Scrittori Precari, Spagna (2009-2011)

Tornando a casa, o come divenni scrittore

Faccio la strada per tornare a casa con Nati e Camille. L’allungo, la strada: loro vanno in Triana mentre io sarei già arrivato. Allungo la strada e le espadrillas, che a noi italiani suonano così spagnole ma che qui chiamano esparco, mi si impregnano d’acqua perché lavano le strade, la notte, a Siviglia, e le suole sono di corda, e quando arriverò a casa (perché a un certo punto si torna anche a casa) saranno dure e pesanti per tutta l’acqua assorbita semplicemente camminando, andando, tornando a casa.
Se allungo la strada non è tanto per la storia delle scarpe che diventano dure e pesanti perché si impregnano di acqua, questo non rende affatto la passeggiata piacevole, e non allungo la strada perché non ho voglia di tornare a casa (e che quindi un altro giorno è finito) e nemmeno per una questione di galanteria o perché voglio finire con una delle due o tutte e due insieme. Il fatto è dovuto piuttosto alle condizioni strutturali di questa ennesima vuelta, questo ennesimo ritorno a casa dopo una sera essenzialmente inutile, senza senso. Il fatto è che non siamo in tre, ma siamo in cinque. Con noi c’è un senegalese dal nome impronunciabile per noi europei, si fa chiamare Jimi e per questo lo chiameremo Jimi. L’abbiamo raccattato dalle parti di Alameda, anzi lui si è attaccato, aveva conosciuto Camille una notte precedente e se la voleva fojare. Perché Camille è bionda e francese e si sbronza e finisce a letto con uomini di cui poi non si ricorda. E giustamente Jimi vuole essere uno fra i tanti, o forse uno diverso dai tanti, per questa Camille bionda francese che si sbronza e poi finisce a fojare con uomini di cui nemmeno si ricorda. Insomma, si stava seduti in Alameda, prima, e si andava, poi, con Jimi che di tanto in tanto metteva una canzone sul cellulare: era il tormentone dell’estate, Danza Kuduro, una canzone molto brutta per ballare, ma Jimi ballava lo stesso, alla sua maniera africana.

C’erano anche state delle divergenze, fra noi e Jimi, cioè non proprio tra noi e lui, ma fra lui e un’amica sua e di Camille, Valentin, che è bella ed è della Bretagna, e quando Jimi le ha chiesto di farsi una sigaretta e lei le aveva passato il pacco, lui aveva provato a rubargli il fumo che lei, Valentin, teneva nel tabacco. Lei era stata sorprendente, maschile senza dubbio, nella sua maniera di scagliarsi contro di lui, con la giustizia dalla sua parte, ignorando le sue scuse, sono negro, sono del Senegal, noi del Senegal non ruberemmo mai del fumo per la semplice ragione che fumiamo solo erba, ma erano chiaramente delle cazzate e lo sapevamo noi, lo sapeva lei e lo sapeva lui. Ad ogni modo finì subito lì, e dopo le urla non era successo niente: alle tre ci eravamo avviati verso casa. E lui, Jimi, ci aveva seguiti. Perché, diceva, non sapeva dove dormire, diceva che viveva in un pueblo fuori Siviglia, e che Camille, che si era scopata mezza Siviglia, poteva fare il favore di trombarsi anche lui.
E così si andava verso casa, o meglio, Nati e Camille verso le loro case trianere, Jimi le seguiva e io le accompagnavo per proteggerle dall’uomo nero, anche se dopo un po’ era risultato evidente che io non ero in grado di proteggere nessuno e loro si difendevano forse meglio da sole.

Qualcuno, a questo punto, potrebbe chiedersi perché avevo parlato di cinque persone e, ad ora, i personaggi di questo ritorno a casa sono quattro. Il motivo è che poi è spuntato un tipo sulla quarantina, e ha cominciato a seguirci anche lui. All’inizio non era chiaro, si è solo avvicinato a Nati e l’ha salutata, ciao, come ti chiami, e poi era sparito, per ricomparire poco dopo. Era vestito bene, uno che potrebbe fare l’impiegato, un po’ stempiato, ma poi abbiamo capito che era un maniaco sessuale e che si stava toccando il cazzo mentre faceva dei versi strani. A me non spaventava, mi faceva riflettere e dicevo alle ragazze che era inoffensivo, ma Nati, che studia per fare la psicologa, diceva che uno così poteva trombarsi i morti.

Quando torna io e Jimi (più lui di me, in effetti) interveniamo dicendo: vattene. E lui se ne va. Ma poi ritorna. E se ne va ma poi ogni volta torna, come se il desiderio di farci vedere il cazzo fosse maggiore del rischio di prendere calci in bocca e in culo. Poi, all’altezza di Plaza del Duque, sparisce, stavolta per davvero, e allora io l’ho immaginato in un vicolo, dove finalmente viene, per terra, sui muri, su qualsiasi cosa, e poi, libero, se ne torna a casa.

E mentre torniamo pure noi a casa, parlando del più e del meno, Jimi argomenta su cose che non ricordo e io, a un certo punto, chiedo a Camille di vendermi una cannetta della buonanotte perché ho finite le scorte. Te la regalo, risponde lei, ma io insisto per pagarla perché so che poi anche Jimi la vorrebbe, la cannetta della buonanotte, e le cose si potrebbero complicare ancora più di quanto non sono e di quanto ci sia bisogno. Allora Jimi dice che è meglio fumare tutti e quattro insieme su un letto a casa di Camille. Ma io rispondo che no, che non sono capace di fumare in compagnia. Jimi mi guarda storto. Allora capisco che per Jimi sono solo un cavallo di Troia per entrare in quella casa. Eppure dico la verità: fumo soltanto da solo, per me fumare è un atto individualistico. Jimi mi dice che un amico suo, italiano pure lui, era impazzito a fumarsi le canne da solo. Io non giocavo: volevo andarmene e vaffanculo. Jimi insisteva su quanto sarebbe stato belle fumare sul lettone a casa di Camille, tutti e quattro insieme. Ma io non sognavo neanche lontanamente di andare a casa di Camille. E allora gli ho detto: ascoltami bene, c’è una cosa che non sai, che non ti ho detto, la cosa che non ti ho detto, Jimi, amico mio, è che sono uno scrittore ed è per questo che fumo da solo, perché mi aiuta nella scrittura, nel processo creativo. Solo questo. E lui ha capito o ha intuito o non ha capito, comunque mi ha detto solo: ok.

A Puerta de Jerez mi sono congedato dalla compagnia dopo aver chiesto alle ragazze se erano tranquille, se pensavano di potersi proteggere da sole (pensavo ancora al cavallo di Troia). Così ho fatto un pezzo di strada senza voltarmi, con andatura tranquilla, e, girato l’angolo, ho tolto le mie espadrillas-esparco pesanti come cemento e ho cominciato a correre, a correre nella notte sevilliana, scalzo, con la paura che Jimi mi seguisse. E ho corso come un pazzo senza voltarmi indietro fino a che non sono arrivato dietro la Cattedrale, solo allora ho rimesso le scarpe pesanti e ho ripreso un’andatura quasi normale, borghese.

Ad ogni modo, anche se così, anche se mi faceva male la milza per la corsa, anche se l’avevo detto a un Jimi-Danza-Kuduro qualunque, e per scherzo, avevo detto che ero uno scrittore, ed ero felice.

kuduro

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