Questa storia di spaccare le finestre è già successa una volta. Ero bambino e si giocava a scuola. Si giocava nell’ingresso della scuola dove il pavimento è liscio. Non ricordo a che gioco si giocava, ricordo solo Cosimo Ciulli spinto da qualcuno che distrugge una vetrata col corpo. Oggi, se ci penso, penso che a spingerlo fu Federico Pratesi, che era (che è) del segno dell’ariete come me, nato un giorno prima. In lui localizzavo il male, mentre io ero il bene.
Del resto non sono affatto sicuro che fu lui a spingere Cosimo Ciulli contro la vetrata, magari qualcun altro, o forse proprio io, ma no, non credo, che se fossi stato io suppongo me lo ricorderei. I vetri che si frantumano a ogni modo hanno qualcosa di incredibile: la sospensione, la lucidità e la lentezza che precedono lo schianto, il senso di irrevocabilità, le schegge appuntite e mortali, la gravità (nel senso della forza gravitazionale e non solo) e la fragilità. Dicevo, e forse citavo, qualcosa che avevo già scritto (e quindi ora cito una citazione), cioè che la mia miglior qualità è quella di dimenticarmi le cose, anzi di dimenticare tutto. È una qualità, certamente, ma non è un merito, cioè io non è che sono meritevole perché mi dimentico delle cose. Fatto sta che Cosimo Ciulli non morì né si fece nulla. Ci sgridarono e dopo ci vietarono di giocare nell’ingresso dove il pavimento era così liscio, ma quello che voglio dire è che in sostanza non successe niente. E ora che ci penso un’altra volta ancora si ruppe una finestra, non so se in quella scuola felice o in una successiva e più infelice, e anche allora non successe niente. Nel senso, ripeto, che non morì nessuno, che non c’era un bambino in una culla lì sotto, e non successe niente nel senso che la punizione fu nessuna, perché in effetti nessuno era troppo responsabile, perché eravamo dei bambini certo, ma anche perché i vetri semplicemente si rompono.
Ieri ho frantumato una finestra nel patio, due piani sotto al terzo dove abito. È stata la prima azione della giornata. Non l’ho fatto di proposito, ma riconosco le mie responsabilità. Che su certe cose non ci si può distrarre, si deve stare attenti, che i vetri si rompono e tagliano e non si incollano. Tutto, rispetto alle volte passate della mia infanzia, è incredibilmente più complesso, inutile approfondire, spiegare le dinamiche e sostare a considerare come la situazione sia ancora irrisolta, e io aspetti il ritorno dei vicini del piano terra che sono al mare, per poter così recuperare lo scheletro della finestra, vedere se ci sono danni, pagare questi ipotetici danni, assumermi le mie responsabilità e, se è possibile, espiare le colpe. Ma le colpe sono inespiabili, i vetri rotti si tirano nella spazzatura, se si è civili nella raccolta differenziata.
È stato un giorno di merda e nei giorni così, in cui io finalmente localizzo i miei complicati e totalizzanti e astratti problemi in un solo problema preciso, poi faccio tardi a leggere un romanzo che mi entusiasma, ben oltre il limite della stanchezza (a cui mi oppongo) e solo dopo mi concedo il lusso di scrivere una nota per oppormi alla dimenticanza, o per altre ragioni che ora non voglio indagare. Sul divano col lenzuolo sudario, mentre due francesi dormono nelle due stanze della casa, la finestra tre piani sotto distrutta e il bisogno di parlare d’altro, di appuntare di case che ho visitato in questi giorni, dove i rubinetti del bagno perdono acqua, e non parlo di gocce, ma di un getto continuo, e sapere poi dalla padrona di casa, che non è chiaramente la padrona e non è padrona di niente se non del suo corpo, che il rubinetto perde da mesi, da prima che lei arrivasse a Triana, ma che quella casa sarà presto abbandonata per sempre e quindi niente. È questa la mia generazione, dei nati negli ottanta, giusto a metà. O forse sono io che mi identifico negli altri per sentirmi meno perduto e meno solo. Rubinetti che perdono da mesi in delle case che tra poco abbandoneremo.