1. Lezioni di yoga (Patricia)
Tutte le insegnanti di yoga che ho avuto erano donne pazze. La prima era un’americana con un viso da copertina e malgrado vivesse in Italia da anni, che avesse sposato uno di qua e che avessero pure una figlia, parlava un italiano orribile.
Andavo al suo studio in Corso Buenos Aires quasi ogni giorno perché fare yoga mi aiutava a non fumare e così dopo qualche mese eravamo diventati amici o quasi, pur senza comunicare mai, visto che io non parlo l’inglese e lei non parlava italiano. Eravamo diventati amici ugualmente perché la vedevo ogni giorno e riuscivo a capire dal suo modo di insegnare quando non c’era con la testa per le sue beghe personali, e così un giorno che doveva essere terribilmente triste e depressa, perché il suo matrimonio era alla frutta o forse suo marito le aveva detto che si sarebbero lasciati di lì a poco, e lei doveva averlo capito chiaramente malgrado i suoi problemi con la lingua italiana, un pomeriggio mi disse: vedi Simone, io lo so che tu scrivi racconti e di certo giudichi il mio italiano imperfetto, ecco ti chiederei la cortesia di fare caso a quando sbaglio qualcosa, un verbo, un sostantivo e dirmelo, magari al termine della lezione. Disse tutto questo in modo semi incomprensibile, mezzo in inglese mezzo in una lingua inventata da lei, fatto sta che io capii e le dissi: certo che sei veramente una grande maestra di yoga se hai intuito la mia avversità nei tuoi confronti dovuta al fatto che non parli la lingua del paese in cui abiti da anni, ma questo mi limitai a pensarlo e le risposi soltanto: va bene Patricia, lo farò, scandendo bene ogni parola e guardandola intensamente negli occhi.
Invece non lo feci mai, perché di lì a poco le lezioni di yoga iniziarono a saltare con sempre maggior frequenza a causa dei problemi personali della maestra e noi allievi ci trovavamo puntualmente davanti al portone sprangato a lamentarci di come facesse schifo quello studio e che la nostra insegnante non poteva farsi i cazzi suoi a quei livelli. Fu così che in molti decisero di cambiare palestra, mentre io ripresi semplicemente a fumare come un turco e ci misi anni prima di rimettere piede dentro a un altro studio di yoga.
2. Un enorme stronzo galleggiante (Ophelie)
Tutte le coinquiline con cui ho abitato erano donne pazze. Non penso tanto alla mia coinquilina tedesca Anika, che svuotò sul mio computer la pennetta Usb adducendo non so quali ragioni di spazio e solo in un secondo momento scoprì che dentro la cartella ANIKA c’era una sotto-cartella con scritto PRIVATE e al suo interno c’erano circa 100 giga di foto con le sue sessioni di sesso on line con il fidanzato Heindrich.
Senza volermi dilungare dirò solo che quelle foto zozze avevano qualcosa di inquietante e deprimente, che guardai attentamente una sola volta e poi cancellai, non perché Anika non fosse bella, ma per quel clima da morte a Venezia, tardo Impero, inquietanti sia le foto di lei che di lui, ma più quelle di lei. Quelle di Heindrich, o come lo chiamavo mentalmente la bestia bionda, erano più che altro banali, ma quelle di lei avevano qualcosa di oscuro e triste, di mobilio scadente sullo sfondo, di malato, di ombra sugli occhi, di tubercolotico, malgrado quelle pose provocanti da rivista erotica.
Ma non è questo a cui penso quando penso a coinquiline pazze. Penso principalmente alla mia coinquilina francese Ophelie, che era veramente una persona perbene e precisa e puntuale nei pagamenti e puliva sempre la casa ed era quasi nobiliare nei suoi modi e gesti e attitudini, ma poi regolarmente ogni volta che tornavo a casa e la trovavo al tavolo, in salotto a lavorare al pc, io entravo nel nostro bagno comune e trovavo ad attendermi dentro il water un enorme stronzo galleggiante. Ogni giorno che tornavo a casa questa storia.
Tuttavia per pudore io reagivo sempre come se niente fosse, tiravo l’acqua e mi dedicavo alle mie attività di igiene personale. Dopo uscivo dal bagno e la guardavo perplesso, là seduta al tavolo del salotto, sotto i suoi occhialini da precisa, e lei mi guardava di rimando, senza dire niente, abbozzando soltanto un sorrisetto. A distanza di anni mi chiedo cosa volesse comunicarmi Ophelie con quel sorriso, quale psicologia da gattino domestico, o se non fosse invece un disturbo mentale anche grave di cui sarebbe meglio fare poca ironia.
3. Solo questo (la sorella di Giovanna)
Le sorelle di tutte le fidanzate che ho avuto erano donne pazze. La sorella di Giovanna la ricordo pazza e bellissima. Le due sorelle e la madre abitavano in un quartiere a sud di Pescara, quartiere Fragolino lo chiamavano. La madre era una donna in carriera per cui non stava quasi mai a casa e tornava solo alla sera, così che prima del suo arrivo io dovevo sempre sgattaiolare via: la incrociai solo una volta e aveva indosso un tailleur, ma potrebbe darsi benissimo che questo particolare me lo invento.
La sorella di Giovanna era più grande di me di tre o quattro anni, che all’epoca ne avevo circa quindici. Vestiva sempre di nero e aveva capelli anche quelli neri e lunghi e liscissimi, e occhi truccati con eye-liner, mentre la mia ragazza Giovanna era tutta l’opposto, bionda e minuta, tranne per l’eye-liner che si metteva anche lei e che a quel tempo andava molto di moda.
Il padre era una qualche figura di cui non si poteva parlare né nominare, mi spiegò una volta Giovanna e che bastasse per le volte successive, alcolista o ex alcolista e al momento senza fissa dimora in una qualche stazione ferroviaria del centro Italia o centro Europa. Malgrado questo particolare le donne se la cavavano a meraviglia da sole e erano tutte e tre oggettivamente molto belle e autonome, ma in particolar modo la sorella di Giovanna.
Non ricordo il suo nome, ma ricordo chiaramente che all’epoca era fidanzata con il figlio di un famoso professore che insegnava storia all’Università di Roma. Giovanna mi raccontò che certe notti sua sorella e il figlio del professore uscivano a scrivere sui muri frasi del tipo: Viva Leone Trotsky! Viva Mao Tse Tung!, personaggi che all’epoca non conoscevo per niente, ma di cui andai a informarmi a grandi linee nella biblioteca della mia scuola superiore.
Non sono sicuro che la sorella di Giovanna mi rivolse mai la parola, ma ricordo che un giorno, ero a casa con Giovanna a giocare a carte per sublimare il fatto che non si scopasse mai – eravamo in cucina, a scanso di equivoci – la sorella passò senza dire niente alle spalle di Giovanna e il suo kimono si aprì mostrando il suo seno nudo. Solo questo.
Io non commentai in nessun modo l’accaduto.
4. La luce delle scale (Carlotta)
Le mie fidanzate precedenti sono state quasi tutte donne pazze. Ma la verità è che non vorrei dire nulla di male di nessuna e in particolare di Carlotta, e quindi dirò solo di come ci lasciammo, perché alla fine in qualche modo riuscimmo a lasciarci e fu una cosa veramente straziante e autolesionistica e creammo più fantasmi che il pianeta Solaris. Dirò di come ci lasciammo senza entrare troppo nei dettagli, esclusivamente quel momento finale, che ha qualcosa a che fare con la pazzia, io credo, o con il teatro, che sono poi due facce della stessa medaglia.
Stavamo là davanti alla porta della mia vecchia casa, quella casa che adesso hanno venduto dopo tutto il casino della gente morta dentro e oggi non sarebbe neanche lontanamente il caso di andare a suonare il citofono e chiedere posso entrare a vedere come è la situazione e parlare con i nuovi inquilini e dire loro che in quella casa ci ho vissuto per quasi dieci anni.
Ma la sera in cui mi lasciai con Carlotta, per lo meno da quel punto di vista, era ancora tutto tranquillo. Ricordo che era una sera di metà estate e che tutto era deciso: tra noi era finita, anche lei se ne era fatta una ragione e non restava che andasse via, non rimaneva nient’altro da fare. Ma il discorso davanti al portone si prolungava ancora in discorsi ulteriori, sempre nuovi. Oltre a questo, la luce delle scale ogni minuto che passava si spegneva lasciandoci avvolti da una completa oscurità. Tornavo a premere il pulsante di accensione della luce, mentre lei rimaneva immobile al buio, rimaneva immobile e in silenzio finché io non riaccendevo la luce delle scale e solo allora lei riprendeva a parlare, e quasi mi veniva il dubbio, nel momento in cui stavamo a mezzo metro di distanza senza vederci, che lei non fosse più là. Invece lei era ancora là, ma ancora per poco. Nei momenti di buio e silenzio era come se avvertissimo che di lì a poco quell’assenza sarebbe stata visibile, quella non presenza, o qualcosa del genere. Ogni volta dopo un minuto di discorsi inutili, discorsi che non avrebbero cambiato le cose tra noi, tornava a spegnersi la luce delle scale e noi stavamo nei nostri silenzi e oscurità, poi di nuovo riattaccavamo con discorsi a vuoto. E questo durò per tantissimo tempo, quasi un’ora io credo di luce e oscurità e sarebbe potuto durare chissà quanto. Finché il mio vecchio coinquilino Lopez uscì di camera e si offrì di accompagnarla a casa in motorino, perché la sua stanza affacciava sul vano scale e non ne poteva più con tutta quella storia.
5. Condannare e perdonare (Chiara)
Le mie amiche del segno dell’Acquario sono tutte quante donne pazze. Chiara per esempio, con cui adesso non ci vediamo né ci sentiamo più, era per certi versi una donna pazza e aveva dentro di sé questo senso del tragico dell’esistente per cui c’era sempre ciclicamente qualcuno da condannare e poi perdonare per qualcosa che aveva commesso e nello specifico quel qualcuno ero io.
Condannare e perdonare.
La cosa era stata anche divertente finché i motivi che la portavano a condannarmi erano per lo più stronzate tra amici o mezze litigate da ubriachi, ma poi un giorno arrivò nella mia vita la stella di Sigmund Freud, e così io andai da lei e le dissi: eh Chiara, ma ti rendi conto che il nostro è solo un rapporto inibito alla meta? E le spiegai tutto, così che ebbe inizio una parte della relazione non inibita alla meta.
Solo che dopo un po’ le cose scivolarono verso un piano promiscuo che lei non voleva accettare, anche perché io tendevo a non rendere eccessivamente manifesto e esplicito il tutto. E così le cose andarono in malora, e smettemmo con le nostre lunghissime chiacchierate inutili sulla vita dopo aver fumato, e in generale la nostra amicizia finì male, come sempre finiscono queste cose.
Era un Natale di tanti anni fa, io mi ricordo, le regalai un posacenere di design molto bello e indubbiamente pagato un sacco di soldi, ma fu solo quando lei lo scartò dalla confezione regalo e lo tenne in mano di fronte a me che io compresi qual fosse il vero regalo che le stavo facendo: un oggetto contundente con il quale avrebbe potuto tranquillamente uccidermi, tirandomelo in testa.
Non era pazza Chiara, era soltanto molto dura e sensibile, comunque il suo continuo processo di condanna e assoluzione si arrestò con quel posacenere di design, con cui si sarebbe potuto convertire in condanna e uccisione. Meglio così.