Santa Croce (2017-...)

Cacciatore di sigarette

Dopo una decina d’anni lontani, in altre nazioni o città o più semplicemente quartieri, siamo tornati ad abitare con Diana nel quartiere in cui frequentammo l’università di Lettere e Filosofia, che è anche il luogo dove ci conoscemmo. È un quartiere con una sua certa bellezza, seppur poco esplicita, con scritte sui muri, scritte che si cancellano dai muri e vengono rifatte sempre uguali, muri carichi di umidità, piccoli bar anni settanta, elettricisti dove non c’è mai nessuno, alimentari con luci al neon dove la regola non scritta è che si può mangiare un pasto completo con una banconota del taglio più piccolo.

Non andiamo più in quegli alimentari e bar squallidi di un tempo, non perché adesso abbiamo più soldi, non è solo questo, ma è perché quei posti ci mettono una grande tristezza. C’è un bar ad esempio a cui andavamo quasi ogni giorno, un bar gestito da due uomini, vecchi oggi come allora, baristi talmente simili tra loro che credevamo fossero fratelli, o una coppia di amanti. Era quello un bar dove avevamo una scatola di biscotti al burro, biscotti inglesi per il the, che lasciavamo là se non finivamo e quando tornavamo la volta successiva trovavamo ad attenderci. Adesso ci fa spavento anche solo passarci davanti. Allora attraversiamo la strada, oppure alziamo il bavero sul mento e guardiamo fisso in avanti. C’era e c’è ancora la gastronomia di un certo Vittorio, chiamato da tutti Vittorino, ironicamente. Là era possibile, e mi dicono sia ancora così, mangiare con pochi euro, sebbene il punto di forza non fosse la convenienza, ma la quantità. Vittorio era famoso per le porzioni enormi. Forse ricordiamo male, non erano così grandi come pensiamo, ma dipende dal fatto che le cose del passato sembrano più grandi nella memoria. Non c’è dubbio che fossero enormi, ci diciamo, erano le sole porzioni in grado di placare la nostra fame inestinguibile. Anche da lui non torniamo mai, ci sembra che la fame di allora si sia per così dire asciugata, oggi andiamo solo in ristoranti dove le porzioni sono piccole, care e sapide. Paghiamo il conto sempre con grande piacere. E poi c’è il quartiere tutto intorno all’università che in dieci anni sembra esser cambiato. C’è ancora l’enorme, oscuro palazzo del rettorato, con le sue torri e i suoi cancelli e custodi, è vero, ma sembra che l’università sia deserta. Con la crisi economica gli studenti fuori sede che maggiormente animavano il quartiere hanno smesso di venire, o forse è che oggigiorno nessuno vuole più iscriversi alle facoltà umanistiche, visto la fine che abbiamo fatto noialtri. Gli studenti, che pure continuano a esistere, vanno a studiare nel quartiere nuovo, dove ci sono le facoltà di economia e giurisprudenza, i centri commerciali, gli svincoli che partono verso nord. Il vecchio quartiere universitario si è popolato di ristoranti per turisti, catene di oggettistica svedese e srilankesi che vendono birre a qualunque ora del giorno e della notte. Forse ci sbagliamo, diciamo, forse quei negozi c’erano anche dieci anni fa, e siamo noi che ricordiamo male o che siamo cambiati.

Ogni giorno, per tornare a casa dopo i nostri lavori, io e Diana attraversiamo il quartiere universitario, ognuno a un suo orario specifico. Non più stretti l’un l’altra sul marciapiedi, non più stringendoci addosso ai nostri maglioni e sciarpe di lana, ma ognuno dentro al suo cappotto pesante, ognuno all’oscuro di ciò che il vecchio quartiere risveglia nell’altro, sospettando che sia poi la stessa cosa. È così. Durante le mattine di sabato che sole danno significato alla vita (ma i sabati non possono bastare, ci diciamo quando siamo fermi ai semafori) di sabato usciamo di casa e invece di girare a sinistra, prendiamo a destra, prediligendo quella zona del quartiere dove un tempo non mettevamo mai piede, quella del mercato e dei tavolini, così che l’altro quartiere, simile eppure diverso, lontano seppur vicinissimo, rimane sfocato, come fosse un pesce d’argento che vediamo sott’acqua, mobile seppure sia immobile.

Però c’è un angolo, tra via delle Pergola e via degli Alfani, un angolo a cui io e Diana non ci possiamo sottrarre. Se il bar dei fratelli, se l’alimentari di Vittorio, se le scritte sui muri noi possiamo con degli stratagemmi far finta non esistano, quell’angolo non lo possiamo evitare. Vi è un uomo, vi era un tempo e vi è tutt’ora, che sta là a chiedere le sigarette. Ha una coda di capelli che con gli anni sono diventati grigi e ora bianchi. Era là quando fummo matricole, era là quando, in ritardo, ci laureammo con le nostre tesi mirabolanti. Estati e inverni, con la pioggia e col sole, in quell’angolo, sempre la stessa frase, ripetuta come una poesia imparata a mente, scusa, sempre uguale, ce l’hai, senza mai invertire l’ordine delle parole, senza mai utilizzare un sinonimo, essenziale, una sigaretta, immutabile, perfetta. All’epoca qualcuno sosteneva che quelle sigarette neanche le fumasse, erano racconti che si facevano, che le sigarette gli servissero per ricavarne la cenere. Che quel tizio mischiasse la cenere con l’eroina e poi, come un alchimista, si sparasse tutto nelle vene. Erano discorsi da bar, erano discorsi da chi ha molto tempo da perdere e lascia andare i pensieri, oggi lo sappiamo bene. Non c’era nessuno scopo in quelle sigarette se non quello di fumarsele tutte, una dopo l’altra, senza pagare un euro. L’uomo è ancora lì, al solito angolo e anche oggi intercetta il nostro sguardo e ci si para davanti.

Scusa

Sì? Chiediamo noi, impazienti, anche se sappiamo già cosa domanderà

Ce l’hai una sigaretta?

Purtroppo noi abbiamo smesso di fumare. Saremmo felici di offrirgli una sigaretta, gli daremmo l’intero pacchetto se solo l’avessimo.

No, mi spiace.

A lui non importa il motivo per cui abbiamo smesso o perché non abbiamo mai iniziato. Con i suoi occhi pallati guarda già oltre di noi, alla ricerca del prossimo passante a cui chiedere la stessa cosa. Allora io e Diana continuiamo ad andare verso casa e ricordiamo che fu lui a insegnarci che una sigaretta scroccata non può fare male, perché è una sigaretta non fumata.

Gennaio 2019

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