Santa Croce (2017-...)

The italki class

A short story by S. for his English teacher Lorraine

At that time, a long time ago, my life was very good. I lived in Sintra, Portugal, in a little luminous apartment but for me it was a palace. I used to teach English lessons online and I had twentish students from all over Europe. I was happy, but at that time it wasn’t so obvious to admit to myself. Of course we are never happy in a complete way, because we are missing the 360 vision and we can only see a little portion, but now I can say that it was a beautiful life. On Thursday I used to go to Lisbon by train, and I had English class with a group of migrants in a ruined palace close to Rua Augusta. For the night I came back to Sintra tired but happy, with all those stories, with all the energy and the passion of these poor and unlucky people. I met my boyfriend and we spent time watching old noir movies or listening to him singing and playing guitar. The rest of the days I had my Italki classes with very different people from different cities all over the word, but mostly from Europe. Was it boring some days? Maybe. They were just middle-class people dreaming about a different life, and thinking that English could be a key to enter this fantasy new life. Was it possible to change their lives or was it just an illusion? Hard to say. I was just an English teacher, not a key. But for all of those students I could see on their faces a different dream, maybe not a clear dream, but just a shadow of it. They were just normal people with normal lives, like everybody. One of them, S. used to tell me a lot of incredible stories about himself. He was 40ish years old, and he spoke from a nice apartment in Florence, Italy. Apparently he was a writer, another day he was a stand up comedian, and on other days he was a poet. One day he told me about a poetic night with over fifty people watching him perform some ridiculous stories. I thought that all of those stories were bullshit. Nobody would pay one euro to listen to this guy, I thought. Maybe he was just a mythomaniac. His English level was so bad, although he thought he was a new Shakespear. One day, I remember because it was Thursday and after the class I had to go to Lisbon, S. told me that he had to quit his class because he had to go to Stockholm. Why? Are you going there for vacation? No, he contested, I’ll be there for the Nobel prize. Ha-Ha, I said. C’mon, is it for a vacation? Tell me the truth, just this one time. But he was crazy, and he didn’t admit that he was. We started to insult each other and we terminated our class for that day and forever. The day after, or maybe two, I saw in all the newspapers and on the internet that stupid guy and his stupid face on the stage of the Nobel Price Academy. 

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Santa Croce (2017-...)

Al cimitero acattolico

Il binario non era ancora stato annunciato.

Guardavo il tabellone delle partenze, e mi guardavo attorno perché avevo appuntamento con mia moglie. Invece, tra la folla vidi il volto di Giacomo, il mio amico giovane. Stava fermo davanti a un binario qualsiasi, dove non partiva e non arrivava nessun treno. Mi avvicinai a lui per salutarlo, e venne fuori che prendeva il mio stesso treno per Roma.

Ma come, disse, ti avevo detto che avrei fatto il week-end a Roma.

Io annui, ma non ricordavo, o solo come una lontana informazione recepita in un momento confuso e messa da una parte, remota, nella mente. Sarebbe andato a trovare un amico, che a quanto diceva mi aveva presentato in passato, un critico musicale, o qualcosa del genere. Poi vidi arrivare Diana, e allora ci scambiammo saluti e io parlai della mia stanchezza, stanchezza che mi sembrava emanare come un calore dal mio viso e Giacomo disse qualcosa sul week-end a Roma e come mi avrebbe fatto bene. Uscì fuori anche il numero del binario, e ci dirigemmo tutti quanti verso l’11. Chissà, disse Giacomo, che non capiti che adesso ci troviamo seduti accanto.

A meno ce tu non viaggi in prima, disse Diana, noi abbiamo trovato i biglietti allo stesso prezzo e abbiamo preso quelli. Infatti eravamo seduti in altre carrozze e al momento di scendere dal treno, a Termini, io non pensai a fermarmi alla fine del binario ad aspettarlo, e ci dirigemmo veloci verso la fermata dei taxi.

Il giorno dopo, camminavamo con Diana in una giornata di febbraio fredda e limpida, tersa avrebbero forse scritto i poeti, dopo aver visitato un museo, ci aggiravamo nel mercato del Testaccio, cercando qualcosa da mangiare. C’era un clima lieto, ma ai nostri occhi sembrava tutto malinconico. Era probabilmente conseguenza della mostra che avevamo appena visto, su un esule documentarista che aveva ripreso quasi tutta la sua vita e aveva trovato poesia in molta di essa. Anche il mercato sembrava velato di tristezza, il suonatore di sassofono, un venditore ambulante di teste d’aglio, probabilmente di etnia sickh per la barba tinta con l’henneè, e mille altre facce giovani e vitali o vecchi e stanche che si muovevano in quel sabato mattina che già diventava ora di pranzo.

Forse la malinconia non si addice a Roma, aveva detto lei, e siamo noi che la vedremmo ovunque.

E a quel punto avevo di nuovo visto Giacomo. Camminava affianco a un ragazzo, il critico evidentemente, e non si erano accorti di noi, allora mi sono alzato da un tavolo e li ho raggiunti.

Che strana coincidenza, è la seconda.

Si sono seduti al tavolo con noi, e abbiamo parlato di cose a tratti futili e a tratti serie, della nostra differenza d’età, noi di dieci anni più vecchi, delle cose nuove che vedevano loro e che noi non vedevamo, di quello che invece noi con la nostra maggiore esperienza potevamo forse, chissà, aver capito, e ancora dei giovani ancora più giovani di loro due, che già gli sopravvanzavano, malgrado loro a tratti lo negassero, e di cosa questi novissimi dovevano vedere.

Poi per loro era ora di andare, ma prima di congedarsi Diana ha chiesto al critico musicale, romano, sebbene di un quartiere lontanissimo a quello in cui eravamo, un quartiere che non avevo mai sentito neanche nominare e che distava quasi due ore d’auto (cosa che rendeva quella seconda coincidenza ancor più radicale), Diana ha chiesto se lui avesse da consigliarci qualcosa là, nella zona.

Una cosa ci sarebbe, ha detto lui.

Poi quando ha finito di parlare, ci siamo salutati, dicendo: chissà se avremo ancora tempo d’incontrarci una terza volta, e convinti di no, ci siamo allontanati.

Il cimitero acattolico, diceva Google maps, distava solo sei minuti a piedi, ma il motore di ricerca mi indicava che fosse chiuso. Ho preferito omettere questa informazione a mia moglie e ci siamo incamminati ugualmente. Non so spiegarne il motivo, speravo fosse aperto, o forse semplicemente non riuscivo a pensare a un’alternativa. Parlavamo dei giovani, di Giacomo e del critico, che si sentivano così in cassa di risonanza col presente, e aggiungevamo noi, così poco consapevoli che pure quel momento stava passando. Noi ci sentivamo scollegati da tutto, ma per questo forse più in simbiosi con i pini silvestri che si stagliavano verso il cielo, o i murales disegnati sulle case o ancora le fila di monopattini elettrici parcheggiati dovunque, senza criterio e pronti a finire in delle discariche.

Abbiamo girato intorno alle mura del cimitero, non capendo dove fosse l’entrata e con la mezza idea, io, che ci saremmo fermati davanti al portone sbarrato. E invece era aperto.

Una ragazza all’ingresso con un grande sorriso e delle frasi ripetute molte volte ci ha indicato su una piantina le tombe dei famosi Keats, Shelley e poi ne ha aggiunti altri imparagonabili per importanza, ma che forse potevano interessarci. Noi abbiamo ascoltato distrattamente, poco attratti dalle tombe dei famosi, e piuttosto inclini a perderci tra le lapidi e i gatti randagi.

Camminavamo in silenzio e ho detto a Diana, Sai, ora ho come la sensazione, guardandomi indietro, a questo fine settimana a Roma, che incontrare Giacomo alla stazione, poi di nuovo al mercato, fossero coincidenze che servivano a incontrare il suo amico, il critico, che a sua volta ci avrebbe consigliato di venire qua. E quindi, forse ora, ho detto a Diana mentre lei cercava di avvicinarsi a un gatto acciambellato su un angelo di marmo, forse ora troverò qualcosa che mi parlerà, che mi dica qualcosa.

Certo, ha detto lei, è possibile, ma qualcosa di che genere?

Non saprei, ho risposto, se questo fosse un racconto, forse troverei una tomba con sopra scritto il mio nome.

Certo, se fosse quel genere di racconto, sì, ha detto lei.

Ma questo non è un racconto.

No, non lo è.

E allora cosa pensi che troverai in questo cimitero, tra queste bare e lapide scritte in tutte le lingue. Guarda là ce n’è una giapponese.

Non so, ho risposto.

Abbiamo continuato a camminare a lungo, io leggendo quelle scritte sulle lapidi come se fossero dei messaggi, dei messaggi per me, ho cercato e ho cercato, ma non ho trovato niente.

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San Niccolò (2015- 2017)

Nostra Signora della Provincia

«Insomma se ti sta tanto a cuore, chiediglielo», ha ripetuto l’uomo con il cappello di lana colore cremisi a quell’altro con i ricci che era stato in silenzio tutto il tempo, e mi sono domandato in quale fase della serata avesse così a lungo espresso il suo dubbio. 

«Chiediglielo, che c’è da vergognarsi?» ha insistito ed era tutto vestito così. Anche i pantaloni in velluto e il maglione pesante. Tutto di quel colore senza che sembrasse una cosa strana o voluta. 

Ma qualcuno glielo aveva fatto notare e lui aveva risposto facendo riferimento al gruppo musicale, o forse mi confondo. Si era parlato prima del gruppo musicale e di cosa volesse dire crimson, e solo dopo era venuto fuori che era interamente vestito di quel colore. Sia come sia «va bene» sussurra. «Allora se proprio non vuoi parlare, glielo chiederò io.»

E mi ha guardato negli occhi dicendo «il mio amico voleva sapere se siete una coppia o siete fratelli.»

Nel bar un breve silenzio, poi i presenti hanno aspettato che io rispondessi qualcosa.

Prima. 

Il giorno prima Diana mi aveva chiesto se l’accompagnavo a San Mauro a vedere la mostra di un cubano, a una villa, e io le ho risposto va bene, andiamo, ma ho anche pensato che era una pessima idea. A San Mauro non ci torno mai, neanche a Natale. 

C’è stato un periodo della mia vita in cui potevo concepire che i miei genitori morissero, ma non di vivere altrove. Poi siamo partiti. Prima io e poi loro.

Diana lavora nell’arte, o meglio ci prova. Era sul divano che guardava le mostre da recensire e mi ha detto se avevo voglia di accompagnarla a San Mauro e io le ho detto sì. Siamo arrivati al paese che già era sera. 

La mostra. 

La mostra era finita prima ancora di entrare, perché nel vialetto d’ingresso l’artista aveva esposto tutto quello che di buono aveva da dire. Cioè prendere robaccia marcia trovata lungo il corso del fiume fatta come dei nodi, grumi di cose come quando i legni e la roba si incastrano all’altezza dei ponti. La gente del luogo, passando per strada, si lasciava andare a facile ironia mentre una volta dentro la villa le luci e i grandi disegni li paralizzavano.

«Posso immaginare» mi aveva detto Diana, «che la gallerista abbia detto al cubano belle le tue installazioni, ma mica si vendono. Di queste tue cose ora mi fai dei quadretti. Niente di particolarmente grande, magari due o tre enormi se ne hai voglia, ma comunque sì: l’ideale sarebbero un bel po’ di quadretti» e lui aveva accettato. Forse la ragione stava nel fatto che l’artista era nato il mio stesso anno e anche lui aveva capito come quadretto fosse sinonimo di compromesso e che compromesso fosse sinonimo di vita. 

Anche se a questo proposito con Diana ci eravamo avvicinati, anzi Diana da sola per chiedere se avesse scelto San Mauro o se San Mauro avesse scelto lui, visto che le sue opere erano proprio in cassa di risonanza a certe derive industriali e fluviali che ben definivano il luogo, ma a me sembrava una domanda insensata, come se il peyote trova te o te il peyote. 

Il cubano le aveva risposto qualcosa, ma lei non parlava spagnolo, insomma pochissimo e non si erano capiti (come d’altronde avrebbe potuto capire una domanda insensata?) e lei mi aveva fatto un cenno, anzi prima un cenno e poi preso per mano e portato fino davanti al cubano, per capire cosa le stesse dicendo. Io gli avevo detto hola, que tal, ma lui si era come scordato del compromesso con la realtà e dei quadretti e ci aveva liquidato dicendo che la conferenza stampa sarebbe iniziata ahorita e allora avremmo potuto fare qualsiasi domanda avessimo voluto. 

Aspettando che cominciasse eravamo usciti nell’ampia terrazza dietro la villa, che poi si era rivelata essere un terrapieno sulla sponda del fiume, ed eravamo stati là a guardare nel buio il chiarore dei sacchetti di plastica appesi agli alberi lungo la riva del fiume come creature notturne o installazioni di artisti meno compromessi del cubano, che comunque, diceva Diana per giustificarlo, era «solo molto timido.»

Ci eravamo allontanati dalla villa con ancora tutti quei discorsi negli occhi: la voce del cubano sovrastata da quella dei politici e sindaci e dei sindaci dei paesi vicini, e dei curatori, e dei galleristi e dei critici amici di Diana, tutti là a parlargli sopra, sopra quell’angolo di stanza completamente stipato di scarpe buttate e spaiate e Diana a quel punto non aveva retto più. Era venuta a cercarmi e mi aveva trovato seduto fuori per le scale, ad aspettare che finisse. C’era una comunità di rifugiati che aveva aiutato il cubano a raccattare la roba lungo il fiume, ed erano alla mostra completamente fuori contesto, con i loro vestiti migliori, ma in effetti anche la gente di San Mauro lo era: tirata a lucido e pacchiana. 

Io pensavo solo: eccola qua, Nostra Signora della Provincia. 

Stavo sulle scale ad aspettare Diana che non sarebbe riuscita a fare quella sua unica e insensata domanda sul trovare o essere trovati, e c’era accanto a me un tipo nero se non che era albino, che si era sentito in imbarazzo ad andare con gli altri ragazzi di colore a farsi vedere tipo esposizione universale e sedevamo accanto senza parlare, ognuno aspettando qualcuno, e io pensavo soltanto se quel tipo fosse un segno di malaugurio o se invece l’opposto, ma no, era certo malaugurio perché ogni profezia non può che recare cattive notizie. 

Poi Diana era tornata incazzata e la nostra visita alla mostra era finita.

«Mangiamo qualcosa, già che siamo qui?»

«Sì» 

«Andiamo a San Mauro Alta?»

«Sì. In verità», ho continuato, «non si dice San Mauro Alta. Esiste solo San Mauro e San Mauro Bassa. Serve a definire dei livelli sociali che non possono essere scalfiti né, in un certo senso, comparati.»

«Ah già. Tu sei di qui, no?»

«Sì. Ero di qui.»

«Non si dice ero di qui. Si dice di un morto. Un vivo è e rimane di un posto.»

«Anche se non ci torna mai più?»

«Sì.»

«Come un cubano con Cuba?»

«Esatto.»

Così siamo andati verso il sabato sera di San Mauro a cercare un posto dove lasciare la macchina, ma come non trovare posto per la macchina a San Mauro? E mostrare con il dito a Diana alcune cose che pensavo in mia assenza si fossero spostate come i ghiacciai sulle montagne, ma invece erano sempre rimaste lì. 

«Vedi quei bar? Sono nuovi.» 

«Uao.» 

«Invece certi lavori a loro modo epocali, come questo ascensore che porta al parcheggio giù in basso, io a quel tempo ero presente, quando lo fecero.» 

«Ah sì?»

«Sì. Chissà che pensavano in Comune. Quante macchine sarebbero arrivate. E invece poi anche quella cosa era passata, le macchine avevano raggiunto il limite.» 

A dimostrarlo il parcheggio giù in basso semideserto, come una promessa di felicità disattesa.

«Allora proviamo qui?» e siamo entrati nell’osteria che sembrava mezza vuota. Ma né all’osteria, né alla pizzeria dentro l’ex-cinema fallito siamo riusciti a trovare un posto libero. La crisi in paese era solo esteriore, così abbiamo provato all’unico bar dove non volevo andare perché sapevo che avrei trovato qualcuno del mio passato, e infatti là c’era posto a sedere. 

Il bar Burro e Acciughe era vuoto, fatta esclusione per uno di spalle che sembrava in tutto distaccato da sé e dal contesto e che unicamente dopo ho riconosciuto come un vecchio conoscente. 

«Ehi, ti ricordi? Come va?»

«Benissimo» ha risposto, «molte e grandi soddisfazioni. Sto veramente bene. Mai stato meglio.»

«Bene» ho detto io, «mi fa piacere saperlo.»

Ma poi, dal modo in cui lui ha piegato il capo pieno di riccioli e gli occhi schiacciati, ho capito che non era vero, che stava male e che era ubriaco. A quel punto lo hanno raggiunto nel bar anche l’uomo pelato con i baffi e i vestiti che tendevano al rosa, ma ancora non sospettavo fossero cremisi. Poi un altro più vecchio, con un piumino, tutti e tre con le rispettive bottiglie in mano. Io ho cercato di disinteressarmi e concentrarmi sul menù, di mostrarmi assorto quanto meno agli occhi di Diana, ma non era semplice. Dopo qualche minuto l’uomo con i baffi ha fatto la sua domanda sulla natura del nostro rapporto, senza mai cambiare espressione, anche se in verità l’altro con i ricci non doveva avergli chiesto proprio niente, e di certo non aveva fatto caso che io e Diana ci somigliassimo. Perché neanche ci guardava. Ho spiegato che eravamo una coppia e che non ce l’aveva mai detto nessuno, che fossimo simili. 

«Magari dopo un po’ si comincia ad assomigliarsi. Come nelle isole o nei piccoli paesi» ho spiegato tanto per dire qualcosa. 

Siamo rimasti nel bar il tempo di finire i panini e ancora qualche discorso, poi siamo usciti. Mentre scendevamo nella strada che portava al bar centrale Diana ha detto «che cosa incredibile è appena successa. In città non sarebbe mai capitato di parlare così con qualcuno semplicemente perché ti si trova vicino. Ti sei accorto?» ed io «sì. Te dici che cosa bella, ma a me mi è sembrato un incubo. Che stavolta siamo stati solo un momento vicini, ma che se vivessimo qui non ci saremmo più liberati di quei tre.»

E, come a conferma delle mie parole, è ricomparso l’uomo con i riccioli accanto al bancone del bar e ci ha guardato come a chiedere una carezza, ma io non avevo niente da dire, e lui non ha detto niente, limitandosi a mostrare alla barista dagli avambracci pelosi i suoi soldi, come a sottolineare «ce li ho», e io e Diana abbiamo preso le nostre tazzine e ci siamo spostati a un tavolo più in là, per restare da soli, quasi fossimo nuovamente in città.

«Non hai detto niente a quel tuo vecchio amico?»

«E che gli dovevo dire?»

«Ma che cosa aveva? Perché stava male?»

«Saranno tormenti d’amore», ho risposto. 

«Sono tipici qua in provincia.»

Usciti dal bar per tornare in città, il paese che era sembrato così vivo fino a un attimo prima era buio e vuoto. 

«Che belle queste scale», ha detto Diana. 

«Sembra di stare a Parigi.» 

«È vero» ho detto io, «ma adesso andiamocene» e mi sembrava che qualcuno ci venisse dietro. Di certo, ho pensato, era ancora l’ubriaco coni ricci che camminava per le strade tipo un vascello fantasma.

«Perché hai lasciato San Mauro?» mi ha domandato Diana che già entravamo nel parcheggio deserto. 

«Cosa è successo?» 

«Beh. La gente» ho risposto. «Non ti lasciano in pace, li incontri dovunque, ogni giorno, sempre gli stessi. Bisogna partire, andare lontano, e così ho fatto.»

«Sì, ma in concreto: che cosa ti ha spinto? Quale occasione? Perché dai tuoi racconti d’infanzia sembrano tutto l’opposto: campagne dove ci sono soltanto bambini e i genitori tutti a lavoro. Mattine lunghissime a risalire la collina.»

«Eh» ho detto, «se non ci nasci fai fatica a capire.»

Tenendo Diana per la manica siamo entrati nel parcheggio, e dietro quell’ombra. «È che le persone in provincia non sono come in città: si ricordano tutto. Te gli dici una cosa, ed è quella. In verità non sono cattive. È che si annoiano. Allora cercano lo scontro, la mettono sul personale. Come fare a non mettersi sul loro piano? Uno dovrebbe evitare, poi ti rigiri e fai peggio.»

«Non capisco. In che senso?»

«Che ci fate a San Mauro?»

«Siamo venuti per la mostra. Anzi in verità io qui ci sarei nato.»

«Ah, ritorni eccellenti.» 

«E venite proprio dalla città? O da qualche quartiere periferico?» 

«Città.» 

«Le opere di un tipo cubano.»

«Alla villa accanto al fiume.»

«Era bravo il cubano?»

«Promettente.» 

«Non ho mica capito se vi è piaciuto.»

«Siamo venuti a vedere.»

«A vedere e farvi vedere.» 

«Come dici?»

«Lo so come funziona quel mondo. Non è mica un segreto. Il sindaco, il cugino, gli amici del sindaco.»

«No, veramente.»

«Vi dico che ci ho avuto a che fare. Lo so che è così.»

«Solo a vedere un artista esiliato, non a sentire i discorsi» ha detto Diana, ma era dubbiosa. Allora sono intervenuto, perché avevano iniziato loro. Erano stati i primi a essere scortesi e ho fatto la sola domanda che sapevo non dovevo fare. 

«E voi ragazzi, che fate di bello stasera?» 

Ancora silenzio, quindi il pelato vestito di rosa mi ha detto «pensi che ci sia qualcosa da fare a San Mauro?» 

«Chiedevo soltanto» ho spiegato, evitando il suo sguardo.

«Io questo l’odiavo, questo dirsi le cose precise che fanno più male» ho detto a Diana camminando veloce nel parcheggio in penombra. «Ma forse» ho continuato, «anche io sono fatto così. Rimugino, penso che gli altri si facciano gioco di me. Un complesso. Qualcosa di tipico nelle persone di bassa statura o che vengono della campagna. Pensiamo che gli altri lo capiscano subito, che siamo gente da niente. Allora ci prende la cattiveria, quest’odio da bisce di fiume.» 

«Ma che dici?»

«Vieni Diana. Voglio tornare a casa» le ho detto riconoscendo tra le altre la nostra automobile parcheggiata. 

L’uomo con i baffi stava appoggiato alla portiera che si massaggiava la testa pelata. Appoggiato alla macchina e c’era anche l’altro con il piumino e impugnavano le bottiglie di birra finite come a volerle lanciare. 

«Ecco che arrivano i fratellini» ha detto quello più vecchio che era stato zitto per tutto il tempo, mentre l’altro con i ricci è comparso dal retro del parcheggio e ha singhiozzato un lamento. 

Per alcuni secondi nessuno ha parlato, e io ho pensato al cubano e alle sue opere ignorate da tutti, che ancora stavano là nel vialetto d’ingresso. Poi ho detto pianissimo più a me stesso che a Diana che mi stava vicina «ora guardala bene, cos’è la provincia.» 

Racconto uscito 11.10.2017 nell’antologia effequ Odi a cura di Raffaele Merlini
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Verde Rivista

Storia millenaria di un castello di sabbia

Ho scavato sulla spiaggia, sul bagnasciuga, una sorta di castello, ma non antropo-architettonico, un semplice cumulo di sabbia.

Poi ho detto a Diana: “Considera che qui il tempo è un altro. Questo secondo: cento anni. Allora degli uomini -ho continuato- hanno edificato la fortezza molti secoli fa e infatti guardando a nord si vedono ancora le cave con la cui sabbia si è costruito il palazzo, là, a qualche centinaia di chilometri (anche lo spazio è altro).
Poi l’acqua ha invaso del tutto la zona alle spalle della fortezza. Si è creato un mare interno, tra le cave del nord e la fortezza. Lo vedi? Negli anni la struttura ha subito grandi danni a causa delle inondazioni, poi l’acqua del mare interno si è a poco a poco prosciugata. È passata quell’epoca in fondo felice quando il mare interno non ci faceva pensare all’infinito mare esterno e ai suoi pericoli: le onde che a poco a poco erodono il palazzo antico. Già qualcuno guardando verso nord nega le verità degli scavi, che sia mai esistita l’epoca di una cava: qualcuno sostiene non furono gli uomini, ma un Dio a edificare il palazzo. Con il passare del tempo tutto si confonde nella memoria e in un certo senso la voce di un deus ex machina è rassicurante. Oltre a essere comprovata dall’immobilismo che regna tra gli uomini della fortezza: andare nel nord in cerca di una nuova cava per risanare il palazzo appare impossibile.
Perché? Ogni anno che passa le onde si portano via un nuovo pezzo di roccia, tutto crolla sotto ai colpi delle enormi onde. Il sole, affermano gli astrologi, è più basso di qualche secolo fa: c’è chi sostiene che scenderà ancora, si abbasserà fino al mare, fino a prosciugare anche il mare esterno. C’è chi parla invece di imminenti maree che finiranno per sommergere tutto, che sommergeranno il castello e perfino le remote cave nel nord del Paese.
Passano i secoli e niente ancora si fa per risanare le mura. Il mare interno è ormai un ricordo lontano, la tanto attesa missione alle cave rimane un miraggio, un’impresa impossibile. Il palazzo sulla spiaggia è quasi del tutto assorbito dalla terra su cui si erge”.

E a quel punto ho smesso di parlare e ho scavato altra terra con le mani e ho rinforzato il monte di sabbia. Un nuovo mare interno si è formato poco dopo e con la mia azione ho assicurato qualche altro millennio di storia per il castello sulla spiaggia.

“É così che penso io” ho detto a Diana, lei ha replicato che era la cosa più originale che le dicessi da anni.

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Santa Croce (2017-...)

Calcio estivo

Tutto mi piace del calcio estivo
solo il calcio estivo mi piace.
Mi piace il calciomercato,
i nomi avvicinati alla squadra
che non arriveranno mai.
Gli allenamenti in località amene
dove non andrò in vacanza.
Le interviste ai tifosi bambini
Qual è il tuo calciatore preferito?
Mai nessuno che dica
“il portiere di riserva” oppure
“il calciatore che è andato via,
nella squadra che lo pagava meglio”.
Mi piacciono le amichevoli
che finiscono 18 a 0
31 a 7
oppure le amichevoli di lusso
contro squadre blasonate.
Il giocatore X
segnerà il gol della vita
rovesciata da centrocampo
direttamente al sette
mentre intorno a lui
venti difensori del Real Madrid
lo guardano e non possono nulla.
Tale calciatore X
finirà il campionato successivo
senza aver segnato neanche una rete
e verrà ceduto per due manciate
di noci e fichi secchi
alla prossima sessione estiva.

Tutto mi piace del calcio estivo
solo il calcio estivo mi piace.
Quando ancora tutto è possibile
e allo stesso tempo è inutile, indifferente
e superfluo, come un pomeriggio d’estate,
come la vita.

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Santa Croce (2017-...)

Note da Stromboli

Santo Santo Santo

Ho come l’impressione che passata una prima fase che definirei identitaria, oggi la questione di Padre Pio si sia molto ammosciata. Prima era un bel culto energico, poi da quando la santità è stata riconosciuta, non gliene frega più nulla a nessuno.
Sì, embè, un altro Santo in cielo. E festa finita.

Chiringuito

Il problema di questi chiringuiti e spiagge deserte annesse è che in ciascuno di esse troverai un tizio di Genova (ma che ha lavorato 25 anni a Milano) che non aspetta altro che insegnarti come si sta al mondo.

Il progetto

Diana mi ha chiesto se secondo me il nostro architetto stesse lavorando in quel momento al progetto della casa e io ho avuto la chiarissima sensazione, anzi visione, dell’architetto con un dito nel naso intento a estrarne un’enorme caccola.

Vacanze da soli

Benissmo fare le vacanze da soli, siete veramente in gamba, io non so se ce la farei, ma Cristo Santo che bisogno spasmodico di comunicare che avete, in queste due ore di gita intorno al vulcano, sembra siate rinchiusi da una settimana in isolamento, adesso so tutto di voi, della vostra vita, e pensa che sei in vacanza da solo, io in compagnia e da quando sono arrivato sull’isola avrò detto la metà delle tue parole.

A Stromboli

A Stromboli una delle cose più difficili è capire quali posti sono per fregare i turisti e dopo un po’ scopri quasi tutti sono dei posti per fregare i turisti.

Ma poi dopo un po’ cominici a capire come fare sebbene sia difficilissimo trovare un posto dove non ti fregano. In tabaccheria hanno le birre Messina a un euro e cinquanta, per dire.

In aliscafo

Una nuova frontiera dell’intrattenimento sono i documentari con animali tardo preistorici, cioè niente dinosauri, ma tigri dai denti a sciabola, mammut o altri collocati in contesti bucolici o glaciali, ma il punto di questi pseudo documentari è lasciarti il dubbio se siano animazioni al computer (sì, lo sono) o solo delle tigri molto pelose che vivono in Alaska, e mi chiedo allora perché invece di quella roba non abbiano deciso di fare un documentario classico su una tigre vera. Forse così gli costava meno? Probabile. O forse ciò che veramente mi rende ipnotica questa cosa, quello che mi aggancia, è quel dubbio sottile o sospetto che sia vero, falso, ben fatto, mal fatto. Certamente: inutile.

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Santa Croce (2017-...)

Cacciatore di sigarette

Dopo una decina d’anni lontani, in altre nazioni o città o più semplicemente quartieri, siamo tornati ad abitare con Diana nel quartiere in cui frequentammo l’università di Lettere e Filosofia, che è anche il luogo dove ci conoscemmo. È un quartiere con una sua certa bellezza, seppur poco esplicita, con scritte sui muri, scritte che si cancellano dai muri e vengono rifatte sempre uguali, muri carichi di umidità, piccoli bar anni settanta, elettricisti dove non c’è mai nessuno, alimentari con luci al neon dove la regola non scritta è che si può mangiare un pasto completo con una banconota del taglio più piccolo.

Non andiamo più in quegli alimentari e bar squallidi di un tempo, non perché adesso abbiamo più soldi, non è solo questo, ma è perché quei posti ci mettono una grande tristezza. C’è un bar ad esempio a cui andavamo quasi ogni giorno, un bar gestito da due uomini, vecchi oggi come allora, baristi talmente simili tra loro che credevamo fossero fratelli, o una coppia di amanti. Era quello un bar dove avevamo una scatola di biscotti al burro, biscotti inglesi per il the, che lasciavamo là se non finivamo e quando tornavamo la volta successiva trovavamo ad attenderci. Adesso ci fa spavento anche solo passarci davanti. Allora attraversiamo la strada, oppure alziamo il bavero sul mento e guardiamo fisso in avanti. C’era e c’è ancora la gastronomia di un certo Vittorio, chiamato da tutti Vittorino, ironicamente. Là era possibile, e mi dicono sia ancora così, mangiare con pochi euro, sebbene il punto di forza non fosse la convenienza, ma la quantità. Vittorio era famoso per le porzioni enormi. Forse ricordiamo male, non erano così grandi come pensiamo, ma dipende dal fatto che le cose del passato sembrano più grandi nella memoria. Non c’è dubbio che fossero enormi, ci diciamo, erano le sole porzioni in grado di placare la nostra fame inestinguibile. Anche da lui non torniamo mai, ci sembra che la fame di allora si sia per così dire asciugata, oggi andiamo solo in ristoranti dove le porzioni sono piccole, care e sapide. Paghiamo il conto sempre con grande piacere. E poi c’è il quartiere tutto intorno all’università che in dieci anni sembra esser cambiato. C’è ancora l’enorme, oscuro palazzo del rettorato, con le sue torri e i suoi cancelli e custodi, è vero, ma sembra che l’università sia deserta. Con la crisi economica gli studenti fuori sede che maggiormente animavano il quartiere hanno smesso di venire, o forse è che oggigiorno nessuno vuole più iscriversi alle facoltà umanistiche, visto la fine che abbiamo fatto noialtri. Gli studenti, che pure continuano a esistere, vanno a studiare nel quartiere nuovo, dove ci sono le facoltà di economia e giurisprudenza, i centri commerciali, gli svincoli che partono verso nord. Il vecchio quartiere universitario si è popolato di ristoranti per turisti, catene di oggettistica svedese e srilankesi che vendono birre a qualunque ora del giorno e della notte. Forse ci sbagliamo, diciamo, forse quei negozi c’erano anche dieci anni fa, e siamo noi che ricordiamo male o che siamo cambiati.

Ogni giorno, per tornare a casa dopo i nostri lavori, io e Diana attraversiamo il quartiere universitario, ognuno a un suo orario specifico. Non più stretti l’un l’altra sul marciapiedi, non più stringendoci addosso ai nostri maglioni e sciarpe di lana, ma ognuno dentro al suo cappotto pesante, ognuno all’oscuro di ciò che il vecchio quartiere risveglia nell’altro, sospettando che sia poi la stessa cosa. È così. Durante le mattine di sabato che sole danno significato alla vita (ma i sabati non possono bastare, ci diciamo quando siamo fermi ai semafori) di sabato usciamo di casa e invece di girare a sinistra, prendiamo a destra, prediligendo quella zona del quartiere dove un tempo non mettevamo mai piede, quella del mercato e dei tavolini, così che l’altro quartiere, simile eppure diverso, lontano seppur vicinissimo, rimane sfocato, come fosse un pesce d’argento che vediamo sott’acqua, mobile seppure sia immobile.

Però c’è un angolo, tra via delle Pergola e via degli Alfani, un angolo a cui io e Diana non ci possiamo sottrarre. Se il bar dei fratelli, se l’alimentari di Vittorio, se le scritte sui muri noi possiamo con degli stratagemmi far finta non esistano, quell’angolo non lo possiamo evitare. Vi è un uomo, vi era un tempo e vi è tutt’ora, che sta là a chiedere le sigarette. Ha una coda di capelli che con gli anni sono diventati grigi e ora bianchi. Era là quando fummo matricole, era là quando, in ritardo, ci laureammo con le nostre tesi mirabolanti. Estati e inverni, con la pioggia e col sole, in quell’angolo, sempre la stessa frase, ripetuta come una poesia imparata a mente, scusa, sempre uguale, ce l’hai, senza mai invertire l’ordine delle parole, senza mai utilizzare un sinonimo, essenziale, una sigaretta, immutabile, perfetta. All’epoca qualcuno sosteneva che quelle sigarette neanche le fumasse, erano racconti che si facevano, che le sigarette gli servissero per ricavarne la cenere. Che quel tizio mischiasse la cenere con l’eroina e poi, come un alchimista, si sparasse tutto nelle vene. Erano discorsi da bar, erano discorsi da chi ha molto tempo da perdere e lascia andare i pensieri, oggi lo sappiamo bene. Non c’era nessuno scopo in quelle sigarette se non quello di fumarsele tutte, una dopo l’altra, senza pagare un euro. L’uomo è ancora lì, al solito angolo e anche oggi intercetta il nostro sguardo e ci si para davanti.

Scusa

Sì? Chiediamo noi, impazienti, anche se sappiamo già cosa domanderà

Ce l’hai una sigaretta?

Purtroppo noi abbiamo smesso di fumare. Saremmo felici di offrirgli una sigaretta, gli daremmo l’intero pacchetto se solo l’avessimo.

No, mi spiace.

A lui non importa il motivo per cui abbiamo smesso o perché non abbiamo mai iniziato. Con i suoi occhi pallati guarda già oltre di noi, alla ricerca del prossimo passante a cui chiedere la stessa cosa. Allora io e Diana continuiamo ad andare verso casa e ricordiamo che fu lui a insegnarci che una sigaretta scroccata non può fare male, perché è una sigaretta non fumata.

Gennaio 2019

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Solo a voi che guardate le mie ultime storie voglio bene

Solo a voi che guardate le mie ultime storie voglio bene,

non le prime.

A voi che arrivate fino in fondo, mi seguite

passo passo nei recessi più superflui o importanti,

a voi che venite dietro di me per sapere cosa facevo quattro anni fa,

nel bagno,

l’altra sera,

la copertina del libro,

l’aperitivo.

Lo so che non vi importa davvero, ma vi perdono

lo so che anche voi che guardate le mie ultime storie

siete solo molto soli o forse nemmeno questo

avete un problema di dipendenza

forse dovreste chiamare l’ottico

quanto è che non controllate la pressione dell’occhio?

E’ un controllo di routine, ma dovreste farlo, in fondo davvero troppe troppe ore rivolgete lo sguardo nei telefoni, non fa bene questa roba, hai mai sentito parlare di radiazioni? Avevi anche comprato gli occhiali con le lenti schermanti raggi V, che fine hanno fatto vallo a sapere.


Solo a voi che guardate le mie ultime storie voglio bene,

ma anche a voi che guardate le prime storie,

anche solo per sbaglio, passando subito oltre

anche a voi voglio bene.

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Fogli sparsi, Santa Croce (2017-...)

Nasci, cresci, fai le pulizie, muori

Se vuoi conoscere davvero una persona chiedile come fa le pulizie a casa.

Parentesi che si apre.
Potresti anche chiedere a quella persona come preferisce prendere il caffè, è vero, io per esempio amo le porcellane sottili, le tazze di ceramica leggerissima che hai la sensazione che mordendola coi denti si potrebbe spaccare e tagliarti la bocca così che il sangue e il caffè si vadano a mescolare.
Ma chiudiamo subito questa parentesi.
Le pulizie a casa, quella sì che è una cartina di tornasole, tu per esempio, come ti sei organizzato?
Hai una donna (o uomo) che viene a fare le pulizie al posto tuo? C’è per esempio tutto un lessico specifico su questo argomento. Non si dice, non sta bene, la donna delle pulizie. Si dice semmai: c’è una signora che viene a dare una mano. Così è molto più per bene, mentre dico, una signora che viene a dare una mano sento proprio come un sospiro di sollievo che mi attraversa il corpo.
Comunque noi siamo delle persone profondamente moderne e non c’è nulla di male ad avere una persona (dal sesso generico) che viene a virgolette dare una mano a casa. Non c’è nulla di sbagliato in questo. Tuttavia una domanda ulteriore si potrebbe fare ed è: ma chiami una persona perché non ti piace pulire? Perché non ti riesce? O magari perché non hai tempo? Se non ti piace, allarghiamo le braccia, viviamo in fondo nella dittatura del gusto, quindi lungi da me contestare la piacevolezza di fare le pulizie, invece approfondiamo la seconda risposta, cioè quella di non avere tempo.
Sì, è così, io lavoro alla Nasa, non ho tempo di fare le pulizie a casa. Bene, molto bene. Sebbene, la persona che abbiamo di fronte sarà una di quelle persone che magari fanno dei figli o hanno dei cani e poi hanno delle persone che si occupano dei bambini o persone che portano i cani a fare i loro bisogni, quindi delle persone paradossali. Non c’è niente di male a essere persone paradossali, ma che lo si ammetta.
Viene a dare una mano, la signora.
Le possibilità di pulizie a casa sono comunque un numero limitato, il che ci permette di porre le persone dentro un certo numero di categorie, come i segni zodiacali. Quando qualcuno contesta i segni zodiacali io tiro sempre fuori Goethe che diceva che esistono solo 12 situazioni tragiche possibili, muore lui, muore lei, certo composte da infinite sfumature e specifiche, ma comunque sempre dodici sono, quindi ecco l’astrologia ed ecco le pulizie.
Ipotesi uno, la signora o il signore delle pulizie. Ipotesi due, se vivi con i tuoi genitori, un genitore che fa le pulizie e non vorrei essere troppo scomodo, ma ho come il sospetto che la persona che se ne occupa non sia vostro padre, tuttavia magari avete una madre disabile e si occupa delle pulizie vostro padre? Chissà.
Comunque arriviamo alla terza possibilità ovvero vivete con una o più persone e vi occupate di pulizie domestiche anche voi in prima persona, magari facendo dei turni di pulizie, oppure, ed è proprio qui che volevo arrivare, facendo ognuno qualcosa, ognuno secondo le sue capacità o caratteristiche personali.

Io, per esempio, a casa le pulizie le faccio a metà con la mia compagna Diana, ma la cosa interessante è come ci siamo divisi queste faccende. Io pulisco il bagno e la cucina, lei fa il salotto e la camera da letto. Sono i suoi dei compiti per così dire più intellettuali, o pregiati, rispetto ai miei compiti che invece sono più terreni e materiali, ma mi sembra una cosa giusta. Amo pulire i cessi, è una cosa che mi dà una specie di soddisfazione particolare. Pulire un cesso è per me come fare un giro in bicicletta, la stanchezza che fa seguito alle pulizie di un cesso, a quel senso di vuoto pieno, è paragonabile solo a una passeggiata in alta montagna. La respirazione, mentre pulisci un cesso, rallenta, il respiro si fa profondo. I battiti del cuore diminuiscono e rimane solo un enorme silenzio e la voce in sottofondo di Attilio Scarpellini su Radio3 che mi parla della perdita dell’aura in Walter Benjamin.
Pulire un cesso, esplorare anche le parti meno visibili, indugiare con un bruschino intorno ai fori più fetidi, insistere, non affrettare alcun passaggio, prolungare quel gesto in maniera spasmodica, come se fosse un balletto di danza russa, come se fosse la cura di un giardino. Tra le mattonelle, dove minuscole particelle di schifo, di unto si annidano, là è dove per un momento, nella loro epurazione, puoi trovare finalmente la tanto ricercata pace.
Una volta, tanti anni fa, lavorai in un teatro. Lavoravo in teatro, nel senso che facevo le pulizie in un teatro. Era un lavoro bellissimo. Il lavoro più bello della mia vita, dovevo andare all’alba a fare le pulizie, ovvero dopo gli spettacoli, ma prima che arrivasse al mattino la gente per i matinée oppure la gente a fare le prove. Verso le cinque. Era un lavoro superbo, io arrivavo là nel teatro vuoto, che in effetti era anche spaventoso, e pulivo il teatro. La mia parte preferita da pulire, già lo avrete intuito, erano i cessi del teatro, e in particolare ricordo con affetto i vespasiani. I vespasiani avevano qualcosa di profondamente giusto, di artistico, di duchampiano, o forse semplicemente li amavo perché non dovevo piegare la schiena. Un giorno incontrai il mio capo supremo delle pulizie del teatro, che in effetti era una donna, ed era mia zia. La persona grazie alla quale avevo ottenuto quel lavoro. E lei mi disse una cosa che mi porto dietro ancora oggi, una piccola grande verità ovvero che pulire è una battaglia persa, che domani tutto tornerà a sporcarsi, di nuovo, e ancora e ancora. Che pulire pertanto è sempre un far sembrare pulito e niente più, che il concetto stesso di pulito è un concetto problematico, che il pulito rincorre sempre se stesso senza mai potersi raggiungere e mai si raggiungerà.
C’è infine un’ultima categoria di persone nei confronti delle pulizie domestiche e sono le persone che non fanno mai le pulizie in casa. Mai. Semplicemente un giorno magari non indossano le scarpe e coi calzini puliscono a terra. In questo caso si può ritenere pulizie domestiche? Noi crediamo di no. Oppure passano un dito sopra la televisione e la polvere si attacca al dito e così questa persona genera una specie di disegno di un fiore, o di un pene, è questo una speciale tipologia di pulizia? Anche in questo caso siamo costretti ad ammettere di no. Le non pulizie credo io siano qualcosa che ti scivola addosso, quando comincia a passare troppo tempo, superi un certo limite a quel punto è semplicemente qualcosa che non ci si può fare nulla, si lascia perdere, come ad esempio mangiarsi le pellicine o farsi di eroina, ormai è andata. Questa categoria di persone, le persone che non puliscono casa hanno dei bagni in particolare, a volte sarete stati a casa loro, che sono dei luoghi esclusi dal tempo, dove tutto sembra provenire da un’altra epoca, sono come i relitti delle navi in fondo all’oceano, che hai la sensazione che qualsiasi minuscolo gesto o cambiamento potrebbe far collassare l’intera struttura. Sono delle persone di solito molto belle, ma ahimè questa condizione esistenziale non è molto accettata socialmente.
Questo penso mentre pulisco il cesso di casa mia di mercoledì, oltre a pensare al caffè che mi berrò quando avrò finito e a quella tazza di ceramica sottilissima che forse morderò coi denti.

21 marzo 2022, Cantina Litfiba
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Lettere di Natale a vecchi amici su una chat WhatsApp da lunghissimo tempo inutilizzata

Cari amici
è la viglia di Natale, aspetto che sia ora di entrare al lavoro e mi prendo qualche minuto solo per scrivere a voi a cui pure non scrivo e non penso mai, o quasi mai, ma che le vigilie di Natale vostro malgrado mi tornate in mente.
Penso alle vigilie di Natale della nostra infanzia e adolescenza, quando hai quell’età che non sei piccolo e non sei grande, e allo stesso modo tutto è tiepido, o almeno sembra: le decisioni, le scelte, tutte quante reversibili, tutte emendabili, sebbene a posteriori chissà, guardando un po’ gli ultimi messaggi scritti su questa chat WhatsApp, potremmo dire che non era veramente così.
“Fa niente, fa lo stesso”, direbbe uno di voi due, con quel suo modo di dire le cose, come alzando le spalle con indifferenza, salvo poi riabbassarle con un sorriso vagamente tragico e sconsolato.
Fa niente, fa lo stesso, se poi quelle scelte e decisioni di allora non erano per davvero reversibili, se non c’era davvero altro tempo oltre quello, mamma mia che discorsi tremendi mi sento fare.
Volevo scrivere tutt’altro, cose allegre, e questo è di nuovo il mio io attuale che parla, gravato da un peso gravitazionale che di certo in quelle vigilie di Natale dei nostri quindici o sedici anni non dovevo avere, quando prendevamo l’autobus, l’1 A o 1 B andavano bene entrambi, e scendevamo alla fermata Duomo, o a quella prima di Via Martelli, entrambe le fermate dell’autobus, chissà se lo sapete, da molti anni che sono state soppresse per la pedonalizzazione del centro. Non farò un canto funebre anche per questo, ve lo prometto.
Ma certo era bello scendere al Duomo, proprio sotto al Duomo, con le facciate annerite per lo smog, non ci importava allora che le facciate fossero scure per tutto quello smog che ci finiva sopra, forse ci mancavano proprio le categorie per capire che era sbagliato, che era brutto. A noi sembrava bello. Arrivavamo da Le Cure, si andava in centro a comprare gli ultimi regali di Natale, si scendeva alla fermata Duomo, o a quella prima, di Via Martelli perché c’era un negozio di musica a cui andavamo sempre, come si chiamava? Non lo ricordo più. Abbiamo comprato parecchia musica, in quel negozio, che oggi è diventato credo un’agenzia turistica, o forse anche quel tempo è passato, oggi non so in cosa è mutato ancora.
Avevamo gusti musicali parecchio diversi, voi due eravate più simili, o almeno a me sembrava così. Molto probabilmente era solo da fuori, dal mio punto di vista, che i vostri gusti apparivano simili, era piuttosto una dinamica mia, di sentirmi sempre escluso, magari se fossi stato più attento avrei capito che i vostri gusti musicali non erano davvero così simili.
E di certo dev’essere così, se poi le vostre vite hanno prese strade così diverse, forse il punto di divaricazione inizia proprio in quel negozio di musica di Via Martelli. Andavamo a comprare a vigilia o nei giorni precedenti al Natale dei piccoli pensieri per le nostre famiglie, o fratelli o sorelle, chi li aveva, o nonni e nonne, che ancora c’erano ancora queste figure così belle e dialoganti con tutto un mondo che veniva prima di noi, sarebbe sì da aprire un bel peana sui nonni, ma lasciamo stare, è pur sempre una chat WhatsApp.
E quindi da via Martelli probabilmente passavamo sotto il Duomo e andavamo verso piazza Repubblica e un altro negozio di musica, Ricordi, e di certo alla libreria Edison, e quasi sicuramente alla Feltrinelli di via dei Cerretani e da lì credo che facessimo una curva verso la stazione di S. M. Novella, ed era finito.
Così piccola e breve era la nostra conoscenza del centro di Firenze, io credo: San Marco, il Duomo, la Stazione e poco altro. Completamente avvolto dalla nebbia era l’Oltrarno, completamente fumosa tutta la zona di San Niccolò, niente, nebbia totale come in quei videogame a cui giocavamo per ore, in territori ancora da colonizzare.
Chissà come dovevamo apparire noi tre da fuori, forse molto simili, sebbene noi ci provassimo a differenziarci un po’, nei nostri stili, vestiti, tagli di capelli. Chissà di cosa parlavamo. Mi piacerebbe riascoltarci parlare, per qualche minuto, chissà quale linguaggio, quali riferimenti che solo noi potevamo capire e che forse oggi ci risulterebbe incomprensibile.

Vi penso, vecchi amici, in questa ennesima vigilia di Natale della mia vita, vi penso lontani e ormai quasi completamente dispersi in vite di cui non so proprio niente, penso anche ai vostri genitori di cui ho un ricordo chiarissimo, sebbene sia quel ricordo là, di quelli che loro furono, vent’anni fa, chissà come sono oggi, non so se voglio davvero immaginarlo, non è quello il punto, però ricordo anche loro, li ricordo con affetto sebbene pochissime parole ci siamo scambiati in quegli anni, sempre sullo stipite di una porta socchiusa, le nostre rispettive camerette, o uscendo per le scale di casa, o magari a prendere qualcosa da mangiare in cucina, sempre pochissime parole ci siamo detti, eppure me li ricordo, me li ricordo bene, non dovevano essere poi molto più grandi di come noi siamo oggi, eppure, che differenza.

Vorrei dirvi che non mi manca quel periodo, che non credo fosse più facile o più felice di come è questo nostro presente attuale. Lo era ugualmente, c’erano altri problemi, ma c’erano eccome. Vorrei dirvi che vi ho pensato stamattina, prima di attraversare il centro a vigilia di Natale per entrare a lavoro, in una libreria vicino alla Stazione che all’epoca non esisteva ancora. E che sebbene non sia molto importante, ma io mi ricordo della fermata dell’autobus al Duomo, e dell’autobus con cui poi tornavamo a casa, nel quartiere Le Cure, delle diverse fermate a cui scendevate voi, di quella fermata a cui scendevo io, me lo ricordo, e me lo ricorderò penso, chissà, finche vivo.

Buona vigilia vecchi amici.

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