San Niccolò (2015- 2017)

Le cuffie erano verdi

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Dell’anno a Madrid non è rimasto quasi niente, soltanto delle cuffie verdi per sentire la musica che ancora funzionano malgrado siano passati anni. Cuffie che contro ogni logica non si sono rotte dopo qualche mese, che non hanno cominciato a funzionare solo da una parte né a grattare come gatti al mattino fuori da una porta, cuffie che non si sono neppure perse nei vari traslochi come sarebbe stato naturale, ma che continuano a produrre suoni nitidissimi, mentre tutto quello che riguarda Madrid si allontana e si confonde.
Forse fu un caso che le comprai di quel colore, al mercato del Rastro, o forse no: forse le avevo scelte verdi perché in quel periodo tutto doveva essere verde, per lo meno telefonicamente. Era un modo per parlar di droga al telefono: portami 5 libri verdi voleva dire portami 5 grammi d’erba, e noi si usava per parlare con gli spacciatori, anche se in verità compravamo solo eroina da fumare. Parlare d’erba al telefono era una doppia psicologia inversa, la polizia all’ascolto avrebbe pensato che trattavamo droghe leggere, e non cose più pesanti. Ci sentivamo molto furbi, a quell’epoca. Dei creativi.
Comprai le cuffie al mercato delle pulci e te le venni a portare in ospedale, dove ti avevano ricoverato già da una settimana. L’ospedale dove stavi era lontanissimo da casa, dalla parte opposta di Madrid. A volte venivo a trovarti in metro, ma più spesso con la bici di Natalia, per risparmiare i soldi del biglietto. Ci mettevo due ore e quando arrivavo ero completamente sudato e stravolto. Pensavo: che città enorme Madrid! Quanta gente ammassata nei suoi angoli! Non sono delle normali periferie queste, sembra un’enclave del Sudamerica. Erano carine le volte che venivo a trovarti con Darío e Natalia. Lui ti guardava e non diceva niente, magari ti portava in dono un libro di Machado e te dicevi: Grazie! Non dovevi! Ma perché non portarmi invece delle poesie un po’ di droga? Scherzavi. Cioè in parte scherzavi, in parte eri seria. Natalia ti abbracciava e piangeva, io solo cercavo di non pensare a niente, al fatto che si muore anche all’estero, e mi distraevo guardando la tua compagna di stanza, tossica pure lei, e il suo fidanzato. Avranno avuto quarant’anni ma ne dimostravano sessanta, lei come te alle prese con una gravidanza problematica, li guardavo e quanti sorrisi che mi facevano quando arrivavo e poi andavo via. Parlavano un dialetto andaluso incomprensibile, ed erano un pensiero felice perché se erano vivi loro, allora forse la città non ci avrebbe risucchiati.
Vivevamo a quel tempo delle vite normali, solo lievemente in pendenza. In pendenza come era la piazza dove stavamo di casa, e come del resto è tutto, a Madrid. Te la mattina lavoravi alla Escuela de Idiomas, non so come facessi ad alzarti, ma ti alzavi, mentre io dormivo fino alle due, poi mi svegliavo e uscivo a comprare un bocadillo o del gazpacho, compravo esclusivamente prodotti alimentari che sancissero il mio essere straniero, di passaggio, e di mangiare in generale neanche mi importava. Che avessimo iniziato a fumare eroina non era un tema centrale nelle nostre vite, o meglio, lo era, ma c’erano anche altri problemi e questioni insolute: le telefonate con mio padre, perché fossimo rimasti in Spagna dopo i sei mesi di Erasmus, perché filosofia, quale futuro.
A Darío non importava che io e te ci facessimo in casa, mentre alla cilena Natalia che era ultra-cattolica, dovevamo raccontare un sacco di storie, perché non si accorgesse di niente. Adoravamo il coinquilino Darío, il piccolo poeta messicano che lavorava all’ambasciata, ma come aveva fatto a trovare quel lavoro? Una volta al mese ci faceva entrare a delle feste d’altri tempi, meglio ancora, d’altri secoli.
Poi le cose si complicarono con la storia della tua gravidanza e del ricovero in ospedale. Darìo diceva: che volete fare col bambino? Sarà tossicodipendente, sarà sieropositivo. A me non importava perché c’era ben di peggio: che fosse un qualunquista, che diventasse un fascista, (sarà un qualunquista sieropositivo, rispondeva tra i denti Darìo), mentre te lo volevi tenere per forza.
Il giorno che ti portai le cuffie verdi in ospedale, la porta della tua camera era chiusa, solo un via vai di medici e di infermiere, e io e il tossico andaluso aspettavamo nel corridoio che ci lasciassero entrare, che ci dicessero qualcosa, ma nessuno ci diceva niente. Capimmo che c’erano dei problemi, ma chi stava male? Te o l’altra donna? Tenevo in mano quelle cuffie di plastica verdi, che per il caldo sudavano tantissimo. Mi sentivo stupido e patetico, con quelle cuffie in mano. L’andaluso era teso e faceva dei piccoli scatti nervosi, stava là a due metri da me con la sua faccia buona, ma io lo sapevo che sperava fossi tu quella che stava male, sperava come speravo io e come si spera in generale nella grande città di Madrid: senza speranze. Io pensavo solo alla strada lunghissima che mi separava da casa e da una fumata, che se eri morta, o se era morto il bambino, poi cosa sarebbe successo? Che ne avrei fatto di quelle cuffie verdi?
Erano tempi abbastanza belli e orribili quelli a Madrid. Rimangono i ricordi degli ultimi mesi in città e i moltissimi problemi con gli assistenti sociali, il volto crepuscolare di Darío che a poco a poco si allontana da noi e quelle cuffie verdi che ancora usiamo quando è notte e il bambino sta dormendo.

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Una risposta a "Le cuffie erano verdi"

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