Fogli sparsi, San Frediano (2013-2015)

Tre giorni con Laura Fabiani

Ho conosciuto Laura Fabiani il 24 Giugno del 2015, lo ricordo perché era il compleanno del mio coinquilino Sabino.

Avevamo organizzato una festa a casa, in questa casa che presto lasceremo. Laura Fabiani è arrivata e indossava un vestito nero e non parlava una parola di italiano. Abbiamo comunicato in spagnolo: Encantado Laura, me llamo Simón, como el Gazpacho.

Tutti quanti erano innamorati di Laura Fabiani, lei entrava nelle stanze e tutti si innamoravano.

Ho chiesto a Marcello, il suo impresario e schiavo, se gli andava di suonarcene una e loro ne hanno fatte tre o quattro in salotto per il compleanno di Sabino (lei stava in ginocchio a cantare con quella sua voce da uccellino, era forse una critica?). Marcello, l’impresario schiavo di lei, suonava la chitarra e faceva i cori. Dan, che un tempo era stato musicista famoso, ora era quello più schiavo di tutti. Stava gettato sul divano e nemmeno faceva schioccare le dita per tenere il tempo, con la sua camicia aperta, stava là buttato su un divano a fumare sigarette senza filtro, la camicia aperta e occhi solo per Laura Fabiani: ma lei chi avrebbe scelto di amare? Magari si sarebbe innamorata di me, pensavo. O del mio coinquilino irreversibilmente trentenne Sabino.

Laura Fabiani, Marcello e Dan Belozoglu sono rimasti a casa (quella casa che lasceremo a fine mese, ma che lasciare sta diventando un dramma: la caparra, la lavastoviglie rotta, la mensilità d’agosto da pagare o non pagare) sono rimasti a casa un fine settimana durante il quale abbiamo provato a non innamorarci di Laura Fabiani e della sua musica.

Poi una sera sono riuscito finalmente ad avvicinarla e a parlarci da solo, tutti intorno ci osservavano, Dan mi mandava dei chiarissimi messaggi con lo sguardo: ti tengo d’occhio, bada bene, e perfino la mia fidanzata Filomena di solito indifferente alle cose del mondo mi guardava come a dire: io e te siamo uguali, dopo sarà il mio turno per far innamorare Laura Fabiani. Solamente Marcello era con la testa altrove, a un vecchio amore del passato o forse sapeva che era impossibile che io la facessi innamorare.

Siamo andati a piedi a quel bar lungo il fiume dove avrebbero fatto un concerto e io e Laura abbiamo finalmente parlato, sempre in spagnolo. Lei mi ha detto di un ruolo per il cinema che avrebbe interpretato nell’inverno successivo, in cui avrebbe recitato la parte di una prostituta fantasma dell’Ottocento, e me ne ha parlato perché io le avevo raccontato una qualche storia sui fantasmi. Avevo ritirato fuori un argomento su cui mi sentivo sicuro per cercare di impressionarla, ma era stata una pessima idea, me ne rendevo conto mentre lo facevo.

Camminando con gli occhi di tutti puntati addosso, riutilizzavo un argomento già usato per tentare di impressionarla e mi rendevo conto che avevo perso la mia occasione.

Ad un bar lungo il fiume con davanti la città illuminata aspettavamo che fosse il loro turno per iniziare il concerto, partiva in loop quella canzone La vie en rose e Laura Fabiani diceva: sembra la Francia. Le lampadine a incandescenza le incorniciavano il viso.

Che la mattina dopo all’alba sarebbero ripartiti era al tempo stesso una pena e un sollievo.

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In fuga dalla bocciofila

Dheepan – Una nuova vita | Cose che sarebbe meglio non fare in dopo sbronza

Partendo dal presupposto che in dopo sbronza non è piacevole fare nessuna cosa, ci sarebbe da aggiungere che alcune sono particolarmente da s-preferire.

Penso ad esempio all’essere chiamati al telefono. Io odio il telefono sempre, ogni giorno della mia vita e dell’anno, ma sarebbe assolutamente da non accendere in quelle giornate specifiche, quelle in cui la sera prima si è bevuto del gin cantando i tormentoni cingalesi.

Se però si dovesse decidere di rispondere al telefono e fosse per caso qualcuno che non ha sbagliato numero, ci sarebbe da augurarsi che non fosse la nostra presunta moglie, ma di fatto perfetta sconosciuta, con cui siamo scappati da un paese in cui c’è la guerra civile e in cui tutta la nostra famiglia è stata uccisa. Questa telefonata risulterebbe oltre modo spiacevole, in dopo sbronza, e la cosa potrebbe essere implementata ancora se lei fosse in ostaggio di un qualche spacciatore francese mezzo morto all’interno di un palazzo circondato da balordi drogati.

Così si tratterà di rimettere un po’ i cocci insieme, senza passare dal divano, vedere un po’ se si rimedia una mezza mannaia e poi, sempre con un mal di testa lancinante e un viso gonfio come quello di un calciante di calcio-storico fiorentino dopo una domenica di fine giugno, si tratterà allora di fare mente locale a dove sono le chiavi e se per caso c’è qualcosa di cui ci dovremmo vergognare riguardo il nostro comportamento della sera prima, ma tutto questo farlo ve-lo-cis-si-ma-men-te perché nostra moglie (non veramente nostra) potrebbe essere molto arrabbiata con noi. Anche per dei motivi non chiarificati. Detto questo la cosa migliore, in quelle mattine, è che non sia lei a telefonarci, ma uno che ha sbagliato o che vorrebbe venderci un nuovo contratto telefonico, ma puta caso fosse lei è importante, questo voglio dire, che non si sia colti da uno scoppio d’ira irrefrenabile che ci riporta al nostro passato di guerriglieri tigri tamil proprio in quella mattinata in cui, è vero, si sarebbe stati volentieri a rigirarci nel letto.

Detto questo è possibile che vada proprio così.

(L’ultimo film di Audiard è davvero molto bello. C’è una prima parte abbondante che è quasi perfetta (non so se il film sia al livello de Il Profeta, ma perché poi paragonare le cose?). Se poi qualcuno mi volesse far notare che il regista francese Audriard rappresenta una Francia come un paese dove vige o quasi lo stato di natura (seppur tutti trovino lavoro e una casa), una Francia composta da zone franche dove la legalità è soppressa, di contro a  una rappresentazione (seppur brevissima) di un’Inghilterra isola felice, dove sembra esserci il sole e i cortili con l’erbetta, ecco, io non lo so. Non credo francamente che sia così, né che sia così semplice, sennò la metà dei miei coetanei vivrebbero già a Londra (è così, ora che ci penso). Comunque in conclusione quello che vorrei dire (confessare) è che veramente ho pianto tutto il tempo come un deficiente ripetendo: un film doveroso, un film doveroso, la dignità del lavoro, la dignità del lavoro e altre frasi così.

In conclusione. Se vi capita andate a vederlo, me ne assumo la responsabilità io, anche per i vostri commenti imbarazzanti).

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In fuga dalla bocciofila, Racconti

La prima luce | Film che non ho finito di vedere al cinema

Uno. Grindhouse

Un tempo aveva un’amante. Si incontravano a casa di un amico, o nei dintorni della casa dell’amico che era un po’ fuori città e i rischi di incontrare gente conosciuta erano minimi. Si incontravano una volta a settimana o anche meno. Lui là aveva un qualche lavoretto saltuario per cui che fosse da quelle parti non stupiva nessuno. Lei lo raggiungeva con la sua panda bordò, perché era una studentessa e aveva molto tempo libero. I rispettivi compagni, chissà se sapevano qualcosa, o no, ma magari qualcosa potevano sospettare, comunque quella situazione era a tratti bella e a tratti faticosa. Molto faticosa sopratutto mentalmente, cosa ho detto a chi, che registro usare in un caso e nell’altro, frasi ripetute più volte. Perché dopo un po’ che durava la storia clandestina anche quella iniziava a normalizzarsi e si entrava in dinamiche di abitudine, come dall’altro lato, nella relazione solare. Poi una sera lei insistette per andare al cinema, a vedere Grindhouse, in un cinema del centro, che oggi non esiste nemmeno più. Era mercoledì sera e lui lo sapeva che non era una buona idea accettare, ma accettò. Perché era stufo di quella situazione, di segreti, di bugie. E al cinema preciso nella poltrona dietro la loro c’era seduto il miglior amico della ragazza, di quella ufficiale, ecco come fu. Lui a metà film si alzò e andò via perché era certo di esser stato riconosciuto e perché il film comunque gli sembrava un po’ una cacata.

Due. Il muro

All’epoca loro andavano con una tessera amici del cinema, al cinema quasi tre volte alla settimana. Avevano diritto a sconti assurdi con quella tessera, non pagavano quasi niente, una tessera che pagavi all’inizio dell’anno ottanta euro e vedevi più di cento film, se avevi voglia. Ma dopo un primo anno molto intenso quelli dell’organizzazione alzarono il prezzo delle tessere, di pochissimo, ma lo fecero, così che loro decisero che malgrado fosse giusto (il primo anno era stato quasi un errore quel prezzo, era sotto gli occhi di tutti) loro decisero di comprarne una solamente, di tessera, e poi rifarne altre tre o quattro, con la stampante e i primi programmi di grafica che giravano. Le carte dei finti amici del cinema venivano stampate su un cartoncino identico all’originale, e nessuno si accorse mai di niente. Eppure quel secondo anno i film al cinema sembrarono meno belli, nella loro gratuità. Se avessero dovuto ricordarne uno solo dei film di quel secondo anno, forse a loro sarebbe venuto in mente quel documentario Il muro, o qualcosa di simile, sul muro a Gerusalemme, erano gli anni dell’edificazione. A quella proiezione uno di loro si addormentò del tutto e lo abbandonarono là per scherzo, mentre la sala rimaneva vuota.

Tre. La prima luce

Di fatto quella sera lei voleva solo uscire. Aveva scritto a lui un messaggio, poi telefonato perché lui non rispondeva. Erano andati in un ristorante di pesce, dove lei era stata varie volte con la madre e il nuovo compagno di lei. Aveva sempre pagato lui, che le donne lo vedessero, e in particolare la figlia. Non sua. Si mangiava benino, non eccezionale, ma il pesce era sempre freschissimo. Così aveva commentato la madre. Quella sera aveva chiamato il ragazzo e detto: cena e poi cinema? Va bene. Lui in verità un mezzo poveraccio, aveva ordinato tutti piatti da povero, atti a negare questa sua condizione di inferiorità. Ostriche aragoste astici. Lei capiva la psicologia di lui, perché lo faceva anche lei, a quelle cene con il nuovo marito della madre. Si erano abbuffati, avevano mangiato da stare male, e bevuto. Tanto il cinema stava là vicino. La prima luce, con Scamarcio. E già le cose si erano messe male, una prima tappa al bagno, poi mentre il film iniziava lei si era resa conto che si sarebbe cacata o vomitata addosso. Una delle due. Se ne era resa conto con la lucidità di certe consapevolezza, aveva detto, devo andare via, ho mal di pancia, ma tu resta, abbiamo pagato per il cinema e per la cena, ti chiamo domani. Il film del resto, avrebbe scritto a lui il giorno seguente, per quel poco che ho visto, rasentava l’inguardabile.

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In fuga dalla bocciofila

Due parole due sul 2nd Florence Short Film Festival

Questa discussione non è mai avvenuta. Non si è svolta nel salotto di casa mia (salotto nel senso letterale del termine, non letterario). Con questo discorsetto non si vuole risolvere una questione, ma semmai sollevarla.

È un discorso ampio: su chi dovrebbe fare le cose, su chi non dovrebbe, su cosa legittima qualcuno a fare qualcosa, se uno si legittima da solo, oppure se sono altri, o delle competenza specifiche.

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Si parla del Florence Short Film Festival (da ora in avanti FSFF) che si è tenuto al cinema Odeon di Firenze.

Si parla in verità anche di me, di noi della Bocciofila, del nostro scrivere di cinema, del nostro scrivere in generale.

Questo dialogo che non è avvenuto si è svolto tra me (SL) e un curatore di eventi culturali ipotetico (da ora in acanti CDEC).

SL: Uè, lo sai dov’ero ieri? Sono stato al FSFF.

CdEC: Che cacata, ti disapprovo

SL: E perché mai, di grazia?

CDEC: Perché questi sono dei dilettanti e gettano merda sulla categoria. È come se io fossi appassionato di massaggi e mi mettessi a fare massaggi a giro. O di medicina e cominciassi a curare la gente. A caso.

SL: Vabbè dai, il cinema era pienissimo.

CDEC: E sticazzi.

SL: Cioè voglio dire, te devi accettare che il tuo livello culturale fa di te una minoranza. Hai una vocazione al pop, ma sei una minoranza, con le tue competenze. Il film cecoslovacco coi sottotitoli in tedesco, non ti riempie il tuo bel cinema.

CDEC: Io li ho riempiti eccome. Comunque se invito tutti i miei contatti, se faccio tipo saggio scolastico di fine anno, verranno tutte le nonne a vedere i nipoti, ti pare? Un bel cinema pieno di nonne.

SL: Invece c’erano parecchi giovani.

CDEC: Perdi il punto, c’erano film local e la gente ha risposto. Ma com’erano sti film?

SL: Alcuni erano imbarazzanti. Alcuni, la minoranza assoluta, erano buoni. Quelli che hanno vinto erano buoni. Io credo. C’era una distanza siderale tra quei due o tre buoni e gli altri. Quattro. E comunque a volte anche ai tuoi festival fighi mi son fatto due coglioni così, ho visto roba inguardabile.

CDEC: Poi un’altra cosa che non va, di tutta questa storia, è che loro sono come i cinesi. Creano concorrenza sleale. Se te fai una cosa male e gratis, mentre io la faccio bene e mi faccio pagare secondo te a chi si rivolgerà chi deve fare un festival?

SL: Boh, senti, non ti ruberanno il lavoro, davvero non c’è rischio, se sono dei dilettanti. Non si improvvisa un festival. O sì? La selezione era quella che era, ma del resto queste cose sono quasi una faccenda di gusto. Era un po’ arrabattato, ti do ragione. Ma il cinema era pieno.

CDEC: Si fotta il cinema pieno. Tutto il cinema si fotta. Quanti c’erano alla fine di quelli che c’erano all’inizio?

SL: La metà.

CDEC: Si fotta anche la metà. Fanculo merde.

SL: Eddai, esageri. Non è mica qualcosa che dice qualcosa di loro, gli organizzatori, o dei film selezionati nello specifico, semmai dell’Italia. Della situazione italiana, della situazione culturale. Comunque alcuni dei corti erano buoni! Quei due che hanno vinto, erano ok.

CDEC: Si fottano anche quelli buoni, con gli organizzatori.

SL: Boh. Ok. Pensavamo con Giova, il mio compare della Bocciofila, che sarebbe interessante vedere quei settanta non selezionati, gli esclusi, ecco un bel festival con i settanta scartati, sarebbe da proporre. Forse riempiremmo anche noi i cinema, ma forse non è quello che vogliamo. Cinema vuoti. Deserti. Noi odiamo quasi tutti.

CDEC: Non capisci un cazzo. Puoi scordarti gli accrediti per i festival fighi che dirigo io. Te e quegli sfigati della Bocciofila.

SL: Eddai non fare così, lo sai che scrivere di cinema è la mia grande passione. Lo faccio a casa da mia. Ah ah.

CDEC: …

SL: Comunque che la situazione non sia buona, beh ti do ragione. Ma lo sai c’erano anche le istituzioni?

CDEC: Vuoi che ti dica cosa ne penso delle istituzioni, cosa dovrebbero fare?

SL: Fottersi?

CDEC: Ecco.

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In fuga dalla bocciofila

Sangue del mio sangue | La gita a Bobbio

Ho incontrato dentro al cinema semi deserto di mercoledì la madre del mio vecchio amico Lorenzo. Non ci vedevamo da qualche mese, dopo anni di oblio perfetto, quindi in realtà ci siamo salutati con affetto, ma nemmeno troppo. C’era anche il padre di Lorenzo, che ha detto: «Vedi là, che a veder Bellocchio sembra quasi di aver una proiezione casalinga, privata».

Infatti la sala era semi vuota, tutti nella maxi sala sotto o sopra (che l’orientamento dentro i cinema mi sfugge sempre) erano andati a vedere morir la gente in montagna, sull’Everest.

Noi invece là sopra (o sotto) a guardare questo ennesimo Bellocchio per chissà quale forma di fedeltà, e a chi. Se a un’ideologia, se a dei nostri noi del passato. La madre di Lorenzo prima che il film iniziasse mi ha detto:

«Hai letto che il film di Bellocchio è ambientato a Bobbio? Ti ricordi quella nostra unica gita insieme?» Io non mi ricordavo, pensavo che Bobbio fosse un filosofo italiano, neanche mi ricordavo di una località.

Ho negato e lei mi ha detto, «Ma sì dai, quell’unico viaggio che si fece, anni fa, te e e Lorenzo eravate in seconda o terza media, in quel posto tra la Liguria e l’Emilia», e io ho ricordato di un posto con dei fiumi: era Bobbio. «Quattro ore per andarci, una strada al limite», ha ricordato il padre di Lorenzo. E poi non c’era altro da dire. Abbiamo aspettato che iniziasse il film, loro davanti io dietro di loro e il figlio Lorenzo lontanissimo, nella città straniera con il suo lavoro e la sua nuova vita.

A uscita sala abbiamo commentato il film, con i genitori di Lorenzo. Io ero uscito quasi subito, per pensare alle mie cose, quando ancora scorrevano i titoli di coda, mentre loro due solo alla fine della proiezione. Mi ero messo fuori dal cinema a slegare la bici, e poi anche loro erano usciti e mi avevano detto che il film l’avevano trovato disorganico (cosa avranno voluto dire) un po’ confuso, e allora io ho detto la mia, tutto d’un fiato.

«Che con gli ultimi film Bellocchio parla sempre della stessa cosa, ovvero di lui stesso regista che faceva film e ora ne fa un altro ulteriore. Un film come metafora di una donna bellissima, con un naso importante, forse posseduta dal diavolo, forse da un dio, a rappresentare il film stesso, i film che ha girato in passato. Così belli che non sa nemmeno lui come ha fatto. Film e fare film legati tra loro, come le cose alla fabbricazione delle stesse. Film che dopo un’ora si interrompe, svelandone il meta livello, il fare e il presente impossibile, la lontananza del regista da quello che vuol dire, dal suo stesso film».

La madre e il padre di Lorenzo mi guardavano scocciati «Mah… Sì, sarà come dici, ma non è che sei chiarissimo».

«E poi c’è tutta la faccenda “sangue del mio sangue”», ho continuato, «la faccenda che Bellocchio fa lavorare tutta la famiglia nei suoi film, ormai la storia è un discorso privato o quasi, un linguaggio privato, che però si nega, che nemmeno esiste, con Wittgenstein».

«Ma che cosa stai dicendo?», mi ha detto la madre di Lorenzo.

«Cosa ti sei fumato?» ha detto Saverio.

Ma io ero serio, «Ma sì, non capite, il messaggio politico si è esaurito, anche il suo modo di fare film di un tempo non c’è più, la donna con il naso importante è stata murata viva, è là sotto che riemerge nuda e incomprensibile, identica, dopo anni, ma tutt’intorno sono morti: Bellocchio è finito».

Loro mi hanno guardato come si guarderebbe un figlio demente lontano e perduto e mi hanno detto: «Eppure ti ricordi in quella gita a Bobbio, eri così spigliato, così intelligente», ecco cosa pensavano slegando a loro volta le bici, mettendo le loro sciarpe rosse intorno ai loro colli, «Eri un bambino così bravo».

«E scrivi ancora?, mi hanno chiesto proprio un attimo prima di svoltare a una curva.

«Sì», ho urlato io, ma non credo che mi abbiano sentito.

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In fuga dalla bocciofila

Fuochi d’artificio in pieno giorno | La scomparsa di Effe

Dopo il cinema abbiamo avuto terribilmente voglia di andare a mangiare qualcosa e siamo andati al cinese.

Siamo andati a quello in Via Sant’Antonino dove ci lavora Effe. O meglio, dove prende una percentuale per la gente che gli riesce di portarci. Se ne sta là in un angolo a fare finta di nulla, con una birra, seduto su un gradino, come se aspettasse qualcuno, come se non avesse nient’altro di meglio da fare e se passa qualche gruppo di turisti lui li abborda e li porta a quel cinese. Gli danno qualcosa, se una birra o dei soldi o del cibo, io questo non lo so.
Comunque c’è da dire che si mangia benino, e si spende poco. Va bene, diciamo che si mangia ok.

Si mangia di merda, comunque si spende ben poco.

Dopo il cinema ci siamo detti, andiamo al cinese di Effe?
Solo perché era il più vicino e nel film che avevamo visto non facevano che mangiare cose cinesi che sembravano squisite.
Siamo andati.
Eravamo due coppie e il mio coinquilino messicano. Eravamo cinque in totale. Effe non lo abbiamo visto, ma di certo ci avrebbe preso qualcosa, perché là al cinese lo sapevano che eravamo amici suoi. Eravamo come a dire merce sua. Abbiamo mangiato male come al solito, abbiamo scherzato sul fatto che avessero messo la salsa agrodolce sul pavimento del bagno. Sembrava di scivolare, come sul ghiaccio, ma era solo salsa agrodolce.
Poi giorni dopo abbiamo saputo che Effe, beh, che non c’era più. Abbiamo seguito tutta la faccenda sui giornali, perché comunque nel quartiere lui era conosciuto, era un personaggio. Hanno scritto quei trafiletti in basso, nella parte di cronaca locale, di come Effe era sparito, se qualcuno ne sapeva niente di contattare e un numero di telefono, pure un comitato e una pagina facebook. Ci siamo iscritti alla pagina facebook.
Abbiamo ripensato intensamente a quella sera dopo il cinema, ne abbiamo parlato tra di noi che eravamo là quella sera, se ci fosse qualcosa di strano, di diverso rispetto al solito. Se con un fare collaborativo ci avessero offerto la grappa cinese, ma era stato tutto come sempre: ci avevano chiesto se la volevamo la grappa, ma mica per offrircela gratuitamente, solo per sapere e poi metterla sul conto. Noi avevamo scherzato su quella cosa: eddai, veniamo qui sempre, potreste anche offrircela una grappa, e il cameriere dietro al banco con i suoi occhiali da impiegato postale, alla fine ce ne aveva portata una. Una grappa in cinque. Tutto da programma.
Effe non c’è più, questo è quanto, girano strane voci, dicono che avrebbe litigato con quelli del ristorante, che ci sono storie di tradimenti, di donne, di omosessuali cinesi gay, non si sa bene, girano storie contraddittorie. Fatto sta che nessuno riesce a sapere niente del vecchio Effe, quell’ammasso di birre seduto sul gradino, quel suo sorriso da persona fondamentalmente buona, ma dopo molti giri di grappa al bambù e i molti turisti e amici e parenti portati tutti a mangiare sempre e solo ed esclusivamente a quel ristorante cinese lì, ecco solo dopo gli appare il sorriso buono.

C’è chi dice che è solo la stagione invernale alle porte, che già altre volte Effe sia sparito per lunghi periodi, nelle regioni meridionali, dove il clima è migliore. C’è chi dice, ma questa voce è la più scontata, che Effe ce lo siamo già bello e mangiato in queste sere condito in salsa agrodolce.

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Non essere cattivo | Snob

C’è tutto un mondo segreto che regola le nostre azioni, il nostro fare o non fare qualcosa, il nostro muoverci silenziosi sotto notti piovose o nebbiose, attraversare ponti, scegliere il film che andremo a vedere al cinema la domenica pomeriggio allo spettacolo delle sette.

C’è un mondo segreto che noi non conosciamo e regola il nostro agire, un mondo che sono i nostri pregiudizi, i nostri occhiali, i nostri occhi, per cui questa domenica ci recheremo stancamente o meno con il cuore triste o lieto al nostro cinema affollato o deserto della domenica.

Questo mondo segreto, che poi così segreto non è, afferma che il nostro desiderio non sia nostro, ma determinato da qualcosa, da qualcun altro, dal nostro modello di riferimento, da un fratello maggiore, da un padre che non ci riconosce, dagli spot pubblicitari, da quello che abbiamo letto sulla domenica del sole alla fermata degli autobus, sulla tranvia andando a lavoro, o magari su mymovie, assolutamente sì, assolutamente no, no, sì.

Così oggi se ti trovi a scegliere un film da vedere al cinema, perché piove, la tua scelta non sarà libera. Se stai leggendo queste righe probabilmente il film che dovresti vedere in questo week end o in questi giorni, è Non essere cattivo e ti spiego subito il motivo.

Un regista di culto: tre film in tutta in tutta la sua carriera (che cazzo ha fatto per tutto il resto del tempo?).

Su wikipedia una pagina per lui, ma di solo sette righe.

Morto (ma come?).

Un cognome (vero?) figo.

Un film dove c’è droga, gli anni 90, musica anni 90, giubbotti jeans con dentro il pelo di cane, bomber alpha industries dentro arancione, giubbotti con scritto dietro JORDAN.

Recensione su Prismo.

Recensione di Francesco Pecoraro su facebook.

Limoncello, morti ammazzati, video poker.

Ma la verità è che io Non essere cattivo l’ho già visto, il giorno che è uscito. Perché sono snob, perché il mio agire non è mio, ma subisce condizionamenti, come per tutti (Il film a mio parere è bello e ben girato, a tratti commovente ma il finale non funziona per nulla. Gli ultimi venti minuti io non credo vadano affatto bene, ma di solito io non li capisco i finali, è vero).

Fatto sta che oggi piove e allora niente, tornerò al cinema, andrò a vedere quel noir cinese che ha vinto a Berlino l’anno scorso, Fuochi d’artificio in pieno giorno, o come hanno scelto di tradurlo. Perché sono un cazzo di snob, ecco tutto. Lo so che anche il mio agire è regolato da preconcetti, come per tutti quanti penso solo che il mio sia un po’ meglio degli altri.

Prima domenica di pioggia, i cinema si apprestano ad accoglierci.

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In fuga dalla bocciofila

I film dell’estate | Favoloso ultimo bacio in Sud America

L’estate è da sempre il mio mese preferito in quanto mese autenticamente triste.

Sarà che d’estate la gente sparisce.
Non è che la gente se ne sia andata davvero in vacanza, ma solo il fatto che potrebbeessere andata via, fuori città o dovunque, fa sì che tutti si sentano finalmente sgravati dal peso di chiamarsi.

Ma dovevo parlare di film, quindi vediamo un po’.

* * *

L’ultimo bacio | Cresci Matilde

L’ultimo bacio ovvero avere ventinove anni nel duemila e uno (2001).

Un film che se mai decidessimo di riguardare potrebbe al massimo farci sorridere per come tutto sia cambiato.

Stefano Accorsi ha ventinove anni (29), un lavoro, una ragazza che sta per avere un figlio e si è invaghito di una tipa a una festa. Così grosso modo il film sarà tutto sul senso di colpa che ne deriverebbe e ne deriva, sulle responsabilità e queste puttanate.

A una cena con mia cugina Lucrezia che non vedo mai, lei ventitreenne (23) che di recente ha avuto una figlia, io (30 anni) dicevo alla mia altra cugina Matilde di diciassette (17) che ero esattamente identico a lei, che non c’era motivo guardasse in quel modo la mia fidanzata mulatta sua coetanea e la mia camicia hawaiana e le garantivo che in definitiva io non ero un adulto.

La mia cuginetta Matilde mi diceva: Invece sì, prenditi le tue responsabilità, adesso sei zio. No, ti sbagli, tu sei zia, io sono semmai il bis-zio. Ma Matilde, le dicevo, leggiti piuttosto I destini generali, di Guido Mazzoni (Ed. Laterza, Solaris) forse dove state voi in campagna non vi siete accorti, ma c’è stata una mutazione antropologica, su Matilde, deciditi a crescere, il 2001 è bello e che sepolto e i fratelli Muccino non si parlano più come minimo da dieci anni. Cresci Matilde.

* * *


C’era una volta in America | Propositi per l’anno nuovo

D’estate è tutto un fare liste e guardarci negli occhioni blu e dire: che progetti hai? Cercare un lavoro nuovo, emigrare in Nuova Zelanda, che altro? Il mio progetto, realizzavo in cima al monte Gerbison mentre il maestro trombettista Nello Salza eseguiva con la sua ensamble (al sax Simone Salza e alla batteria Franck Medina) un mix di canzoni western e classici italiani e la nebbia avvolgeva il monte e l’enorme croce costruita con tubolari, è stato allora che ho realizzato che il mio unico proposito per l’anno nuovo era guardare C’era una volta in America, nient’altro.

* * *

Il favoloso mondo di Amélie | Annus Horribilis

Amélie, quel film del 2001 ha fatto più danni della grandine, provavo a spiegare a Diana un giorno che andavamo a lanciar sassi sul canale St. Martin. Lei mi diceva, inserendo le mani dentro un sacco pieno di fagioli di un alimentari cinese, “più danni della grandine”? Non ti sembra di esagerare? E non mi tirare fuori il discorso di giovani ragazze anti-conformiste tutte uguali, pensi davvero che la colpa sia da imputare a un film e non piuttosto a una mutazione antropologica?

Hai ragione come al solito, ho detto a Diana  e le ho raccontato davanti a una creme brulèe di quando vidi il film al cinema, a quel cinema in Via de’ Cerretani a Firenze che oggi nemmeno esiste più e dove adesso andiamo a farci le fototessere alla macchinetta anni ’70 riattivata. Era inverno mi ricordo quel giorno e una volta fuori dal cinema incontrammo quel mezzo barbone che viveva nel giardino davanti casa e lui mostrandoci il membro ci disse che il film era inguardabile perché mancava d’eros, ma noi allora non capimmo, scandalizzati dalla vista delle sue pudenda. A posteriori aveva ragione lui, il vecchio pervertito, e fu probabilmente solo grazie alle sue molestie che noi ci salvammo, o almeno in parte, dalla maledizione di Amélie.

* * *

Benvenuti al Sud | Cecità

Esiste un paese che è il paese dove hanno girato Benvenuti al Sud e è un posto rovinato, tipo tutti gli appartamenti di Barcellona dopo che avevano giratoL’appartamento spagnolo. Che ci sarebbero voluti dieci anni per bonificarli.

Oggi il paese di Benvenuti al Sud gode il suo momento di fama e relativa invisibilità. Sono stato a visitarlo nell’estate del 2015 e c’erano queste persone che non vedevano niente di quello che avevano davanti ma solo il posto dove era stato girato il film. Non era possibile vedere una piazza, ma solo la famosa piazza del film con l’ufficio postale di Claudio Bisio, e che nella realtà non esiste nemmeno (al suo posto c’è un bar). Siamo andati a un’altra piazza dove non c’era nessuno perché non esistendo nel film non esisteva nemmeno nella realtà e là abbiamo preso fiato. Io ho descritto ai miei compagni di viaggio, la mia fidanzata Maria Rosa e il nevrastenico Cobbellis, che l’immagine che più mi aveva colpito visitando il paese di Benvenuti al Sud era quella di un bambino che giocava con un bastone da selfie e che mi aveva richiamato alla mente certe foto di bambini africani che giocano con fucili mitragliatori.

Neanche tu riesci a vedere nulla, mi ha detto Maria Rosa e dopo ha lanciato uno dei suoi sguardi verso il Cobbellis.

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In fuga dalla bocciofila

1992 | Ancora dalla parte di Stefano Accorsi

Sai perché la famiglia naturale consiste in un padre una madre un figlio e una figlia?»

«Perché?»

«Il padre e la madre lasciali perdere, problemi loro. Pensa ai figli. Il maschio a far continuare la stirpe, la figlia a garantire un matrimonio di convenienza».

«Ah sì?».

«A questo. Tuttavia negli anni novanta questo modello, entrato in auge dopo il crollo della mortalità infantile, è nuovamente entrato in crisi, e si è avuto il boom dei figli unici. E sai perché?».

«Dimmelo te».

«Perché c’era ottimismo. Non solo nella prospettiva di una vita lunga, ma che tutto si sarebbe messo per il meglio. Che un figlio solo era sufficiente. Per il nome e per il matrimonio. Il fallimento non era contemplato».

«E oggi?».

«Oggi niente. Nessun figlia più. E’ per questo che ci siamo inventati la stronzata delle poesie».

«Che poesie?»

«Quelle sui biscotti».

«Ah, è per quello?»

«Sì, abbiamo detto: o svecchiamo il logo o ci mettiamo le poesie. Lui ha detto: Il logo non si tocca. Così, eccoti le poesie».

«Lui chi?»

«Banderas».

«Le poesie, mi dicevi, le scrivi te?»

«Sì, le scrivevo».

«Cioè?»

«Oggi non ho più idee. Se ci hai fatto caso giù all’ufficio adesivi hanno iniziato a mettere sopra le mie poesie delle finte etichette, tipo promozioni, 10% in omaggio, oppure trova la gallina e vinci la bici elettrica. Comunque sia bollini promozionali che premi sono stronzate, con il solo scopo di eclissare le mie poesie. Quell’idea è stata un boomerang. E va sempre peggio. Le ultime che ho scritto sono terribili. Non sono nemmeno più poesie, sono degli haiku».

«Chi?»

«Haiku. Le poesie giapponesi. Senti, ascolta le ultime».

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Nastrine

Morbide, fatte in casa da nonna

forse

. . .

Ritornello

dolce scivolare nell’abitudine

veloce o galleggia nella tazza

. . .

Tegolino

forse una ventata

e sei andato

.

«È roba inservibile, lo capisci anche tu, che in questo posto porti solo i caffè».

«Beh, è vero fanno cagare».

«Sì, ma ora vattene. Portami un macchiatone, senza schiuma, e sparisci».

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In fuga dalla bocciofila

Mia madre | Il razzismo

Nella sala semivuota del cinema ci sarà spazio sufficiente per trovarmi accanto un tipo psicologico che svelerà la mia natura intollerante: sono i mangiatori di pop-corn e patatine, tante ch’io non avrei creduto potesse uno comprarne a un bar senza provare almeno un po’ di vergogna.

Sospetterò che quelle scorte se le siano portate da casa, infilate in una borsa per non farsi sgamare all’ingresso, il formato MAXI, da festa delle medie, che se davvero le vendessero e le avessero acquistate al bar del cinema ci avrebbero investito almeno un dieci euro.

E non hai pietà tu di me?

Cominceranno a mangiarle soltanto con l’inizio dei titoli di testa, non prima, non durante gli inutili trailer di film primaverili/estivi in cui la programmazione italiana si inabisserà ancor più sotto la media. Attenderanno i titoli di testa per iniziare: scritte bianche su sfondo nero e musica dell’immancabile Arrvo Part, che ormai non ne possiamo più fare a meno. Attenderanno che cali il silenzio in sala, che il film inizi, per iniziare la prima fase della digestione.

Così mangeranno i loro pop-corn e patatine, per i primi venti minuti, forse venticinque minuti del film Mia madre, io sarò ogni volta che masticano e mordono e deglutiscono in uno stato di crescente fastidio e sentirò bruciare dentro di me un odio fortissimo direi quasi razziale che non provo letteralmente mai nella vita di tutti i giorni.

Nel cinema semi vuoto: ci sarà spazio sufficiente perché i mangiatori di pop-corn portate da casa, si siedano vicino a me. Sono loro che si sono seduti in quei posti, io ero arrivato prima, e avrebbero potuto andare in cima o in fondo sapendo di dover cenare, avendo in programma un picnic più che un cinema.

Per un attimo riuscirò a rilassarmi, a smettere di pensare, quando loro finiranno il secchiello, ma è allora che comincerò a preoccuparmi che senza il mangiare essi saranno ancora peggio di come già sono, perché da gente così ci si può aspettare qualsiasi cosa. Metterò una mano a creare un cono intorno agli occhi per non vederli neanche con la mia visione periferica, e sarà solo allora che riuscirò a concentrarmi sul film.

Una volta uscito dal cinema mi rimarrà l’impressione che la prima parte del film di Moretti non funziona per niente, mentre nella seconda qualcosa scatta. Ma la mia lettura del film, adesso lo capisco, è solo lo specchio della fase alimentare dei miei nemici.

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