Un ipotetico lunedì della nostra vita. Della mia vita. L’ora è imprecisata, non saprei desumerla dalla luminosità della stanza. Il telefono squilla strappandomi dal sonno e da sogni che mi strappano da questo lunedì e da questa ora imprecisata. Il telefono squilla ed è un ipotetico lunedì della mia vita, un’ora imprecisata. Perché poi lunedì? Non potrebbe, piuttosto, essere giovedì? Perché deve essere lunedì, l’inizio di una nuova settimana, quella prima apparenza che formerà la sostanza di questa ennesima, benché ipotetica, settimana della nostra vita. Della mia vita. Questo lunedì segna il passo, segnerà i passi successivi e tutte le successive mattine di questa ipotetica settimana, che è come dire la vita. Squilla il telefono, ma non dice ancora niente. Non dice nello specifico se questo squillo anticipi o preceda un altro suono proveniente dallo stesso telefono cellulare, ovvero la sveglia fissata sulle nove e mezza. Nell’incertezza dello squillo, che potrebbe essere posteriore oppure precedere la sveglia, nell’incertezza dell’ora e nell’incertezza che si ha quando si è risvegliati bruscamente, si risponde. È il padre. Questi saluta il figlio, chiede se dorme ancora e il figlio, questo ipotetico io, mente, dice di no; imposta la voce in un modo che vuol suonare risoluto e al contempo naturale. Un ‘no’ credibile. Il padre elenca allora tutte le cose che lo hanno occupato nel suo lunedì mattina operoso, ipotetico, ma di certo operoso. Dunque la sveglia non è suonata. Tu, il figlio, a carico, inoperoso, apprendi da una serie di informazioni che passano telefonicamente tramite la voce del padre che sono le due del pomeriggio. Il padre propone di incontrarsi, giusto cinque minuti per prendere un caffè, ché gli impegni di questo suo lunedì impegnato non gli impediscono comunque di adempiere esemplarmente i suoi doveri di padre, amorevole, operoso, nei confronti del solo figlio studente universitario di cui si prende carico. Il figlio si negherà ancora, pensando rapidamente alle occupazioni notturne, allo studio, alla scrittura di un breve commento a Kafka, cioè quello che gli dà la febbre e che il padre non capirebbe. Ci si è provato a spiegare, ma non si è spiegato bene; forse è l’altro a non aver capito (o a non aver voluto capire), ma fa lo stesso. Le visioni del mondo lontanissime: non è certo una colpa se il padre non capisce, è naturale. Quindi si nega ancora. Niente caffè: non si può interrompere lo studio, mercoledì c’è un esame di letteratura, uno degli ultimi, deve andare bene per poi ricevere una parola positiva, di sfuggitissima, dallo stesso padre che, di fronte all’operosità del figlio, presunta perché di fatto lo si presume inoperoso, buttato in qualche bar nei dintorni della facoltà, o peggio ancora a letto, non può che accettare il suo rifiuto; in fondo è scomodo raggiungere in macchina la zona del centro dove il figlio studia. I due si salutano, il padre chiamerà ancora, mercoledì verso la stessa ora, per sapere l’esito dell’esame. Il figlio rimane con il telefono in mano che segna sullo schermo le quattordici e zero quattro, prova un senso di malessere che si ostina a non voler chiamare senso di colpa in seguito ai suoi studi su Nietzsche e al non fondamento della morale. Riflette per un attimo, di sfuggitissima, se una sua metamorfosi in scarafaggio sarebbe una sorte orribile o piuttosto la sua salvezza.