Al festival degli scrittori a cui non volevo andare.
Avevo litigato ieri e oggi con Chiara che aveva scritto una mail per la partecipazione, anche la mia.
Non avevo nessuna voglia di andare, ma perché?

Alla fine mi ero deciso. Dopo il lavoro ero passato da lei e poi in motorino su per via Bolognese. Il posto era bellissimo.
C’era questo lungo viale tra i cipressi e alla fine la villa, al lato di un giardino all’italiana, le sedie e una trentina di persone.

Scambiavo due parole con l’organizzatore, che era gentile e accogliente e mi diceva: Grazie che sei venuto, è così difficile far venire i fiorentini qui.

Che strano, pensavo, dipende forse dal fatto che bisogna confermare la partecipazione con una mail?
Questione di un minuto.
Sarà forse perché la villa non è esattamente in centro città?
Eppure sono pochi minuti. E inoltre ti offrono l’aperitivo. E allora? Perché non andare?
Perché anche io non avevo avuto nessuna voglia?

Perché ci vorrei andare come ospite speciale, pensavo, e non ad ascoltare.
Perché me lo figuravo un posto accademico, o eccessivamente accademico, e perché noi fiorentini ci immaginiamo sempre delle feste in cui non c’entriamo niente, se non conosciamo tutti quanti, una festa per stranieri.
Era merito di Chiara e del suo essere outsider se eravamo andati, e aveva avuto ragione lei.

Poi alla fine si formava come un cerchio di persone. E in mezzo al cerchio c’era un fazzoletto bianco di carta caduto dal tavolo che se ne stava là sul ghiaino a sciupare tutte le foto.
Scendeva la sera, gli scrittori dopo i discorsi arrivavano all’ora della verità: leggere i loro racconti.
Ed erano buoni.