Scrivo qualcosa dopo aver perso miseramente due partite a scacchi contro il computer, è notte: perdere tre partite a scacchi contro il computer mi crea irritazione e capisco, o forse mi racconto, che ciò non significa che sia per forza un cretino. Sono stanco. Sono stanchissimo e per questo perdo contro il computer a livello sei. Le cose dopo, quando la smetto di insistere a scacchi, dopo un suo splendido scacco matto, non migliorano. Spengo il computer, ho lasciato il cavo di alimentazione di là, al buio, dove Diana sta dormendo, e allora vado, mi trascino di là cercando di fare meno casino possibile per non svegliarla o almeno non disturbarla troppo. Lei si sveglia. Torno in cucina e mi metto a riguardare cose scritte che suonavano bene oggi, nel pomeriggio, e ora sono tutte storte, contorte, in una parola: sbagliate. Allora mi metto nella penosa pratica di pulitura e quando rileggo mi sembra che tutto abbia perso, se possibile, ancora qualcosa. Sono stanco, non dovrei mettermi a pulire quando sono stanco e ho perso miseramente contro il computer, sempre per colpa della stanchezza. A volte decido di localizzare il problema nella stanchezza, a volte nel pulire in senso ampio, oppure ancora sulla scarsa soddisfazione che dimostra il computer nel battermi a scacchi. Decido di localizzare il problema nella scrittura, nell’impossibilità generica di capire quando un testo è a posto e non va toccato più. Un saggio giapponese mi tirerebbe fuori la storia degli haiku, mi addormenterei dalla noia. Gli direi, come un tempo: quando finiscono le cose? E lui mi guarderebbe e mi direbbe: ma vedi, Simone, non c’è nessuna cosa. Diana e io penseremmo ad Occidente e ci guarderemmo negli occhi, le prenderei la mano sopra il tavolo e ci diremmo che le cose non finiscono mai. E quindi i testi che scrivo non li finirò mai di pulire, a meno che non nascano già puliti e poi non si tocchino più. È questo che pensavo quando dicevo che l’essere, maiuscolo, è essenzialmente infrazione? Non so. Sono stanco, non so di che parlo. Allora forse, se l’essere, maiuscolo, è infrazione, e ogni nascita un aborto mancato, quello che ora dovrei fare è tener premuto il tasto canc, tenerlo premuto a lungo, ma nemmeno eccessivamente, ché quattrocento parole fanno in fretta a cancellarsi. L’essere come infrazione è una cacata, è pieno di morale, e vorrei a tornare alla perfettibilità dell’essere. Che ciò che è, per il fatto che è, è perfetto. Non può essere altrimenti. Diana, se non dormisse, mi guarderebbe negli occhi e mi direbbe che non si può saltare così da un opposto all’altro. Me lo direbbe un po’ preoccupata. Hai ragione, Diana. La faccio talmente semplice, anzi, la faccio inutile, la riflessione. È ancora agosto, che ha questa capacità negativa, sul finire, di rallentare. Sono le due e ventisette ma io non trattengo il tempo, scrivendo che sono le due e ventisette. Non lo trattengo, non lo eterno. Goethe direbbe: Attimo! non te ne andare, sei così bello. E io lo scriverei nella Panda del padre di Silvia, una sera di non so quali tempi passati, ubriachi in giro per la città. Il padre di Silvia la mattina dopo sarebbe andato a lavoro con quella scritta sul parabrezza, e anche allora l’attimo, anche allora, sarebbe passato. Adesso, che la storia acquista un quasi senso, alias giustificazione di esistere, forse, mi metterò a rileggere e pulire quello che ho scritto fin qui, e questa pratica durerà per chissà quanto. O forse lascerò perdere, solo rileggere e poi andare in un posto più comodo di questo a leggere Lowry.