Concerti al Volume

Calcutta

Edoardo Calcutta, Volume, Firenze

Il fatto che io fossi di Rockit non sembrava impressione Calcutta. Forse aveva capito che mentivo. Mi ero anche portato un’agendina e ho scritto alcune frasi prive di senso, fatto domande insensate, sulle foglie, sul suo nome e sulla sua fidanzata, argomento che riemergeva anche durante la lettura di tarocchi. Chiedevo qualcosa su quelle sue occhiaie, come se le fosse guadagnate, ma era tutto un po’ in salita per il fatto che l’intervista era iniziata con io che confondevo la sua provenienza, invece che Latina dicevo Olbia e lui c’era rimasto male.

Si iniziava tardi, che ormai le giornate si erano allungate. Si entrava al Volume e c’erano quelle dieci facce, che ormai ci conoscevamo tutti, ed eravamo quasi innervositi che le americane sedute in prima fila continuassero a parlare e non scomparissero, come poi facevano. Occupavamo noi con i nostri corpi e spazi, quei posti in prima fila, come omini di cartone, come sagomati, e pure così il Volume era deserto, uno svuotino avrebbe detto Pro Loco, io avrei pensato solo ad un problema comunicativo, ma era certo più complesso.

Calcutta, che si chiama così per nessun motivo, o anzi sì, perché gli piace il modo in cui tale nome si può sillabare, sì, come tutto, aggiungeva, cominciava dalla punta, dalle sue canzoni più forti, Asciugamano, poi quell’altra canzone spagnola scritta il giorno prima con Pop-X e io avrei dovuto capire che questo sforzo iniziale aveva a che fare con il nostro comune segno zodiacale, zodiaco che dopo il concerto Gioacchino per rendermi ridicolo mi diceva di dirlo di tutti i calciatori della Fiorentina, i presenti, ovviamente e nemmeno quelli posteriori al mercato invernale, e io li dicevo, o ne dicevo un po’ fino ad arrivare al segno di Wolsky e di Gioacchino stesso, scorpioni. Così Calcutta e le sue occhiaie cantava con questa sua voce così bella, così udita, con quella sua chitarra e voce, con quei suoi testi semplici che io per la prima volta dopo martedì e martedì non mi sentivo come se la mia vita fosse in discussione, con Diana affianco a me e i miei amici passati a cena e dopo scesi in piazza con me e ancora una settimana e la casa senza contratto e la busta di equitalia, non mia, come tutto, che tenevo in tasca del giubbotto. C’era ancora tempo per quei cappotti appesi agli angoli del Volume, angoli che ormai conoscevamo tutti e là appesi, i nostri cappotti.

Continuo la mattina successiva ad ascoltare Calcutta, i suoi pezzi lunghi, Mi piace andare al mare in bici, mi fa sentire libero, che ho scaricato da internet, qui al solito caffé della mattina, era allegro Calcutta, malgrado quello che dicesse Gioacchino, che invece di dischi avrebbe dovuto vendere dei cappi a fine concerti, io lo trovavo sorridente, comprensibile come lo sono io, semplice e superficiale, quel suo studiare il portoghese, ma portoghese di Brasile e io che gli parlavo di rimando di Chico Buarque e lui mi diceva, mm no, là non ci sono arrivato, e io dicevo ma guarda neanche io, me lo consigliava Spotify, lui sapeva che piaceva a una mia vecchissima fidanzata, non vecchissima nel senso che lei fosse vecchia. Era scorpione, come mia madre. Poi mi parlava di New York, di quel suo tempo là in cui si era fatto uomo, in cui aveva capito niente, come con i libri che aveva letto, girato per le feste, ma diciamo meglio: a una festa, e poi era tornato in Italia e ora viveva a Roma e c’era stato anche un duo, inizialmente, ma facevano tutt’altro, batteria e un’altra voce, poi era arrivata la rottura, per le solite questioni di soldi, donne, invidia e loro si erano solo salutati, ciao, anzi peggio, come sempre accade in questi casi, tra uomini, senza tirarsi i capelli, solo parecchio risentimento e delusione ingiustificata e lui si era trovato solo, con questa fidanzata a cui pensava sempre e a cui non scriveva le canzoni, e certo, quelle sue occhiaie.

Continuo a ascoltare quella sua Canzone, che ormai è mia perché l’ho scaricata da Youtube, quella sua canzone ripetitiva, che sembra un po’ la traccia finale di un album allegro, in cui si lascia e si vuole lasciare un messaggio positivo, seppur poco chiaro, rifarsi al mare, la bici, l’amicizia, archetipi in definitiva da italiano medio, ma roba su cui: fermi tutti. Riguardo ancora il quadernino, e vedo che ho scritto i luoghi in cui Edoardo, così si chiama Calcutta di nome, vive e dove vive il suo vecchio compagno di musica, a volte si incontrano e si salutano: lui a Torpignattara e l’altro a Centocelle, o viceversa. Vedo anche scritto che la musica che facevano insieme era musica: design, poi una parola che non riesco a leggere, Emmanuelle, Scream, qualcosa di urlato, ma con tematiche sentimentali, mi sembra di ricordare, ma la mia ricostruzione potrebbe essere inventata. Poi erano le due e mezzo di notte e l’ora che io salutassi tutti, Giacomo al piano, Neri ai tarocchi e Calcutta con le sue questioni sentimentali in testa, il futuro, che fare?, e Giulia con la sua giornata piena di impegni e i camerieri del Volume come angeli custodi di tutto quello e le loro serate piene di impegni e Tommi Tanini con il kebab tra i denti e il suo amore romano, ora che io tornassi al mio.

16 aprile 2014

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Concerti al Volume

Pro Loco (Trevius)

Trevius, Pro Loco, Firenze, volume,

Il temporale, la corsa in bicicletta, poi la piazza, svuotata. Si arrivava al Volume che il concerto era appena iniziato, lamentando il fatto che cominciavano quando cazzo gli pareva. Sul palco Trevius e Giacomo Laser eseguivano Traccia Uno.

Le prime file e poltrone erano occupate da avventori generici e quelli venuti per il concerto erano pochi, forse dieci, o quindici al massimo, ma nessuno sembrava rimanerci troppo male, non Trevius e nemmeno Neri e tantomeno Giacomo Laser, ma questo non è possibile dirlo, che le sue espressioni erano invisibili sotto la sfera verde che aveva in testa, e allora solo un’analisi dei suoi movimenti corporei avrebbe potuto dirlo (il suo stringere con entrambe le mani il microfono, come un cono gelato da bambini, il suo muovere le mani a dividere lo spazio, come in una liturgia già vista, che se avesse avuto un gatto in braccio io non ci avrei visto niente di strano – ma forse ora che ci penso ci sarebbe stato da analizzare movimenti ancora più piccoli, o i dettagli minuscoli e penso ad esempio a quella macchia di vernice o colla o sperma sulla tasca sinistra dei pantaloni che si trascinava dietro da chissà quando, oppure un’analisi dei suoi organi interni, una radiologia del suo intestino, o forse ancora tutt’altro: un’analisi con i massimi esperti internazionali di cartomanzia e divinazione, di quelle carte di coppe e denari sollevate davanti a Neri a fine concerto – ma forse anche così sarebbe stato difficile capire cosa pensava Giacomo Laser e nello specifico del fatto che al concerto dei Pro Loco non fosse venuto quasi nessuno).

Ho appuntato sul mio taccuino alcune righe, che adesso riporto. È una strategia nuova, atta a ricordarmi le cose, rispetto a quella adottata finora, di lasciare semplicemente passare e poi vedere quello che si è sedimentato. Non so francamente quale tecnica sia più utile, ma ho pensato che forse mi avrebbe aiutato a restare più vicino al concerto. Scrivo così:

Traccia Uno: musica sacra. Traccia Due: Ferro da stiro. La prima traccia, 38 mn, avrebbe purificato come il fuoco i peccatori seduti nelle prime file. C’era questa tipa che si opponeva, che ballava la sua canzone interiore e provava anche ad argomentare circa il senso, di quel martedì sera. Poi appunto l’onda d’urto della musica sacra la polverizzava e non restava niente.

Ricordo anche questo, che Trevius era molto calmo e a volte sorrideva e dal muro dietro lui, dall’intonaco della parete uscivano dei volti di colore rosso, ma a lui, Trevius, non importava niente e forse non li vedeva che era occupato con i tasti e Giacomo Laser chissà, forse lui li vedeva, e parlava del padre e di quelle quattro settimane di silenzio, mentre risuonavano di sottofondo tutti i suoni dell’universo che Trevius voleva e sceglieva e la sala si svuotava e si restava là a veder comparire i volti dall’intonaco.

Avrei chiesto circa quel suo rifiuto della parola, suo di Trevius (non del padre di Giacomo Laser, quello lo capivo bene), se fosse un rifiuto o cosa, e lui diceva che era solo una pausa, che era un periodo, con gli occhi saettanti da uomo religioso, che teme l’eresia, che crede nella parola. Dopo il concerto, che durava troppo poco, secondo alcuni, come per quei gruppi affermati che si permettono concerti di 50 minuti e biglietti da minimo sessanta, come è giusto che sia, loro salutavano e ringraziavano e si rimaneva ancora un poco là davanti al Volume, in cui io chiedevo qualcosa circa la sua scelta di rinunciare alle parole, qualcosa circa quella musica sacra e se gli importava della gente che andava via e lui rispondeva con i suoi occhi di ghiaccio, come aveva detto il mio coinquilino Lapo, ore prima nel corridoio di casa, che non gli importava tanto, che era la natura delle cose, che per capire il perché e il per come di tutte quelle mie domande ci sarebbe voluta un’analisi fin troppo complicata di questioni e fattori socio geografici economici, che in definitiva Firenze era così, un posto come Venezia, dove non contava e cambiava poi molto quello che tu potessi e volessi fare e dire, che le cose sarebbero andate benissimo comunque, che tutto era talmente bello, con quelle barzellette razziste, il tipo che partiva per il Giappone la mattina dopo, ma non poteva vedere niente, e poi i papponi e i camerieri e i venditori di rose, nella piazza svuotata per la pulizia della strada.

Circa Traccia Due, la ricordo più conflittuale, meno distesa, diciamo così, meno rotonda, più da battaglia, come se fosse sopravvenuto un pensiero di riflesso su quella sala svuotata, rimasta deserta tranne per alcuni estimatori del genere, ma più che genere direi alcool o situazione o quei volti e quella maschera là sul palco e sempre quelle note che potevano dialogare con gli organi interni. Il concerto era finito e io tornavo verso casa salutando i nuovi amici e mi sembrava che stavolta il mio chiedere e intervistare fosse stato meno totalizzante, che la rinuncia alle parole di Trevius e quelle carte dei tarocchi, quelle prime identiche, mie e di Laser, dicessero qualcosa che se io non capivo fino in fondo non fosse tanto per un limite di quelle carte, ma per un limite mio, e questo non capire non facesse di me niente da colpevolizzare, che fosse semplicemente così, che dopo tutte quelle carte di coppe, ci fossero proprio altre coppe, il valletto, a sancire il mio limite, quello che provo e provavo io. Ma cosa importa cosa provo io?

Stavo bene ieri sera, dopo la cena con Diana, dopo il bene che le voglio e la bicicletta sotto il temporale e poi una casa e un martedì ancora, che tutto davvero era in equilibrio e ripensavo al martedì prima quando Niccolò faceva quel numero di prestigio con la sigaretta e la banconota e ci sarebbe stati altri martedì ancora, successivi, così tutto tiene, penso in quel solito bar della mattina, mentre il caffè americano si raffredda sul tavolo, non so che fare, come per quei tarocchi, ma tutto tiene.

Pro Loco era un figo.

9 aprile

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Concerti al Volume

Pop-X

Pop-x, Volume, Firenze

Ancora un martedì al Volume, tra la folla ammassata, pensavo a varie cose e alcune specifiche domande, che ormai il mio ruolo e le mie nuove responsabilità lo esigevano. Pensavo a Theodor Adorno che in un suo racconto giovanile di cui ho scordato il titolo, un raccontino di nemmeno tre pagine in cui scrive principalmente di se stesso, parla tra le altre cose del potere e della critica che il potere vorrebbe criticare. Inizia così: Hai fatto torto al potere, come se parlasse a se stesso o alla critica in persona. Ricordo solo questa frase. E sempre in quel testo si fa notare che la critica ha la sua ragion d’essere proprio sull’oggetto che voleva criticare, che vive perciò di questo scandalo interno.

Questo dicevo a Davide dei Pop-X dopo il concerto, per metterlo spalle al muro, a lui che mi sorrideva con i suoi denti un po’ a punta e il volto vagamente kafkiano, che diceva: No, non è così, io ho un buon rapporto con quello che te chiami il potere, le canzoni pop o dance o di Jovanotti, è musica che a me piace, o magari è musica -e penso a Jovanotti- che nel momento in cui è uscita non poteva essere udita perché sovrastrutturata, ma che si meritava di essere salvata e se merito è eccessivo, diciamo solo che mi piace, che io ascolto qualcosa e quel qualcosa mi piace.

Così diceva più o meno Davide dei Pop-X usando meno parole di quelle che ho usato io, circa quella mia prima e unica domanda con cui pensavo di metterlo spalle al muro, ma lui le aveva già da prima e si verificava quindi una sorta di rotazione planetaria per cui le spalle al muro le avevo io. Era un movimento rotatorio che si univa a un pensiero che avevo avuto prima, mentre di fronte a me, al concerto, brillavano le luci strobo e gli occhiali luminosi si illuminavano al ritmo della musica e Davide si muoveva come una scimmia e il suo percussionista batteva delle bacchette su un tamburello. Il secondo pensiero era dedicato ai pianeti che ruotavano quella sera dentro la stanza, e quindi c’era lui, Pop-X che era al centro del sistema solare-serata, con la sua luna percussionista e attorno a essi, che pure ruotavano, c’erano vari pianeti e penso a Giacomo e indubbiamente Giulia e subito dopo Neri e Lapo e Anna e Garna e Ferro e Lucia e molti altri tra cui me stesso, defilato punto di osservazione sullo spazio e infine un pianeta che gravitava lontanissimo e dormiva nel mio letto in fondo alla piazza ed era Diana, un pianeta o stella distante, ma pure presente e solo verso la fine del concerto io mi mettevo a osservarne uno ancora, di pianeti, ed era Niccolò, cantante del famoso gruppo musicale dei …. che gravitava pure lui in quella stanza-cosmo e io lo riconoscevo e lo osservavo da un angolo della stanza chiedendomi se, dopo quei suoi testi e quelle sue canzoni, se fosse in grado di divertirsi ai concerti divertenti; provavo a capire solo guardandolo che tipo di pianeta fosse, di che materiale, se fosse un pianeta umido o secco, lento o veloce e me lo continuavo a domandare anche dopo, mentre parlavo di Adorno e annotavo su un minuscolo taccuino le risposte di Pop-X. Niccolò allora ascoltava la mia intervista, con uno sguardo scettico, verso quel mio taccuino, quel mio scrivere veloce con una matita e quei fili che si formavano e quel registratore con cui segnavo tutte le cose che Davide rispondeva.

Quindi, diceva Niccolò, sei in questa dinamica di interviste e io me ne rendevo conto in quel momento là, in cui lo diceva, che non mi stavo comportando come si comportano le persone quando fanno amicizia, ma come quando si cerca qualcosa, un linguaggio proprio e Niccolò faceva una canna e non mi riusciva di chiedergli niente di niente, solo un brevissimo accenno a Nabokov, che lo lasciava sorridere impercettibilmente, era un secondo, e poi di nuovo quel suo registrare il registrato, il suo correre veloce nel sottobosco, in un territorio non delimitato che si è fatto nemico, ma io non so cosa dico e forse era semplicemente il nostro essere entrambi Arieti, quella nostra polarità planetaria, che ci impediva di scoprirci fratelli, e io pensavo a quel mio passato dove c’era stato lui eppure lui non c’era, a quelle sue canzoni che lui si era portato sulle spalle, come ci si porta una zaino o un vecchio padre quando si fugge dalle città in fiamme, ma non so che dico, ripeto, ho dormito molto poco, Diana dormiva già e io ho fatto tutto piano, la piazza svuotata, la pulizia delle strade a rendere più netti i contorni e la mattina una tendenza ad accelerare, per poi entrare al mio lavoro non-glamour un’ora prima, perché c’erano da fare i bilanci di fine mese, e poi quell’appuntamento in Via del Drago d’oro con gli scrittori fiorentini di altra generazione e altri impegni ancora che andavano a sovrapporsi come orbitali, al mio pensiero di me durante il concerto e quegli occhi rossi di Pop-X, come le scimmie in quel film thailandese che vinse a Venezia o Cannes, Zio Bonmee che si ricorda delle vite passate, quel film che guardavo in Spagna per addormentarmi, sera dopo sera, senza mai finirlo, quando ancora mi facevo tutte quelle canne e ascoltavo già allora Niccolò cantare, e tutto era ancora molto distante da come si sono messe le cose oggi, con questo mio non fumare e casa e sistema planetario strutturato in cui ci sono così tante variabili e cose da dire che non basterebbe la carta dell’universo e lo spazio virtuale illimitato non potrebbe comunque sopportare la tensione di un pensiero come quello.

Ma il riferimento al film e al mio passato e gusto musicale non lo dicevo durante l’intervista, che sarebbe sembrato fuori luogo. Poi si tornava nella grotta Volume a bere ancora qualcosina di impercettibile, pulviscolo, che non avrebbe spostato molto i valori la mattina dopo e i ragazzi terribili suonavano gli strumenti e Giacomo conquistava tutti cantando le sue canzoni e Davide suonava il pianoforte e a volte non si ricordava gli accordi mona e Niccolò si rifiutava di suonare perfino una cover degli 883 o riadattare Velleità a quel momento e stanza. Poi erano le tre di notte e Neri i suoi aiutanti avevano solo voglia di andare, che oggi è mercoledì e il sistema continuerà a ruotare anche domani e i pianeti torneranno ad allinearsi, tra un certo tempo e in un altro spazio, ma non più quella sera, che era andata così, e dopo la sveglia che suona, il solito bar di elezione e un affitto non ancora maggiorato, da pagare.

2 aprile 2014

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Concerti al Volume

I Camillas

Camillas, Volume, Firenze

La complessità dei Camillas e io là davanti, nell’oscurità a finirmi le unghie.

Sarebbe forse cominciato così il pezzo, e così comincia. Ma poi sarebbe stato tutto diverso, avrei parlato di me, che mi alzavo stanco lo stesso, anche se ero andato a dormire presto e la mattina facevo tutto con calma: arrivare al bar in orario, sedere al tavolo d’elezione, il primo sulla destra, nella saletta quella luminosa e avrei scelto quel tavolo specifico non tanto per una questione difensiva, che da là riuscivo a controllare chi entrava e usciva, così le fiere non mi avrebbero attaccato, quanto tutto l’opposto: per un fatto di aggressione, mia, di gerarchie degli affetti, che quel luogo io me lo sono conquistato. Avrei detto qualcosa del genere e poi avrei parlato della complessità dei Camillas, del loro essere colti, estenuanti, del loro criticare così smaccatamente chi li ascoltava e avrei parlato anche della mia incapacità di avvicinarmi a loro, mentre era stato così facile avvicinarmi a Cristiano che quasi si era avvicinato lui a me. Cristiano che avrebbe suonato prima dei Camillas e mi aveva parlato piano di altre date e di vino, come si può parlare prima di un concerto, con una leggera tensione che poi sarebbe scesa dal suo volto, ma solo dopo, dopo quelle sue canzoni dolci e dopo quelle dei Camillas così complicate che la mattina mi svegliavo e mi sanguinavano ancora tutte le pellicine.

Poi le cose sono andate diversamente, dicevo, e in particolare la mattina io non sono riuscito a svegliarmi e arrivare in orario anche se nessuno mi aspettava, al bar della mattina. Fatto sta che qualcuno si era già preso il mio tavolo, qualcuno che neanche avevo mai visto. Come sia stato possibile questo ritardo non ha niente di strano, sono sempre in ritardo, ma questo specifico è conseguenza di qualcosa che in parte, inconsueto, lo era, ovvero che la sera del concerto avevo fatto tardi, e anche qui tutto normale, avevo fatto tardi al termine del concerto dei Camillas, perché io ero diventato un vero giornalista musicale, anche se per meriti non miei e intenzioni sconosciute, riuscendo quasi a intervistare uno dei Camillas.

Così ho fatto davvero delle domande e non ho appuntato le risposte, ma è stato utile a capire che quasi tutto quello che avevo pensato su di loro, tutta la complessità, l’essere ubriachi, l’aggressione e addirittura l’odio per quel pubblico che rideva alle battute era roba mia, e adesso che ne scrivo qui nel bar e ancora mi titillo le pellicine arrossate ripenso a come sia possibile andare così lontani dal capire, e mi domando anche cosa volesse dire Giulia con quelle parole di sfuggita fuori dal locale, che li sentiva per la prima volta anche se era il suo decimo o undicesimo concerto e non tanto perché non ci si bagna due volte nello stesso fiume, come dicevo io tanto per riempire blandamente un discorso che non capivo o cesellarlo, ma cesellare niente, era tutt’altro, quel suo discorso che poi terminava in un pensiero ulteriore, che forse era lo stesso pensiero o forse non era un pensiero e sarebbe in sostanza la differenza tra fare qualcosa e dirla. Allora Giulia mi prendeva per un gomito e Giacomo le diceva, mentre gli passavamo davanti: Sì, Giuglia, prendi Simone per un gomito e portalo là, e così eravamo davanti ai Camillas e io mi avvicinavo all’altro che rimetteva a posto i cavi e dopo c’era quel suo discorso così calmo, così poco atto a mettere in discussione tutta la mia intera vita.

Allora era il mio viso ad essere disteso e non solo quello di Cristiano, e i Camillas non erano fratelli ma quasi e avevano iniziato a somigliarsi come una coppia e la mattina Toto avrebbe lavorato nella costa est dell’Italia e io, avrei ripensato a quel suo discorso sul successo, quelle sue declinazioni oscillanti tra tirarsi schizzetti di merda addosso o poter arrivare a un pubblico più ampio, ci ripenserò ancora la mattina dopo, qui seduto a un tavolo che non è il solito, al mio bar di elezione, seduto a un tavolo dal quale non riesco a controllare quasi niente a causa della posizione, chi entra e chi esce, in ritardo di circa un’ora su tutte le mie abitudine e quel ritardo poi me lo proietterò sulla giornata, ma sto bene o benino e mi lascio leggermente scivolare sulla sedia, scrivendo di quell’ennesimo martedì da questo mercoledì e stasera ci sarebbe perfino una partita di calcio e dentro la mia testa un’asta, come dentro ai qualunquisti, ma non ne sono sicuro che ci sia quell’asta, per fortuna non lo sono e anche le intenzioni, sempre sconosciute.

26 marzo 2014

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Concerti al Volume

La Tosse Grassa

Tosse grassa, Firenze, Volume, recensione

Che cos’è il culto della Tosse Grassa?

[Frattanto i glicini sono in fiore. Le foglie si intravedono appena, viene quasi da domandarsi se spunteranno mai, se siano previste le foglie per questo tipo specifico di piante da fiore. Non è ancora il mese più crudele, ma poco ci manca. Il glicine che forse non vedremo sfiorire dalle finestre di questa casa, da lasciare. È tutta una questione di case: di persone che si spostano da case a case, mentre studentesse al Mama’s Bakery parlano di horror vacui, come me, ma davvero non ne possiamo parlare]

Lui, il cantante della Tosse Grassa, non lo spiega, durante il concerto, cosa sia questo culto della Tosse Grassa, di cosa si tratta, ma fa riferimento alle nostre mattine, successive al concerto stesso, in cui ci sveglieremo e ci troveremo là a chiederci cosa sia tale culto e chissà inizieremo a celebrarne il rito. Inconsciamente? Il rito consisteva forse nel bere: Beviamo, diceva. Stamani una tisana depurativa e adesso un caffè lungo americano. Ieri una birra, un vino rosso, comprato da Marcello Newman, poi quello che rimaneva della grappa amarone, poi un whisky offerto da Anna. Beviamo. Studentesse dell’Istituto d’arte, qui di fronte a me, bevono caffè americano e parlano di triboli: a Tosse Grassa non sarebbero piaciute, o forse sì, avrebbe detto qualcosa di abbastanza affilato su di loro.

Ieri al concerto con Lapo, Marcello e Sophie, dicevo loro che un po’ il gruppo, ma nello specifico lui, la Tosse Grassa in persona, respingeva, questo era il verbo e lei, Sophie, mi domandava cosa significasse la parola. Io le facevo una sorta di gesto, con le mani, e spiegavo che era l’opposto di accogliere. Gioacchino, dopo i balletti a occhi chiusi, mi avrebbe parlato di tabù, il tabù fa quell’effetto là, con gli occhi lucidi per essere passato dall’oscurità alla luce, con il sorriso largo per chissà quali nuovissime alleanze, e Giulia affianco a lui. Ne scrivo qualcosa adesso, mentre queste mie studentesse davanti ripetono a voce alta la lezione su Masaccio, la vita di Masaccio, Santa Maria Novella e le stazioni? Le trovo davvero preparatissime sull’argomento.

Dicevo di Giacomo, a cui chiedevo qualcosa sul culto, il culto della Tosse Grassa, ma poi si finiva a parlare di tutt’altro. Lo guardavo, il cantante, là vicino a noi con ancora addosso i suoi anfibi bianchi, ma si era rimesso la maglietta. Ed era così sensibile, così discreto nei suoi modi, niente affatto il tizio ingestibile che avevo visto prima sul palco, urlare con l’elmetto da aviatore e le corna di vitello, il suo petto nudo peloso e grasso e quel porta pene africano tenuto davanti, come un ostensorio. Era molto tranquillo e rilassato e conciliato dopo il concerto e quasi sembrava un’altra persona, con il viso più disteso e lontani tutta una serie di tic d’artista, quel tirarsi su gli occhiali, ma solo dei movimenti molto lenti e attenzione all’altro. Così si accorgeva che io lo guardavo e mi guardava di rimando. Lo salutavo dunque, e gli chiedevo di geografia, perché mi sembrava impossibile affrontare un qualsiasi altro tema, dopo un concerto del genere, avremmo potuto parlare ora che ci ripenso delle mie studentesse, ma non mi è venuto e forse lui era uscito dal personaggio e non avrebbe avuto troppo senso come argomento.

Poi era mattina e io mi preparavo a uscire e andare al bar a scrivere due cose, con di fronte la ragazza dei problemi alimentari, sulla destra e a sinistra le studentesse che invece sono nuove e più in là ancora altre, che se qualcuno dovesse leggere questo mio e non avesse visto il concerto di ieri mi potrebbe quasi denunciare per pratiche innominabili e avrebbe poco senso replicare parlando di letteratura, di finzione, dire che non è vero niente, perché ha ragione Giacomo, anche se non capisco fino in fondo le sue parole, che questa letteratura mi infetta, che mi riguarda da vicino, come un porta pene africano riguarda quello a cui è adibito. Poi chiudevo tutto, velocemente bevevo il mio caffè americano: dopo mi sarei messo a scrivere qualcosa sul calcio così da passare una mattina, aspettando di entrare a lavoro.

19 Marzo 2014

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Concerti al Volume

Marcello e il mio amico Tommaso

Marcello, Volume Firenze, recensione

Fuori dal Volume, una Piazza, c’è Giacomo con il berretto da impresario che gli ho portato io da Boston e forse una mezza sigaretta che pende dalle labbra. Si muove con le spalle incurvate, si muove calcando i passi, com’è sgraziato Giacomo, ma non lo è per niente quando suona con Giulia, lui allora si aggira con il viso truce e il concerto deve ancora iniziare e non inizierà a breve che i Marcelli son tutti là fuori a mangiare la pizza con la fame degli adolescenti, con una fame e degli occhi di gente che ha vent’anni e forato la macchina mentre venivano qua da Roma. La prima cosa che dico loro è che la voce di Marcello è tutta diversa da come pensavo fosse, pur essendo di fatto riconoscibile a quella già sentita nell’album. E’ quella stessa voce, ma è pure un’altra. Faccio il mio ingresso nel mondo delle interviste ai musicisti con questa cazzata qui.

Il concerto poi va bene. Loro sono bravi, tanti là sul palco, e reggono bene la stanza stretta, angusta, gli americani seduti nelle prime file, reggono bene la loro giornata lunga cominciata in un’altra regione. Suonano il loro pezzo tormentone senza farne un caso, quando gli viene richiesto. Diana allora se ne può andare contenta e io rimango là, tra le prime file in ordine a dialogare con Giacomo ancora impresario che finalmente comincia a rilassarsi e tutto semplicemente va bene. Poi il concerto è finito e noi usciamo là fuori, la Piazza, dove si parla dei nostri progetti, brevissime interviste, calcio, In Fuga dalla Bocciofila, e altri progetti ancora, con quel modo che abbiamo noi di parlare delle cose ultimamente e così poi continuiamo a parlare con questi ragazzi di Roma che non hanno trentanni, che mi parlano di S.Lorenzo, del Pigneto lontano, di come si sono conosciuti Tommaso e Marcello, una volta tanto tempo fa che quest’ultimo ancora non parlava italiano e andava alla casa al mare, ad Albinia, ad Anzio, qualcosa con la A., non mi ricordo e là ci stava –sì, ci stava, nel senso che c’era– anche Tommaso che già allora giocava a calcio di Cristo, come ora, che gioca come un olandese, come Crujff, e là al mare nemmeno diventarono amici, solo si videro di sfuggita e parlarono la lingua internazionale del calcio o dei bambini e semplicemente costruirono i presupposti per l’incontro del futuro, quello sul Lago Trasimeno, in una minuscola isola dove si davano appuntamento i musicisti di mezza Italia o del centro Italia. Così là si riconobbero, ma anche quella volta finì là. Poi ci fu un terzo momento che avrebbe fatto di loro un loro specifico e un gruppo, ma di quello non abbiamo parlato, che qualcosa deve essere sopraggiunto, forse c’era da spostare la macchina perché pulivano le strade.

Poi Neri ha fatto i tarocchi, poi Giacomo e Giulia hanno suonato così bene, come una coppia alla Fitzgerald, come suonano bene quando non possono suonare che mezzanotte è passata e loro continuano a farlo pianissimo quasi al rallentatore o nel replay della moviola, e poi erano le tre ed era già mercoledì e domani c’era del resto da lavorare, quindi si andava a casa a fare una canna anche se io avevo proposto una tisana ed ero stato ringraziato, cortesemente, ma no, la tisana non la vogliamo che comunque siamo in tour e potremmo al limite drogarci e scopare, ma mai bere una tisana depurativa prima di dormire. Si parlava allora di letteratura, di Buzzati, di Un amore,

La mattina Marcello si presentava in cucina con la sua faccia appena sveglia quasi inglese e mi raccontava le ultime cose, come se io stessi facendo un’intervista a lui, e in effetti era così, ma mi chiedeva anche di me, della mia vita, delle mie mattine, del mio yoga e del mio ufficio, di questo quartiere, come se non facessimo interviste o non interviste di un certo tipo. Poi io uscivo di casa e gli spiegavo di chiudere bene la porta quando uscivano. Cominciava il mercoledì.

12 Marzo 2014

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