Scrittori Precari, Spagna (2009-2011)

Esta-The alla pesca

Per quanto a oggi il dualismo sia (o possa dirsi a ragion veduta) qualcosa di superato dal nostro spensierato pensiero post-moderno, solo pochi anni fa dominava il mondo, e in particolare la mia amata provincia.
Sorseggiando oggi semi-sdraiato un Esta-The al limone ho rivisto chiaramente i blocchi contrapposti della mia giovinezza, quando il mondo e questa provincia natia si lasciavano decifrare dal mio cuore semplicemente nella distinzione tra Esta-The al limone, appunto, e l’odiato e fin troppo dolce rivale: l’Esta-The alla pesca.

Niente a che fare con le varianti mostruose dei tempi d’oggi: Esta-The Verde, toccasana per la circolazione cardiovascolare, Esta-The Deteinato, per gli ipertesi, immagino, o altri target a me incomprensibili. Il mondo duale di un tempo si definiva dunque per macrocategorie inconciliabili tra loro quanto lo sono appunto un limone e una pesca. Le personalità umane si plasmavano ― ora tutto ciò risulta incredibile ― in relazione a quella semplice scelta, che non lasciava esclusione e scarti. Si potrebbe riflettere sul perché di quella scelta fondativa, sui condizionamenti che avevano spinto una personalità a pendere per un lato o per l’altro e tutte le conseguenze che una tale scelta avrebbe comportato sullo sviluppo di quella personalità, ma sono costretto ad ammettere i miei limiti nel capire e descrivere questi recessi, e quindi lasciar perdere.
Non so cosa fu a portarmi sulla via del Limone, con la sua etichetta gialla, e al mio conseguente rifiuto della via della Pesca e del suo colore arancione. I fatti che a questo preambolo ― si dirà: inutile preambolo ― seguono, e che ora riporto, mi furono raccontati anni fa, ma sembrano decenni tanto le cose sono cambiate: oggi riemergono mentre lascio cadere la cenere di una sigaretta dentro il brik di Esta-The al limone finito. Semper fidelis. Ma la storia riguarda l’altro mondo, quello di falsità e menzogna che era (ed è) il mondo dei bevitori di Esta-The alla pesca. Mi fu raccontata a una penosa cena di coppie in un lussuoso ristorante del centro di… Lei e lui sedevano di fronte a me e a questa mia fidanzata giovanile, i due erano (e chissà forse sono ancora) chiaramente amici di lei e non amici miei e io mi ero prestato a quella cena ridicola solo per la bellezza stolida dell’amica della mia fidanzata. Non è nobile da dirsi e non me ne vanto, anzi, è terribile, ma anche quella cena lo era, e del resto non sono e non erano tempi particolarmente nobili. Niente di nuovo a ogni modo, in una formula: Totem e tabù. E in fondo noi troppo giovani per cene di coppie, tra coppie, la noia mortale, lo scimmiottìo di sistemi ereditati e fallimentari e noi ancora non in grado di riplasmare secondo i nostri nuovi modelli e le nostre esigenze.

F., il ragazzo di lei, quindi il mio doppio, raccontò di un pomeriggio assolato in un bar di provincia (che io immaginai più simile a una casa del popolo), di un pomeriggio noioso quanto lo era lui. Ma in quel pomeriggio accadde che un tale conoscente, un suo amico, ordinando un Esta-The alla pesca per dissetarsi, o forse per abitudine, perché come è noto l’Esta-The alla pesca non disseta affatto, si trovò a succhiare a vuoto nella cannuccia: non saliva niente. Sempre con la cannuccia praticò allora dei piccoli fori fino ad aprire una circonferenza nel brik e poter vedere il contenuto (che pure qualcosa doveva esserci dentro, visto il peso). Dentro il brik, così raccontava F., c’era una piccola pesca, mostruosa, incastonata nei bordi rigidi dell’Esta-The. Qualcosa che mi fece pensare, ora ricordo bene, ai piedi fasciati dei cinesi, o ai colli costretti dentro le file di anelli degli africani. Il tale, l’amico di F., si rivolse agli amici, tutti come lui bevitori di Esta―The alla pesca di lunga data suppongo, cercando aiuto e comprensione; ma nessuno aveva mai visto niente del genere. Infine si rivolsero al barista, un vecchino che ne sapeva meno di loro.

F. concludeva quella storia ripetendone l’assoluta autenticità, pur consapevole di come ciò potesse risultare inverosimile ai nostri occhi scettici. I nostri commenti furono appunto scettici, e io pensavo solo che erano le classiche fandonie dei bevitori di Esta-The alla pesca, mentre continuavo a osservare la sua ragazza così bella che mangiava così bene, guardandomi di tanto in tanto a sua volta, un sorbetto al limone.

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Scrittori Precari, Spagna (2009-2011)

Concerti

Forse è venerdì e forse avrò un certo bisogno di uscire. Forse chiamerò ogni numero chiamabile della lista dei numeri da chiamare e forse non mi risponderà nessuno. Forse avrò la tentazione di tornare a casa, ma forse non lo farò, e opterò per il concerto dei Blonde Redhead: li ascoltavo a Siviglia in inverno. Forse per chiudere l’ennesimo cerchio.
Forse percorrerò in motorino via Pistoiese, che ricordavo più corta, e farò la fila da solo mentre dentro iniziano la prima canzone. Ciò che invece non è in forse è lo svolgimento del concerto, che suo malgrado sarà anche commovente almeno per un momento e si ripeterà uguale a tutti i concerti della mia vita.
È il contesto, l’estrinseco, che mi affossa e a volta mi diverte anche. Allora ci sono io tra la folla ed è indubbio che arriverà un uomo coi capelli lunghi, alto e piazzato, e si metterà davanti a me. Lo accetterò perché, pur non avendo i capelli lunghi e non essendo così alto e robusto, comunque potrei fare altrettanto senza rendermene conto. Allora resto a guardare la sua nuca e mi va bene, se non che lui molto spesso si tira in avanti e lancia i capelli indietro, i suoi lunghi capelli ben tenuti che lava col balsamo. Profuma di pulito, ma questo è eccezione.
Poi succede che me lo ritrovo non più esattamente davanti, ma un po’ sulla destra, il che mi dà modo di osservare nuovi scenari. Il che non è propriamente un bene. Sulla mia sinistra c’è un tale, romano?, del sud? ― da Firenze in giù è Africa ― che balla in maniera molto esagerata, o almeno così sembra a me, per un concerto di musica rock colta o rock riflessiva, e che attacca discorso con chiunque ci sia intorno e sia donna. Anche questo è un topos che si ripete ogni volta. Alza le mani, fa dei versi che a parer mio sono ridicoli, ma si sente molto a suo agio e socializza, anche se in effetti non potrebbe, ché un concerto è un atto individualistico, ma questi sono punti di vista. Diciamo che contesto solo il suo stile. Non sento cosa dice, e questo è un bene. Ci prova con questa tizia, che ha il suo ragazzo che osserva, ma forse è il suo quasi-ragazzo e finisce che i tre si mettono a ballare, alla mia sinistra, tutti e tre insieme, ballando una musica immaginaria che solo loro possono sentire. Questo mentre il tizio alto e robusto sulla destra con i capelli lunghi muove la testa in su e giù come a un concerto heavy-metal. E la cantante giapponese dei Blonde Redhead sussurra che tutto è sbagliato. E questo accade sempre.
La scena di solito finisce con un tipo che mi viene direttamente davanti frontalmente, con occhiali da sole verdi o rossi, cappellino e fischietto in bocca, che mi guarda, mi disapprova?, e fischia nel suo fischietto, un fischio lento e continuo. Poi si accendono le luci e il concerto è finito.

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Malta (2011-2012), Scrittori Precari

Irritazione e Scrittura. Riflessione sul tempo in generale, notturno in particolare

Scrivo qualcosa dopo aver perso miseramente due partite a scacchi contro il computer, è notte: perdere tre partite a scacchi contro il computer mi crea irritazione e capisco, o forse mi racconto, che ciò non significa che sia per forza un cretino. Sono stanco. Sono stanchissimo e per questo perdo contro il computer a livello sei. Le cose dopo, quando la smetto di insistere a scacchi, dopo un suo splendido scacco matto, non migliorano. Spengo il computer, ho lasciato il cavo di alimentazione di là, al buio, dove Diana sta dormendo, e allora vado, mi trascino di là cercando di fare meno casino possibile per non svegliarla o almeno non disturbarla troppo. Lei si sveglia. Torno in cucina e mi metto a riguardare cose scritte che suonavano bene oggi, nel pomeriggio, e ora sono tutte storte, contorte, in una parola: sbagliate. Allora mi metto nella penosa pratica di pulitura e quando rileggo mi sembra che tutto abbia perso, se possibile, ancora qualcosa. Sono stanco, non dovrei mettermi a pulire quando sono stanco e ho perso miseramente contro il computer, sempre per colpa della stanchezza. A volte decido di localizzare il problema nella stanchezza, a volte nel pulire in senso ampio, oppure ancora sulla scarsa soddisfazione che dimostra il computer nel battermi a scacchi. Decido di localizzare il problema nella scrittura, nell’impossibilità generica di capire quando un testo è a posto e non va toccato più. Un saggio giapponese mi tirerebbe fuori la storia degli haiku, mi addormenterei dalla noia. Gli direi, come un tempo: quando finiscono le cose? E lui mi guarderebbe e mi direbbe: ma vedi, Simone, non c’è nessuna cosa. Diana e io penseremmo ad Occidente e ci guarderemmo negli occhi, le prenderei la mano sopra il tavolo e ci diremmo che le cose non finiscono mai. E quindi i testi che scrivo non li finirò mai di pulire, a meno che non nascano già puliti e poi non si tocchino più. È questo che pensavo quando dicevo che l’essere, maiuscolo, è essenzialmente infrazione? Non so. Sono stanco, non so di che parlo. Allora forse, se l’essere, maiuscolo, è infrazione, e ogni nascita un aborto mancato, quello che ora dovrei fare è tener premuto il tasto canc, tenerlo premuto a lungo, ma nemmeno eccessivamente, ché quattrocento parole fanno in fretta a cancellarsi. L’essere come infrazione è una cacata, è pieno di morale, e vorrei a tornare alla perfettibilità dell’essere. Che ciò che è, per il fatto che è, è perfetto. Non può essere altrimenti. Diana, se non dormisse, mi guarderebbe negli occhi e mi direbbe che non si può saltare così da un opposto all’altro. Me lo direbbe un po’ preoccupata. Hai ragione, Diana. La faccio talmente semplice, anzi, la faccio inutile, la riflessione. È ancora agosto, che ha questa capacità negativa, sul finire, di rallentare. Sono le due e ventisette ma io non trattengo il tempo, scrivendo che sono le due e ventisette. Non lo trattengo, non lo eterno. Goethe direbbe: Attimo! non te ne andare, sei così bello. E io lo scriverei nella Panda del padre di Silvia, una sera di non so quali tempi passati, ubriachi in giro per la città. Il padre di Silvia la mattina dopo sarebbe andato a lavoro con quella scritta sul parabrezza, e anche allora l’attimo, anche allora, sarebbe passato. Adesso, che la storia acquista un quasi senso, alias giustificazione di esistere, forse, mi metterò a rileggere e pulire quello che ho scritto fin qui, e questa pratica durerà per chissà quanto. O forse lascerò perdere, solo rileggere e poi andare in un posto più comodo di questo a leggere Lowry.

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Malta (2011-2012), Scrittori Precari

Preparare una tesi in filosofia

Tutto, nel libro di Girard, mi parla, tranne il libro stesso.
La scheda di prestito di Claudia, compilata un anno fa, con la sua scrittura che posso riconoscere. Posso quasi intuire il momento esatto della sua vita in cui compilava quella scheda del prestito bibliotecario, e la sua storia personale, e quella sua storia personale in relazione a Nicola, e quella in relazione a Firenze e a tutto ciò che a Firenze è relazionato. Posso anche riflettere sul perché di quella scheda abbandonata dentro al libro, sul perché quella scheda, rosa, che adesso hanno fatto, dopo decenni di schede rosa, di un bianco impersonale, asettico, sia lì, nel libro di Girard, dal momento che non ha senso che sia lì, ché la scheda di prestito esclude il libro, ché quando si prende un libro in prestito quella scheda rosa (o bianca) si dà e resta alla biblioteca, ai bibliotecari e ai loro archivi, e non resta dentro al libro. Si potrebbe pensare che forse, Claudia, questo libro non lo prese mai in prestito, ma solo si limitò a pensare di prenderlo, e quindi di leggerlo, per quella sua tesi in filosofia che poi non avrebbe scritto. Eppure, anche se questa è certamente la risposta più probabile, sospetto che Claudia quel libro in prestito lo prese, e forse in parte lo lesse anche, ma certamente non tutto, vista la sua storia personale, e quella in relazione a Nicola, e quella in relazione a Firenze, e al suo scrivere e soprattutto non scrivere la tesi. Io sospetto che lo prese, quel libro, e che poi passò giorni interi a sfogliarlo e a dirsi, a ripetersi di leggerlo, e infine a non leggerlo. E quella scheda lì dentro, abbandonata, rappresenti piuttosto una volontà, sempre differita, spuria, di rinnovare quel prestito, per quel libro che non aveva letto e che non avrebbe letto e non avrebbe usato mai per quella sua tesi in filosofia, quella non tesi. Oppure posso al contrario pensare che l’abbia letto e abbia infine fatto una copia ulteriore della richiesta di prestito per lasciare una prova tangibile, anche se di una tangibilità fragile, del suo passaggio da Firenze, da quel momento, da quella vita, una prova della sua relazione con quel libro e con le altre cose già dette. Basterebbe chiamarla e chiedere, ma non lo farò.
Ad ogni modo, nel libro di Girard si parla, se poi ho capito bene e se ricordo bene, dal momento che sono giorni che evito di aprirlo ma continuo a portarlo in giro e fare altro, tipo leggere romanzi (Sotto il vulcano). oppure opere di teatro (Amleto) che mi sono reso conto improvvisamente che sia urgente e doveroso leggere e che non posso aspettare ancora, insomma, dicevo che nel libro di Girard si parla, nel capitolo primo, del duplice valore del sangue, del valore sacrale e al contempo impuro e contaminante. Il sacro, ci ricorda René Girard, è la violenza. Ma se, ancora, il libro mi parla, è solo perché quelle pagine sono macchiate di rosso: si direbbe che siano proprio gocce di sangue, quello stesso sangue di cui sopra, e io allora mi chiedo di chi sia quel sangue, se sia o meno una casualità, una taglio in un dito, o sangue dal naso, o sia piuttosto un qualche messaggio per me, per Claudia o per chiunque altro tenti di scrivere la sua tesi in filosofia su Girard e che invece si arena per svariati motivi di cui adesso non ha senso discutere

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Scrittori Precari, Spagna (2009-2011)

Pseudobagnino di Pietramarina

Posso dedurre dalle poche informazioni che ho che il tizio sul toboga non sia il bagnino ufficiale, ma un semplice aficionados di questa piscina, Pietramarina, che si erge a sua volta sulla cima di un colle, sopra la Piana. Il tale è molto abbronzato, lo è davvero molto. Ha i capelli lunghi, ma non molto, e biondi, ossigenati stinti per il sole e per il cloro della piscina. Gli mancano alcuni denti, ma non gli incisivi, ed ha almeno due tatuaggi, stinti. Non è solo questo a farmi pensare a un aficionados. È la maniera in cui si erge: ci sono delle scale da salire, per poi scivolare sul toboga, e una sorta di piano doccia dove la gente in fila aspetta per poi lanciarsi nello scivolo. Lui, il tizio aficionados, però non si tuffa. Si arrampica sulla balaustra e osserva la caduta dei bagnanti. Sta là e si arrabbia quando qualcuno fa qualcosa di poco consono, per esempio con un tale, o una tale, che io non vedo dalla mia posizione, che sta evidentemente andando addosso a qualcun altro. Non so se si arrabbia esattamente con quello fermo a metà dello scivolo o con l’altro, che in fondo non può sapere ciò che l’aficionados sa. Ma la sua rabbia è una rabbia differita, lontana, spuria: sola, dal suo essersi erto lassù sulla balaustra. Grida qualcosa a quel tale che si è scontrato con l’altro, allarga le braccia come a dire: io ti avevo avvertito, non c’è fine alla stupidità umana e comunque sembra che non gli importi niente, facciano come gli pare. E poi è finito tutto. Sta lassù e dà un leggero tocco sulle spalle dei bagnanti, come a dire: va ora. Perché, suppongo, può calcolare col suo occhio di aficionados la velocità dei corpi, in relazione ai differenti pesi, e sa qual è il momento in cui sfiorare la spalla del tuffatore perché non si scontri con chi l’ha preceduto. Non è il suo un ruolo ufficiale, o almeno non sembra, quanto piuttosto quello di guardiano o legislatore volontario del toboga come quei vecchi che si prendono a cuore i giardini, con pazienza e indulgenza, o rabbia e risentimento. Non sembra un bagnino, ma un ex tossico, eppure è credibile nel suo ruolo in cui si è autoeletto per indubbi meriti in materia di piscine e scivoli acquatici. È credibile sempre e, a volte, si spazientisce se qualcuno temporeggia: una bambina con i braccioli che si affaccia timorosa alla bocca del tunnel. Lui sa bene che quei braccioli creeranno attrito nella discesa, altro tempo d’attesa per il successivo tuffatore, da aggiungere al tempo stesso che si sta prendendo adesso col suo temporeggiare. La sua voce, la voce dell’aficionados, allora è ferma: via, via come se avesse visto intere generazioni tuffarsi dal toboga e sempre la sua mano a indicare che quello è il Momento. Rimane lì a lungo, ma non molto, finché si annoia e si tuffa a sua volta. Ma io non lo vedo, tuffarsi, anche se era quello che forse aspettavo: di vedere la sua tecnica superiore. E non faccio in tempo nemmeno a correre in fila per ricevere il suo lieve o rude tocco sulla spalla.

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Scrittori Precari, Spagna (2009-2011)

Dormire nel pomeriggio

Sono seduto a un tavolo rotondo con Diana, tra altri tavoli rotondi, dobbiamo mangiare, è un incrocio tra un bar e un ristorante. Il cameriere è un signore di mezza età, con i baffi, viene a prendere l’ordinazione e si siede al tavolo con noi. Mi rendo conto che lui e Diana si conoscono, parlano affabilmente, molto vicini, ma io non penso che ci sia una sorta di flirt tra loro, se non qualcosa come la relazione tra una nipote e uno zio, o qualcosa del genere. Mi squilla il telefono, guardo sul display, o forse prima di guardare penso sia Abramo detto Eby, e scocciato mi alzo senza aver fatto in tempo a ordinare il pranzo. Diana mi dice che potrei anche fare a meno di rispondere al mio medico ortopedico. Chissà poi perché. Col telefono che vibra mi avvicino al bancone, chiedo di vedere il menù e ordino un panino con il pesce spada. Non avevo mai sentito di panini al pesce spada, ma se lo fanno evidentemente esiste. Esco dal locale e guardo il display del cellulare dove c’è scritto Kvrtz, infatti non è Eby, ma è Emanuele del Curto detto Kurtz, scritto Kvrtz sul telefonino. Mi dice che l’altra sera non mi ha visto benissimo, avevo una faccia da bambino per bene. Io dico che non è niente, che non esco molto e quando esco sono molto, troppo, concentrato su di me e poco sul resto. La conversazione finisce e incontro il Cecco detto Cecco, col suo eskimo, gli chiedo cosa stia facendo lì. Mi dice che sta studiando chimica, perché non l’ha mai studiata e quindi deve studiarla. Mi dice che c’è una nostra ex compagna di classe, Jessica Masi, e che lui l’ha salutata e ci ha parlato, mentre io l’ho solo intravista mentre ero al telefono con Kvrtz; il Cecco aggiunge che lei, Jessica, vive adesso con sette persone.

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Scrittori Precari, Spagna (2009-2011)

Obesità

A volte mi domando come la gente passi le giornate. È un riflesso, di certo, del mio proiettare nell’universale problematiche particolari, che è come dire mie.
Mann lo direbbe tramite Settembrini, e lo direbbe meglio. Diana direbbe d’altronde che questo è semplicistico e io allora mi vedrei costretto a replicare parlando della semplicistica psicologia maschile, così per escluderla dall’ambito della discussione.
Ci sono questi miei nuovissimi compagni di corso, di cui non so niente, un po’ più giovani di me, poco in effetti, anche se a me sembra tanto, che leggono Nietzsche e non sanno una parola d’inglese, che ricalcano tutti gli stereotipi imputabili a uno spagnolo medio e affermativo, nel senso di ottimista, non è chiaro in cosa, nella loro bruttezza. Alcuni sembrano delle scimmie, su venti ce ne è uno che si salva, anche se a pensarci meglio non si salverà nessuno. Ma non è questo. Mi domando come passano le giornate, solo questo. Come passa le giornate l’obeso che legge Ecce homo e se la ride, inconsapevole che quel libro è scritto contro di lui, ridendo di se stesso. È una risata di risentimento, nervosa, anche se con la sua camicia larga e i pantaloni bianchi ha una posizione certamente disinvolta. E mentre aspettiamo le cinque parla di un’opera, anzi no, di un Requiem, di Verdi credo, mimando col suo corpo il suono dei clavicembali per farsi bello di fronte al professore temibile di Filosofia del Rinascimento. Che lo ignora. Mi chiedo cosa faccia l’obeso che, rapido, dopo il corso delle dodici scivola via, con tutti gli altri relitti del mio corso, e come me aspetta il corso delle cinque, quello col professore temibile appunto. Lo immagino che torna a casa e mangia coi genitori, anzi no, solo con sua madre, guarda la televisione e poi va nella sua stanzina arredata malamente, forse con un poster di Bach appeso (che a conti fatti gli assomiglia), bramando di farsi una sega pensando a Eva Maria, con quella sua faccina da topo, da prima della classe, la più bella del corso: in effetti le ragazze del corso sono due. Eppure non può farsi una sega in quella stanza che la madre riordina, perché è troppo ordinata e pulita, e di sicuro non c’è la chiave. Andrà allora in bagno giustificando con la sua lettura di Nietzsche il tempo eccessivo trascorso lì dentro. Sta bene. Ma anche procrastinando il più a lungo possibile il momento della venuta, sugli occhiali di Eva Maria, rimandando il momento di sospensione in cui lei lo guarda col viso sporco di sborra, se poi sporco lo si potesse davvero chiamare, ebbene resta da capire cosa accadrà nella sua vita in quelle restanti cinque ore. Lo ignoro completamente. È possibile che in quelle cinque ore ci sia tempo (c’è di certo) di farsi, se ne ha forza, un’altra sega, anche questa volta in bagno, tempio di Onan, in piedi, nella doccia (giustificabile per la sua eccessiva sudorazione di obeso), o forse nemmeno in piedi, ma accucciato dentro la vasca o il piatto doccia. Questa volta penserà ad altro, per variare, penserà all’argentina, Melissa, certo bruttina, ma volgare e sguaiata e quindi ipoteticamente più lasciva; in un ipotetico piano immaginario che mai sarà reale sicuramente più abbordabile della cara e summenzionata Eva Maria. Alla quale però tornerà sul finale, stremato, fedele all’immagine mentale di lei grata e appagata, nella sua immagine mentale e reale che lei rappresenta e interpreta. Dopo tutto questo io mi chiedo come possa non fumare, non concedersi una sigaretta, ma invece niente. L’obeso non fuma. Il suo cuore di obeso tornerà dopo l’ennesima schizzata su Eva Maria ai normali battiti sovracelerati di sempre, quelli che un giorno lo uccideranno. Cani, sui divani, con il cazzo rosso di fuori che mi mordicchiano la mano e potrebbero andare avanti per ore. Oscar, si chiama, o Octavio, qualcosa con la O. Mi ha detto Ben che passa le giornate sul divano, con gli occhi tristi, e quando ci sono ospiti mordicchia la mano col cazzo di fuori. Sì. Certo. Ma Omar è un cane. Se comunque l’obeso è un enigma gli altri compagni di classe lo sono ancor di più: l’argentina Melissa non viene al corso del pomeriggio quindi ha certamente tutto il tempo per fare le sue cose (che cosa?), marchette ai vecchi alla stazione di Santa Justa, nelle baracche dietro a Viapol, spompinare sconosciuti nel parco dietro Plaza de España, ancor più improbabile immaginare i pomeriggi di Eva Maria: non ci proverò nemmeno. Mi ha chiamato Diana e le ho chiesto come passasse le giornate e lei mi ha detto di questa sua giornata, tradurre Marías, pranzare con gente di ambiti diversi, subire le avances di uomini (l’Australia, i sorrisi). Dopo penso a mio padre, che si finge operoso, ma che io ho sgamato. Gli spostamenti in auto e motorino sono un modo per procrastinare e riempire in qualche modo le giornate. Ma questo è ingiusto. Mio padre in questo momento sarà nel suo ufficio, starà sbrigando la corrispondenza e spedendo gli ordini davanti al pc, nell’ex studio di mio nonno, ex perché non sopravvissuto al tracollo della classe media. E Diana nella stanza di filosofia, traducendo Marías, con gli occhi dei miei cari amici puntati addosso, sul suo collo, sulle sue braccia, sul suo viso. E poi, quando torno a casa dopo il corso delle cinque, dopo aver aspettato tutto il pomeriggio congetturando sull’obeso in modi che non approfondirò, l’ho vista, l’argentina, Melissa, che usciva dalla cattedrale, con gli occhi abbacinati per il passaggio dall’oscurità alla luce. Forse abbiamo incrociato gli sguardi, forse non mi ha riconosciuto, ma allora ho capito tutto.

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Scrittori Precari, Spagna (2009-2011)

Reincarnazione

Sostengono i mistici orientali che se fai schifo nella prossima vita sarai cacca. Meritocrazia? No, reincarnazione. Che poi magari essere capra o cane di piazza Alameda non è per forza una punizione. Anzi, per nulla. Però sembra questo. Ma quello che voglio dire è che per conseguenza, anzi per opposizione, ci sarà un ascendere. Tu prima sei pianta, prima ancora eri sasso, poi sarai capra o cane di piazza e poi sarai uomo perché passando di lì – dall’essere uomo – troncherai il teatrino samsara. O potrai troncarlo. Benissimo. Solo che non si vede perché o cosa di un animale potrebbe alla fine essere meritevole o de-meritevole. Cagare e pisciare sul letto del padrone è giusto o sbagliato? Direbbe Javier poeta andaluso che noi applichiamo categorie umane a valori che non ci stanno a questo, e l’ho capito dopo una settimana che provavo ad addormentarmi con quel film thailandese, lo Zio Bunmè. La spiegazione del film a questo gravoso interrogativo è che sì, chiaro, nell’animale c’è l’istinto e pertanto non si vede dove sta il Santo merito. Lui sembra, lui il regista thailandese, che stia parlando di una sorta di vocazione alla libertà, che Javier poeta andaluso chiamerebbe vocazione alla felicità, equivocandosi, fidandosi di Borges e non di sé. O forse mi sbaglio. C’è nella mucca un principio, una vocazione di libertà. E questo condurrebbe a un avvicinamento, o allontanamento, dai gironi infernali, invernali. Il buddismo e il merito, a ogni modo, sono concetti che fatico a comprendere. Sarà perché c’ho litigato da bambino, con mio padre e i buddisti: il merito e l’etica protestante di mio padre mi annoiano terribilmente. Io voto per la Grazia e il politeismo occidentale.

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Scrittori Precari, Spagna (2009-2011)

Altre metamorfosi

Un ipotetico lunedì della nostra vita. Della mia vita. L’ora è imprecisata, non saprei desumerla dalla luminosità della stanza. Il telefono squilla strappandomi dal sonno e da sogni che mi strappano da questo lunedì e da questa ora imprecisata. Il telefono squilla ed è un ipotetico lunedì della mia vita, un’ora imprecisata. Perché poi lunedì? Non potrebbe, piuttosto, essere giovedì? Perché deve essere lunedì, l’inizio di una nuova settimana, quella prima apparenza che formerà la sostanza di questa ennesima, benché ipotetica, settimana della nostra vita. Della mia vita. Questo lunedì segna il passo, segnerà i passi successivi e tutte le successive mattine di questa ipotetica settimana, che è come dire la vita. Squilla il telefono, ma non dice ancora niente. Non dice nello specifico se questo squillo anticipi o preceda un altro suono proveniente dallo stesso telefono cellulare, ovvero la sveglia fissata sulle nove e mezza. Nell’incertezza dello squillo, che potrebbe essere posteriore oppure precedere la sveglia, nell’incertezza dell’ora e nell’incertezza che si ha quando si è risvegliati bruscamente, si risponde. È il padre. Questi saluta il figlio, chiede se dorme ancora e il figlio, questo ipotetico io, mente, dice di no; imposta la voce in un modo che vuol suonare risoluto e al contempo naturale. Un ‘no’ credibile. Il padre elenca allora tutte le cose che lo hanno occupato nel suo lunedì mattina operoso, ipotetico, ma di certo operoso. Dunque la sveglia non è suonata. Tu, il figlio, a carico, inoperoso, apprendi da una serie di informazioni che passano telefonicamente tramite la voce del padre che sono le due del pomeriggio. Il padre propone di incontrarsi, giusto cinque minuti per prendere un caffè, ché gli impegni di questo suo lunedì impegnato non gli impediscono comunque di adempiere esemplarmente i suoi doveri di padre, amorevole, operoso, nei confronti del solo figlio studente universitario di cui si prende carico. Il figlio si negherà ancora, pensando rapidamente alle occupazioni notturne, allo studio, alla scrittura di un breve commento a Kafka, cioè quello che gli dà la febbre e che il padre non capirebbe. Ci si è provato a spiegare, ma non si è spiegato bene; forse è l’altro a non aver capito (o a non aver voluto capire), ma fa lo stesso. Le visioni del mondo lontanissime: non è certo una colpa se il padre non capisce, è naturale. Quindi si nega ancora. Niente caffè: non si può interrompere lo studio, mercoledì c’è un esame di letteratura, uno degli ultimi, deve andare bene per poi ricevere una parola positiva, di sfuggitissima, dallo stesso padre che, di fronte all’operosità del figlio, presunta perché di fatto lo si presume inoperoso, buttato in qualche bar nei dintorni della facoltà, o peggio ancora a letto, non può che accettare il suo rifiuto;  in fondo è scomodo raggiungere in macchina la zona del centro dove il figlio studia. I due si salutano, il padre chiamerà ancora, mercoledì verso la stessa ora, per sapere l’esito dell’esame. Il figlio rimane con il telefono in mano che segna sullo schermo le quattordici e zero quattro, prova un senso di malessere che si ostina a non voler chiamare senso di colpa in seguito ai suoi studi su Nietzsche e al non fondamento della morale. Riflette per un attimo, di sfuggitissima, se una sua metamorfosi in scarafaggio sarebbe una sorte orribile o piuttosto la sua salvezza.

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Scrittori Precari, Spagna (2009-2011)

Vetri

Questa storia di spaccare le finestre è già successa una volta. Ero bambino e si giocava a scuola. Si giocava nell’ingresso della scuola dove il pavimento è liscio. Non ricordo a che gioco si giocava, ricordo solo Cosimo Ciulli spinto da qualcuno che distrugge una vetrata col corpo. Oggi, se ci penso, penso che a spingerlo fu Federico Pratesi, che era (che è) del segno dell’ariete come me, nato un giorno prima. In lui localizzavo il male, mentre io ero il bene. Continua a leggere

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