1. Fantasmi di fantasmi
Le città sono interamente popolate di fantasmi. Sono le persone che non possiamo più incontrare, sono i nostri compagni di scuola, sono i nostri parenti alla lontana, sono le nostre fidanzate precedenti. Anche noi siamo fantasmi per loro e strisciamo lungo i muri per non vederli, scivoliamo sotto ai cornicioni, fingiamo una telefonata, attraversiamo il marciapiede, cambiamo direzione all’ultimo momento. Per questo motivo mio padre e la sua nuova moglie hanno scelto di trasferirsi a Londra e godersi la pensione. Niente più terribili pranzi per le feste comandate, ha detto lui, e mi sono chiesto se quel discorso avesse a che fare con me. Me ne sono fregato e per le vacanze di Pasqua sono andato a trovarli lo stesso, con la mia fidanzata Diana, che loro non sopportano. Sarà perché sovrappeso, o perché napoletana, ma a me non importa e la porto sempre con me.
L’appartamento a Elephante and Castle è confortevole e l’hanno pagato poco, per la pericolosità del quartiere forse, o per il crollo del mercato immobiliare, vai a sapere. Il pranzo pasquale è andato bene, e dopo, uscito un esile raggio di sole, siamo andati a fare due passi nel quartiere tutti e quattro insieme. Vedi, ha detto mio padre, la strada è sgombra, nessuna faccia conosciuta, ma a me non sembrava. I fantasmi c’erano ancora: erano i fantasmi dei fantasmi, era gente che assomigliava a gente che non volevo vedere, così che la dimensione, nel doppio affanno di capire se fossero i veri o i loro replicanti, era se possibile ancor più soffocante.
Le vacanze pasquali a casa di mio padre: il tempo non ha retto, la sera faceva proprio freddo. Diana ha già deciso che il prossimo anno andremo dai suoi parenti a Casandrino. Si mangia meglio e il clima è anche migliore.
2. I vecchi amici
Al lavoro presso le poste private capita di incontrare delle lettere per persone che conosco, o che conoscevo un tempo: un sollecito dell’amministratore per il mio vecchio allenatore di basket, oppure una bolletta dell’amico di mio padre con cui non parla da quindici anni. In questi casi, la cosa peggiore è che ci siano dei problemi nella consegna e io sia costretto a interagire con loro. Non è mai successo, almeno fino a oggi, quando è passata in ufficio a ritirare una raccomandata la madre del mio vecchio amico Elle.
La donna, già anziana all’epoca in cui io e suo figlio eravamo bambini, quando è entrata in ufficio mi è sembrata vecchissima. Portava con sé un bastone da passeggio, per vezzo piuttosto che per una reale utilità. Aveva una faccia ovale e vagamente da topo, pur senza essere una brutta donna. Da giovane non doveva essere stata una gran bellezza, quello no, ma con la vecchiaia il suo viso aveva trovato una certa grazia. Io ho pensato solo: chissà se mi riconoscerà, se ci sarà da affrontare tutto il complicato discorso sul mio fallimento, tutti quei discorsi di circostanza sul tempo che passa e in generale un discorso emozionale sul posto di lavoro, che è la cosa che più odio al mondo. Perché i piani devono restare separati e se si mescolano non ne può uscire proprio nulla di buono.
«Sono qui a ritirare la mia raccomandata», ha detto la madre di Elle, con quella sua voce da maestra delle elementari, buona ma decisa, rivolgendosi verso nessuno in particolare dentro l’ufficio.
Allora la mia collega più giovane si è alzata e le ha detto: «Prego Signora, mi servirebbe un documento» mentre io restavo incerto se continuare a fare finta di nulla o intervenire. Ed è stato allora che mi sono detto: ma perché mai? Quand’è stato che ho iniziato a farmi tutti questi problemi?
E così sono uscito da dietro la mia scrivania e sono andato incontro alla donna.
«Signora Elena,» le ho detto, «si ricorda di me? Sono Simone Lisi, l’amico di suo figlio..»
Lei dopo un momento di sospensione mi ha guardato fisso e ha detto: «Certo che mi ricordo, come potrei dimenticare? Tu uccidesti mio figlio, buttandolo nel lago. E vieni a chiedere se mi ricordo di te?»
I miei colleghi hanno smesso di fare le loro cose e sono rimasti in silenzio. La collega giovane che forse mi ama ha appoggiato la raccomandata della donna sul tavolo e ha parlato: «È qui che deve firmare». Io ho guardato la madre di Elle e ho detto: «Signora ma che dice? Suo figlio si è trasferito a Madrid, ogni tanto ci mandiamo qualche cartolina, ci scambiamo gli auguri per Natale e i compleanni, perché dice che l’avrei ucciso?»
«Ti sbagli, Elle è morto e sepolto. Non mi stupisce che tu l’abbia dimenticato, ma io no, lo ricordo bene. Ti ho riconosciuto immediatamente quando sono entrata nella stanza e ho pensato: chissà se farà finta di niente o verrà qui a dirmi qualcosa. Eccoti, maledetto».
«Signora, non capisco. Io e suo figlio da bambini eravamo buoni amici. Poi ci siamo un po’ persi di vista, è vero, è passato il tempo, ma ogni tanto ci sentiamo ancora. Forse non quest’anno, ma sono sicuro di aver ricevuto suo notizie l’anno scorso».
«Mio figlio è morto. Vedi questa raccomandata che sono venuta a ritirare? Contiene alcuni documenti che possono fare finalmente giustizia per l’uccisione di Elle. In questa lettera, adesso non c’è più motivo di mantenere la riserva, c’è la prova definitiva della tua colpevolezza».
La mia collega giovane ha interrotto la donna e le ha detto: «Signora mi scusi, ma c’è un problema…»
«Che problema?» ha detto lei.
«Vede, la raccomandata non è destinata a lei, ma a Elle Erre. Per ritirarla le servirebbe una delega, altrimenti non potrò darle la lettera».
«Non è possibile» ha detto la madre di Elle, alzando la voce, che tutti nell’ufficio sentissero. «La lettera è per me, e io non ho nessuna delega, mio figlio è morto, come pretende che io abbia una sua delega?»
«Guardi, qui c’è scritto un altro nome, non corrisponde. C’è un regolamento» ha detto la mia collega che forse mi ama, «per ritirare la raccomandata le serve una delega, oppure se la persona è deceduta, come lei dice, un foglio, una documentazione che attesti che lei è chi dice di essere. Mi spiace ma funziona così, esistono delle regole e non le ho decise io e queste regole, che a volte sembrano assurde, garantiscono il corretto funzionamento del sistema. Se ora io le dessi questa lettera metterei a rischio il mio lavoro, lei di certo capisce.»
«Ma la prego signorina» ha piagnucolato la madre di Elle, curvandosi sul bastone e rivolgendosi alla giovane, «questa lettera è davvero molto importante, è l’unica cosa che mi resta di mio figlio: senza questa lettera io sono una donna finita».
Allora sono intervenuto perché mi sentivo inutile. Ho guardato la mia collega e la vecchia e ho detto: «Va bene Vanessa, dai pure la raccomandata alla signora, garantisco io per lei».
Così la madre di Elle ha firmato e ha preso la sua raccomandata, ha firmato sul retro il contrassegno di avvenuta consegna, che io ho provveduto personalmente a spuntare e archiviare. Poi è uscita in silenzio dalla porta a vetri e noi ci siamo rimessi a lavorare. Era quasi l’ora di chiusura e c’era ancora molto da fare.
3. Dettato
Ho chiesto di nuovo ad Angela, la mia collega napoletana, se ha qualche storia di fantasmi da raccontare, perché la data del reading si avvicina e io non ho né tempo né idee.
Lei ha interrotto per un momento il suo battere di mani su tastiera senza sosta e ha detto: Storie di fantasmi? Sì, esatto, tipo quella dell’altra volta, andava benissimo.
Ma quale dici, quella di Eduardo?
Ma no, non quella, quella della sorella morta, quella là, dico sporgendomi dalla scrivania per capire se l’argomento può essere affrontato con leggerezza o se invece no, se a posteriori la cosa ha assunto contorni per cui è meglio non fare ironia.
Ma sono io che faccio la maggior parte della mia stessa preoccupazione, come spesso accade nella vita.
Allora lei ci pensa e poi mi fa: Una storia in effetti ci sarebbe.
Angela.
La mia collega Angela, con cui passo più tempo che con la mia famiglia, che con i miei amici, che con la mia stessa fidanzata focomelica di nome Paola.
La mia collega preferita, napoletana, con due figli, un marito ovviamente Ciro, tutti quanti a dieta, lei con i suoi problemi di scoliosi. È la vita, la scrivania, l’ufficio che ci fa questo effetto, ci rende pingui, ci rende animali da tavolo, ci rende batterici, ci rende osservatori, attenti alle ombre che strisciano ai lati del campo visivo, alle conversazioni telefoniche simultanee che si svolgono in due stanze attigue.
Angela.
Allora, questa cosa è accaduta al cugino di mia madre. Il cugino che si era trasferito a Milano con la moglie. Stavano in un palazzo davanti a una coppia di gente del posto. Un giorno questo loro vicino di casa muore e la donna rimasta sola si trova a dover affrontare le incombenze di ogni giorno. Non sapeva neanche come fare a pagare una bolletta, non conosceva nemmeno il numero del suo conto corrente. Non sapeva fare niente.
Allora il cugino e la moglie andavano di là dal pianerottolo a vedere come stava e a dirle ti serve una mano, ti possiamo aiutare, una qualche commissione, o semplicemente a consolare i suoi pianti. Fu allora che la vedova raccontò che a volte le veniva come da scrivere qualcosa e il suo braccio scriveva cose su un foglio. Il numero a ventisette cifre del conto corrente, ad esempio. Oppure altro: piccole frasi di senso compiuto, con indicazioni su come fare una certa operazione, dove si trovava un certo documento, o il contatore dell’acqua o del gas. Ma non era lei a muovere la mano.
Il cugino emigrante e la moglie pensarono si trattasse solo di una certa confusione per il lutto recente, un modo come un altro di non pensare, di delocalizzare, di spostare un dolore, una sindrome da arto mancante, ma alla rovescia, rilocato e ipostatizzato in parole su carta.
Ma non era questo. La donna era come trascinata via da sé e quel braccio furioso, quello scrivere testi come in una visione o guidati da qualcuno altro, era il fantasma del marito, che continuò a muovere la mano della moglie finché rimasero questioni irrisolte, bollette, fideiussioni, bollettini, fogli da firmare. E poi, così come era comparso, scomparve per sempre.
Angela conclude il racconto didascalica, continuando a inserire dati dentro al computer, senza interrompere il movimento delle mani, senza distogliere lo sguardo dallo schermo e io annuisco e commento, ma piano, senza smettere di tasteggiare e senza distogliere gli occhi dallo schermo. Anche noi siamo presi da un fantasma, che è il lavoro di oggi, da queste ore al computer, da queste scrivanie e sedie che non ricordano la forma dei nostri corpi, ma noi sì, che le ricordiamo.
Poi una volta tornato a casa accendo di nuovo il computer e scrivo questo testo. C’è ancora un fantasma che volteggia sopra di me. Guardo quelle che sembrano essere le mie mani, si muovono da sole sulla tastiera, scrivono qualcosa ma io non so cos’è. È un finale didascalico, come forse piacerebbe ad Angela.