, la ricordo più conflittuale, meno distesa, diciamo così, meno rotonda, più da battaglia, come se fosse sopravvenuto un pensiero di riflesso su quella sala svuotata, rimasta deserta tranne per alcuni estimatori del genere, ma più che genere direi alcool o situazione o quei volti e quella maschera là sul palco e sempre quelle note che potevano dialogare con gli organi interni. Il concerto era finito e io tornavo verso casa salutando i nuovi amici e mi sembrava che stavolta il mio chiedere e intervistare fosse stato meno totalizzante, che la rinuncia alle parole di Trevius e quelle carte dei tarocchi, quelle prime identiche, mie e di Laser, dicessero qualcosa che se io non capivo fino in fondo non fosse tanto per un limite di quelle carte, ma per un limite mio, e questo non capire non facesse di me niente da colpevolizzare, che fosse semplicemente così, che dopo tutte quelle carte di coppe, ci fossero proprio altre coppe, il valletto, a sancire il mio limite, quello che provo e provavo io. Ma cosa importa cosa provo io?
Stavo bene ieri sera, dopo la cena con Diana, dopo il bene che le voglio e la bicicletta sotto il temporale e poi una casa e un martedì ancora, che tutto davvero era in equilibrio e ripensavo al martedì prima quando Niccolò faceva quel numero di prestigio con la sigaretta e la banconota e ci sarebbe stati altri martedì ancora, successivi, così tutto tiene, penso in quel solito bar della mattina, mentre il caffè americano si raffredda sul tavolo, non so che fare, come per quei tarocchi, ma tutto tiene.
Pro Loco era un figo.
9 aprile