Un ipotetico lunedì della nostra vita. Della mia vita. L’ora è imprecisata, non saprei desumerla dalla luminosità della stanza. Il telefono squilla strappandomi dal sonno e da sogni che mi strappano da questo lunedì e da questa ora imprecisata. Il telefono squilla ed è un ipotetico lunedì della mia vita, un’ora imprecisata. Perché poi lunedì? Non potrebbe, piuttosto, essere giovedì? Perché deve essere lunedì, l’inizio di una nuova settimana, quella prima apparenza che formerà la sostanza di questa ennesima, benché ipotetica, settimana della nostra vita. Della mia vita. Questo lunedì segna il passo, segnerà i passi successivi e tutte le successive mattine di questa ipotetica settimana, che è come dire la vita. Squilla il telefono, ma non dice ancora niente. Non dice nello specifico se questo squillo anticipi o preceda un altro suono proveniente dallo stesso telefono cellulare, ovvero la sveglia fissata sulle nove e mezza. Nell’incertezza dello squillo, che potrebbe essere posteriore oppure precedere la sveglia, nell’incertezza dell’ora e nell’incertezza che si ha quando si è risvegliati bruscamente, si risponde. È il padre. Questi saluta il figlio, chiede se dorme ancora e il figlio, questo ipotetico io, mente, dice di no; imposta la voce in un modo che vuol suonare risoluto e al contempo naturale. Un ‘no’ credibile. Il padre elenca allora tutte le cose che lo hanno occupato nel suo lunedì mattina operoso, ipotetico, ma di certo operoso. Dunque la sveglia non è suonata. Tu, il figlio, a carico, inoperoso, apprendi da una serie di informazioni che passano telefonicamente tramite la voce del padre che sono le due del pomeriggio. Il padre propone di incontrarsi, giusto cinque minuti per prendere un caffè, ché gli impegni di questo suo lunedì impegnato non gli impediscono comunque di adempiere esemplarmente i suoi doveri di padre, amorevole, operoso, nei confronti del solo figlio studente universitario di cui si prende carico. Il figlio si negherà ancora, pensando rapidamente alle occupazioni notturne, allo studio, alla scrittura di un breve commento a Kafka, cioè quello che gli dà la febbre e che il padre non capirebbe. Ci si è provato a spiegare, ma non si è spiegato bene; forse è l’altro a non aver capito (o a non aver voluto capire), ma fa lo stesso. Le visioni del mondo lontanissime: non è certo una colpa se il padre non capisce, è naturale. Quindi si nega ancora. Niente caffè: non si può interrompere lo studio, mercoledì c’è un esame di letteratura, uno degli ultimi, deve andare bene per poi ricevere una parola positiva, di sfuggitissima, dallo stesso padre che, di fronte all’operosità del figlio, presunta perché di fatto lo si presume inoperoso, buttato in qualche bar nei dintorni della facoltà, o peggio ancora a letto, non può che accettare il suo rifiuto; in fondo è scomodo raggiungere in macchina la zona del centro dove il figlio studia. I due si salutano, il padre chiamerà ancora, mercoledì verso la stessa ora, per sapere l’esito dell’esame. Il figlio rimane con il telefono in mano che segna sullo schermo le quattordici e zero quattro, prova un senso di malessere che si ostina a non voler chiamare senso di colpa in seguito ai suoi studi su Nietzsche e al non fondamento della morale. Riflette per un attimo, di sfuggitissima, se una sua metamorfosi in scarafaggio sarebbe una sorte orribile o piuttosto la sua salvezza.
Tag Archives: simone lisi
Vetri
Questa storia di spaccare le finestre è già successa una volta. Ero bambino e si giocava a scuola. Si giocava nell’ingresso della scuola dove il pavimento è liscio. Non ricordo a che gioco si giocava, ricordo solo Cosimo Ciulli spinto da qualcuno che distrugge una vetrata col corpo. Oggi, se ci penso, penso che a spingerlo fu Federico Pratesi, che era (che è) del segno dell’ariete come me, nato un giorno prima. In lui localizzavo il male, mentre io ero il bene. Continua a leggere
Parrucchieri
Andare dal parrucchiere è un rito di purificazione: ha in sé qualcosa di traumatico e allo stesso tempo di risorgimentale. Tendo a essere recidivo, ovvero torno dallo stesso parrucchiere per creare con lui un legame, per cui poi è sempre un problema passargli davanti quando già sono stato da un altro; quindi entra anche il tema del Tradimento che richiederebbe un capitolo a parte.
Quando ero bambino andavo da Roberto, perché i parrucchieri in genere sono uomini, suppostamente gay o almeno dubbi, e mi ricordo che il suo salone era per me un posto quasi intellettuale. Io parlavo a lungo dei Romani e delle loro tecniche di assedio o di guerra in generale, tema che mi era molto caro e che poi ho rifiutato.
Poi sono andato da Giosuè, vicino a Porta, che era di Certaldo e aveva fatto i soldi; lavorava con il trans Antonia che poi la sera incontravo al Babilon. Era un parrucchiere molto cool, ma troppo vicino casa, mi facevo problemi anche a passarci davanti e rientrare era un problema.
Qui a San Jacopino ci sono quattro parrucchieri, in due mesi che sto qui ne ho già provati un paio. Michele è stato molto stronzo e non ci tornerò mai più: mi ha tenuto sette minuti, tagliandomi i capelli con sufficienza, come si taglierebbero a uno che comunque di capelli non capisce e quindi basta far finta di tagliarglieli. Invece l’ultimo, oggi, si chiamava Marzio e mi sono trovato bene, anche se gli puzzavano le ascelle di sudore che quando mi faceva le basette mi arrivavano le folate. Siamo in estate, in fondo l’ascella puzzolente è inclusa nel prezzo, 13 euro, e comunque fra poco si parte e non so se ci tornerò, ma forse sì, forse Marzio diventerà il mio nuovo parrucchiere e saremo amici, gli racconterò i miei problemi o forse solo le cose che mi passano per la testa.
Angela
Angela aspetta dentro una lavanderia a gettoni, seduta, che si lavino i piumini. Non è nemmeno un anno che si è trasferita in una città nel nord, ma come sono cambiate in fretta le cose. Vivere giù era diventato impossibile. Per tante ragioni, ma prima fra tutte: lo sporco. Giù nemmeno esistono le lavanderie a gettoni, pensa. Ha come una vertigine, le sembra di essere a New York. Le sembra che il sole di febbraio fuori dal vetro parli con lei in un modo unico, come ritmico, come personale. Ma sono solo le cerniere lampo che sbattono, dentro la lavatrice.
Angela aspetta dentro la lavanderia a gettoni che i piumini siano puliti. Ha questa fissazione che tutto sia pulito, ha la fissa dei germi. Là al nord trovare lavoro è stato facilissimo. Lavora in un ufficio dal lunedì al venerdì, non le dispiace. Con i suoi colleghi e datori di lavoro si trova bene. Poi il fine settimana fa le pulizie a casa: c’è così tanto da pulire, sporco ostinato, che torna, che si ricrea costantemente, è una battaglia persa e che tuttavia deve essere combattuta. Sta bene dentro quella lavanderia a gettoni aspettando che il ciclo di pulizia a quaranta gradi sia terminato. Telefona alla sorella rimasta nella città del sud che le dice, nel suo dialetto lontano: Avevi la testa leggera, è per questo che hai chiamato? Per dirmi niente, solo per far passare due minuti?, mentre la luce che entra dentro alla vetrina della lavanderia a gettoni incendia la stanza. Sembra davvero di essere a New York, invece è soltanto una zona residenziale qualsiasi, in una città del centro nord d’Italia. Ma quasi le verrebbe da dire alla francese, de l’Italie.
Angela aspetta dentro la lavanderia a gettoni e telefona alla sorella che sta al sud, tanto per dirle niente, giusto per fare un saluto e poco dopo tornare a certi discorsi che si ripetono sempre tra loro, questioni insolute che non saranno risolte nemmeno da quella telefonata, da nessuna telefonata.
Angela aspetta che i suoi piumini siano puliti, dentro la lavanderia a gettoni, e vorrebbe che quel momento non finisse mai. Sa che quando i piumini saranno puliti, lo saranno solo per un attimo.
(Apparso il 31/08/2015 su Stanza 251)
La passeggiata
Camminiamo lungo la riva, tu ed io. È una mattina di giugno, la spiaggia è quasi completamente deserta, fatta eccezione per qualche cacciatore di arselle che a volte interrompe il suo lentissimo setacciare la sabbia per osservare il profilo della costa, in cerca della motovedetta della capitaneria. La sua tensione non ci appartiene, è soltanto sua. Noi siamo già lontani, già passati oltre, nessuna preoccupazione di ambito giudiziario ci opprime. Continua a leggere
Unghie e censura
Ci siamo amati mai?
Forse la tua domanda è una semplice provocazione e io dovrei prenderla così, senza stare tanto a ricamarci sopra.
Mi lasci questo biglietto, come se avessimo smesso di parlare e comunicassimo solo con messaggi cartacei lanciati tra me seduto e te seduta due metri più in là che fai le tue cose. Non è così: questo non è un racconto di Simenon.
Allora mi hai lasciato questo biglietto a cui non so francamente come potrei risponderti, se poi una risposta era prevista, considerata, possibile.
Fa niente, rifletto ora, ma mi viene da pensare alla tua domanda, alla domanda in sé e non a questo tuo gesto, alle ragioni che ti hanno portato a fare così. Neppure al perché e al senso di trovare il messaggio proprio oggi piuttosto che ieri. Neppure immaginare te che entri nello studio e lasci scivolare questo bigliettino piegato in 4 dentro al mio cassetto che non apro mai, quel cassetto con tutte le mie cose in disordine che rimetterò a posto ogni tre o quattro mesi. Quindi il tuo messaggio potrebbe essere là da chissà quando.
Ma non è questo che importa, ripeto, non su questo mi vorrei concentrare, quanto sulla domanda. Solo su quella. Su di me quindi, su cosa ne penso io. Pur essendo la tua una domanda al plurale, parli di noi, sul nostro amarci o non amarci, così che la risposta ipotetica è difficile, se non proprio impossibile, dal momento che tu non ci sei.
In effetti negli ultimi tempi sono stato piuttosto duro con te. Abbiamo litigato molto, e sopratutto in pubblico, con altre persone tra le palle. Era in quei momenti là che ho dato il peggio, che sono stato insopportabile. Non quando eravamo soli, che invece tornavo ad essere molto tenero con te. Non so questo che voglia dire né come lo si possa giustificare e comunque non c’entra niente con quella tua domanda scritta in viola, il colore della stilografica che mi ha regalato tuo padre.
Castrante non penso di essere stato mai, ma indubbiamente inflessibile su certe tue manifestazioni pubbliche, che erano tutte dimostrazioni di insicurezza. Quindi no, certe cose non le sopportavo e non le dovevi fare. Non penso tanto a certe scollature, se poi proprio volevi metterti qualcosa del genere, allora sarebbero state scollature molto poco scollate, colli a barca, canottierine comunque sempre sotto a schermare.
Poi a casa te le strappavo coi denti e rimanevi con tutta quella roba mezzo addosso, mezzo tirata su, e ci guardavamo felici, io credo. Ci guardavamo felici?
Te in effetti mi guardavi e dicevi: ti dico dopo. Mi sembra di ricordare che tutte le tue frasi cominciassero e terminassero così. Posticipavi la questione a dopo, a un secondo momento, a data da concordare.
Poi qualche volta, io credo, devo averti fatto anche presente la cosa, sì insomma, cos’è che mi volevi dire prima? Te allora mi facevi: prima quando? Ah niente, una cosa da niente, te ne parlo dopo, ora sono impegnatissima con questa unghia e con questa spilla per capelli con cui sto intrattenendomi a rappresentare un dramma greco, il Teseo, nella versione messa in scena da mio padre per la recita di fine anno dei bambini, lassù a Pian di Mugnone.
Va bene amore, rispondevo, ne riparliamo allora quando vuoi te. Per il momento c’erano solo i miei pieni e i tuoi vuoti, come dal macrobiotico. Nient’altro.
Penso a te che adesso sei lontana e ripenso che eri bella sempre, anche con quei vestiti che ti facevo mettere, con la tua chiavetta usb attaccata ad un filo, che si appoggiava ai tuoi seni. Quelle tue unghie che lasciavi crescere e con cui mi graffiavi la schiena e io ti dicevo: che banale! Ma mi piaceva e te le lasciavo tenere. A volte un’unghia si rompeva. Non te ne importava niente, se si rompevano, ma ti facevano male e a me la schiena.
Mi ricordo questo e neanche a me importa, di ripensare ad una certa serata di tanto tempo fa, quando si rideva della tua collana usb, delle tue unghie, di quei tuoi vezzi da donna, che avevano aggirato il mio visto censura. E là, a una cena inutile, io allora ridevo con il nostro ospite casuale delle tue unghie lunghe che paragonavamo a quelle dei chitarristi andalusi e dei cocainomani, ma che di fatto erano dimostrazioni della mia insicurezza, del mio non riuscire a trattenerti per niente.
La conferma al fatto che mi scappavi da tutte le tue parti, che già allora ti perdevo, che la mia strategia era pessima come a Risiko, che non avrei mai fatto niente con l’Oceania e il Sudamerica del tuo cuore. La verità stava in quella collana usb che te portavi così, come se niente fosse, o in quelle unghie mezze rotte: io lo capivo già allora quanto mi sarebbero costate.

(Apparso il 23/04/2014 su Stanza 251)
La regola delle tre pagine
Così avvenne l’incontro con lo scrittore Matthew Licht che non conoscevo personalmente, ma che avevo già visto molte volte nell’osteria di Grassina in cui avevo lavorato per anni come cameriere.
Allora non lo sapevo che lui si chiamasse così, né che fosse scrittore, ma quando lo vidi entrare a Villa Romana accompagnato dalla moglie lo riconobbi immediatamente perché era un tipo esotico, perché gli anni passati non erano troppi e perché aveva un viso cinematografico che io potrei riconoscere tra cento simili. Così lo domandai a Giulia chi fosse quel tipo con il berretto in testa e il giubbotto da cacciatore. Come si usa a queste serate mondane, lo chiesi con discrezione, a bassa voce ed evitando di guardarlo direttamente.
Lo scrittore Matthew Licht, come luce, mi rispose Giulia. Sì, pensavo io, ma in che lingua? E la risposta era: in tedesco.Licht -ovvero luce come mi aveva spiegato Gioacchino, mentre Giulia si era già dileguata tra gli invitati- era uno scrittore di romanzi blues, o forse un musicista, suonava la batteria. Scriveva dei romanzi, ma era anche uno scalatore. Era molte cose, a sentire Gioacchino, non faceva, era. Così ci eravamo ritrovati noi tre addossati a un muro a parlare, a parlare più che altro loro due. Ero silenzioso perché loro, Matthew Licht e Gioacchino, non lo erano per niente e mi guardavano fisso e dopo un po’ dicevano: certo sei ben silenzioso tu, per essere uno scrittore. Già pensavo io, essere uno scrittore.
Comunque poi a Matthew glielo avevo chiesto, dovevo chiedergli qualcosa, dovevo pur trovare un canale comunicativo. E allora glielo chiesi come facesse, come trovasse la costanza, no, nemmeno, forse gli chiesi solo: ma come si fa ad essere scrittori, come lo sei tu, che scrivi, mi dicono, romanzi erotici e ora, mi dici, un racconto lungo dove si parla in termini non specialistici di alpinismo?
Dunque, come, fu la mia domanda quella sera a Villa Romana, con Gioacchino già completamente ubriaco a molestare chiunque, tranne le persone sbagliate, e chiedere al fotografo ufficiale della serata che ci fotografasse perché eravamo importanti o lo saremmo stati, che ci facesse qualche foto a noi tre in quell’angolo, mi viene da scrivere rincón, che con Matthew lo scrittore inglese o forse americano ci fu un momento che parlammo in spagnolo tra di noi, dopo aver parlato di letteratura in generale e di quella ispano-americana in particolare. Lui parlò con marcato accento spagnolo, perdendo il suo accento italo-americano e assumendone uno tutto nuovo.
In un futuro remotissimo qualcuno le avrebbe viste quelle foto ufficiali dove si stava noi tre in un angolo, rincón, io, Gioacchino e Matthew Licht lo scrittore, a fare le facce serie come se fossimo già a pensare a foto ingiallite per il tempo, e magari quel qualcuno avrebbe detto: guarda te le coincidenze, che proprio quei tre all’epoca, non ancora famosi, si ritrovarono una sera per caso a un cocktail party qualunque, in una Villa Romana qualsiasi, a un’inaugurazione di una mostra generica e chissà di che parlarono, se poi riuscirono a parlare in mezzo a quella gente con tutto quell’alcool incorpo, in quel corridoio stretto e tutte quelle persone, soprattutto quelle donne che passavano là davanti con i loro vestiti fasciati e i loro occhi verdi lucidi distratti e direzionati verso i punti di fuga del corridoio.
Matthew e Gioacchino si erano già conosciuti, non so in quale contesto, in quale altra serata uguale o simile a quella, in un’altra Villa, con altri vini bianchi offerti, giusto per esserci, giusto perché si doveva esserci, o chissà perché. Lo so perché: per Giulia e la moglie mecenate di Matthew, per quelle donne che a quel mondo erano effettivamente dentro e non come loro, Gioacchino e Matthew, di rimbalzo, nel corridoio antistante, in virtù di quelle loro fidanzate o mogli.
Gioacchino aveva anche letto un suo libro, se non proprio letto almeno lo aveva sfogliato e così aveva voluto che ci conoscessimo, io e Matthew, o forse si annoiava. Aveva detto: ehi Matthew, lui è Simone, anche lui è uno scrittore. Lo aveva detto due volte, a voce alta, a prendermi in giro, per rendere tutto ufficiale, tutto difficile, per me. Così parlai con Matthew Licht in quel corridoio mentre Gioacchino fermava le persone che passavano e chiedeva cose assurde, e brindammo più e più volte, con del vino bianco, che a volte andai a versare io per tutti e tre, altre volte andò Gioacchino, mi sembra di ricordare, brindammo alla letteratura, ai libri, al Sud America e agli angoli come quello in cui ci eravamo messi, agli angoli quale famoso concetto kafkiano, perché luogo sicuro, dove tutto si vede, il luogo della verità.
Ma a quest’ultimo argomento non brindammo, lo dico io adesso, col sennò di poi, mentre cerco di restituire un po’ di quella mezz’ora passata là, parlando con lo scrittore Licht, i suoi quarantacinque anni, pelato, con la faccia molto americana, ma un’espressione pacata inglese. Un uomo ambitissimo dalle ricche signore di Villa Romana, come mi disse Gioacchino, ma irraggiungibile ad esse, poiché già preso dall’indiscussa leader di tutta quella baracconata di artisti, esperti, critici e curatori. Chissà magari era comunque possibile per le giovani, le curatrici; tuttavia, su questo punto Gioacchino non si dilungò, come se sapesse qualcosa ma preferisse evitare, da figura sospettosa quale lui è, che pensa sempre che ogni informazione concessa sarà prima o poi usata, come la pistola nel romanzo, e usata contro di lui.
Si parlò quella sera, con Matthew, prima di andare a una cena con alcuni artisti e i reietti della Villa, quelli non invitati alla cena ufficiale. Si parlò come a volte io ho parlato con gli scrittori, con un’attenzione speciale alle loro parole, al modo di dire una cosa, cercando di capire se stanno parlando o se stanno ricordando qualcosa che scrissero una volta e ora riusano, per stanchezza, abitudine, per semplicità, per scarsa voglia o per voglia di andare avanti al ritmo, di essere simili a quelli che furono, perché poi stare nel presente riesce male ad uno scrittore, penso ora. E anche io chissà dov’ero in quel momento, durante quel discorso con Matthew e durante tutta quella sera in generale, se pensavo a Diana lontanissima nella città in fondo alla strada, se pensavo al lavoro il giorno dopo oppure ai progetti futuri, un romanzo, un ristorante, la partita di calcio del venerdì o cose ancor più piccole, piccolissime beghe del presente che pure riuscivano ad allontanarmi da lì.
Così, come spesso accade quando incontro uno scrittore, gli chiesi come facesse a scrivere, come si facesse a scrivere, come faceva lui, se c’era una regola che seguiva, qualcosa, un trucco, quando ritagliasse del tempo alla vita, al presente così pure poco presente, per scrivere, al computer con la fronte lievemente corrucciata e gli occhi veloci a seguire le dita sui tasti e poi perderli e pensare ad altro.
Rispose di sì, che una cosa c’era, che lui si era dato come regola, e là citò credo Hemingway, quella di scrivere come minimo tre pagine al giorno, anche quando non c’era niente di niente da dire, tre pagine di parole di seguito, a forza, e qualcosa in quelle tre pagine non si sarebbe salvato, mi disse, ma avrebbe contribuito chissà come a fare di quel suo tempo il suo lavoro.
(Apparso il 23/02/2014 su Stanza 251)
L’occhio nell’ano
per Matthew Licht
S.A.S.N. Scrittura Automatica di Social Network
Le cose non si sono messe bene. Il periodo dell’anno, economico in generale, l’ufficio di collocamento chiuso di lunedì, la mia laurea poco spendibile.
Ho pensato allora di diventare scrittore, ma non avevo niente da dire. Niente di niente in assoluto.
Tuttavia non ho desistito, avevo un computer, connessione internet dei vicini e soprattutto tempo: ho provato con la scrittura automatica, una descrizione impersonale di quello che faceva la gente su facebook.
L’esperimento è durato una mattina da cui è uscito quanto segue.Non me ne vorranno i miei amici digitali e reali che mi perdonano sempre tutto se evito di sostituire i loro nomi veri con nomi fittizi.
Scrittura Automatica di Social Network
Sara si è messa con Tomaso (una sola s) di lunedì. Alle dieci e cinquantanove. Alle undici in punto, dunque un minuto esatto dopo il fidanzamento, Sara ha invece condiviso sulla bacheca un fenomeno in sé molto triste, circa alcuni cavalli, cavalli dell’ippodromo di San Rossore, che verranno abbattuti se nessuno se li piglia.
I due fenomeni, fidanzamento con Tomaso da un lato e cavalli morti dall’altro, moltitudini di cavalli da monta che verranno abbattuti, non possono certo apparire eventi scollegati, non lo sono, ma collegati tra loro indissolubilmente, così come lo sono le dieci e cinquantanove con le undici di mattina. Lunedì mattina.
Clara domanda a Simon, Francois e Coren se anche loro si trovino a Troyes, ma nessuno ha ancora risposto e sono già passati 42 minuti da quando Clara ha rivolto la domanda.
Quindi forse non sono a Troyes o forse non hanno voglia di vederla o altro da fare. Cosa, in questo lunedì d’Agosto? Cosa stanno facendo i miei omonimi francesi che non rispondono a Clara questo lunedì mattina? Saranno agli uffici di collocamento a cercare lavoro? No, il lunedì mattina è solo su appuntamento. Forse sono andati a portare dei curricula di persona. Deve essere così.
Carlos dice che “El nombre es lo de menos”, il nome è il meno. Ma in effetti lo spagnolo si capisce. Non capisco bene cosa c’entri il commento con la foto del vecchio Carlito brigante che non rivedo dai tempi del whisky a Malta e della tristezza e degli oceani di autoreferenzialità. Carlos, nella foto, è con gente sorridente tutta intorno. Lui ha l’aria che fa di solito quando parla di soldi e del padre. Ad ogni modo, la definizione, El nombre es lo de menos, continua a non dirmi niente. Basterebbe leggere i commenti, ben sei, per capire forse il senso di quella frase, ma sono certo che non li leggerò. Ciao Carlos. Ci vediamo, sì.
Eby alle cinque e mezzo di stanotte doveva avere dei seri problemi a prendere sonno. Lascia testimonianza di questo disagio tramite una breve storiella edificante. È la storia di un uomo ricco che dà un cesto di spazzatura a un povero. Il povero lo svuota, lo lava e lo restituisce all’altro con dentro dei fiori. Perché, chiede il ricco? Ognuno, dice il poveraccio, dà ciò che ha nel cuore. Io l’ho trovata una storia orrenda, sviluppata molto male da quello che l’ha inventata, un finale tutto da rivedere. Il povero, nella spazzatura, avrebbe potuto cercarvi del cibo o qualcosa da rivendere o da riutilizzare. Invece niente. Lo svuota. Ma che senso ha? Lo lava addirittura. Non ha proprio senso e sono sicuro che adesso Eby stia ancora dormendo con la testa piena di stronzate e risentimento. Per lui è ancora domenica notte.
Anche Valentina ha avuto un lunedì mattina all’insegna della morale semplice e cara di Nonna Papera. Dice, in spagnolo, che le cose migliori della vita sono gratis. E vedi anche che non ti confondano. Valentina iniziava il suo lunedì molto probabilmente inoperoso con questa affermazione. Il punto debole della frase sta ovviamente in quel “migliori”, che lascia comunque un margine abbastanza ampio per cose non migliori ma fondamentali che verranno pagate a caro prezzo, probabilmente pagate da qualcun altro.
Celine, che è gemelli e sempre un po’ in ritardo sul presente, ha condiviso adesso la copertina di “Le Monde”. Si vede Armstrong, l’astronauta, con alle spalle il bandierone americano. Tutto questo perché ieri, ed ecco la lentezza di Celine, il tale è morto. Il primo uomo sulla luna è esploso in circostanze niente affatto misteriose e adesso non si dica che non era una figura scomoda e che quella storia non sia stata una montatura mediatica per il controllo delle coscienze, come già sostengono da anni i meglio informati.
Con questa frase innocente non vorrei denunciare tra le righe alcun tipo di sfruttamento o pretesuccia sindacale di sorta, poiché dipende da me e solo da me che mi facciano male le articolazioni, per il mio riuscire a usare al computer solo l’indice e, in rarissime occasioni, il medio.A un anno e mezzo di distanza da quel testo spensierato o forse disperato, mi rigiro ancora tra le dita metaforiche e contratte questi appunti sparsi e penso per un momento che sarebbe bello, come in quei film che ora non guardo più, sapere dove sono andati a finire i protagonisti della storia, come in Animal house, se poi la memoria non mi inganna.
Basterebbe controllare su internet, ma so che non lo farò.
Comunque ci siamo capiti: quei film che finiscono e si ha un supplemento di finzione. Ci è dato sapere che ne è stato dei personaggi. Sì, mi piaceva l’idea di ritornare ancora una volta su quelle persone con cui condivisi una mattina di agosto e vedere che ne è stato di loro.
Questo forse servirà a capire come sto io oggi, o forse a niente.
Forse semplicemente a concludere questo testo.
Sara sta ancora con Tomaso. O forse è solo rimasta la spunta.
Pubblica una foto di sé, ad una vicinanza tale dall’obiettivo da mettere in rilievo la sua pelle, liscia, quasi bruciata per il flash della foto. È una foto che definirei intimista.
Non si vede la bocca, il luogo della seduzione; solo gli occhi, che guardano verso destra, verso in basso a destra e uno psicologo forse potrebbe dire se sta mentendo o dicendo la verità. Io no.
È una foto, ora ho capito, dove si riesce a vedere anche la bocca, ma quasi non si notava, a un primo sguardo. La bocca, come la linea del naso, sono semi-scomparsi per la luce del flash. Sara adesso lavora come ebanista, da qualche parte, nelle Marche, ha ancora una relazione sentimentale e ha messo una foto profilo in cui appare lievemente infelice, chissà se dipende dalla relazione, dal contratto di lavoro o da cos’altro.Clara non domanda più niente a nessuno. È stato il suo compleanno e tutti le fanno gli auguri. Ha compiuto venticinque anni e insomma anche la piccola Clara sta crescendo e lavora in una qualche situazione di etichette musicali indipendenti, in una Francia che da quaggiù si presenta tres cool.
Io non so con esattezza, ma a giudicare dal numero di like che non ricevono i suoi articoli di musica inascoltabile che propone, Clara deve fare roba veramente molto interessante e innovativa.
Non lo dico per salvare me e le mie cose desolate che pubblico sul social network. No, non sono le solite chiacchiere per difendermi indirettamente dalle accuse sul valore artistico delle cose che faccio in relazione al riconoscimento che se ne ottiene.Carlos ha quasi completamente smesso con i suoi commenti incomprensibili e ora posta soltanto foto di impianti sciistici innevati. Ricordo ancora il suo segno zodiacale eppure sono passati anni e anni senza mai cacarsi di striscio, neanche un saluto per Natale o un like a caso, o per pietà.
Sta leggermente imbolsendo, il vecchio Carlito e adesso mi chiedo se sopravvivrà alle annuali epurazioni che compio nel mio profilo facebook.
Se abbia ancora senso vedere queste foto, leggere questi brevi commenti ogni giorno che passa sempre più incomprensibili.
Eby, mi sembra di capire, aprirà un negozio di spezie e di riso e di té persiano, paese fantasmatico da cui egli proviene. Scrive ancora piccole storielle edificanti tipo quella del povero e del ricco e dei loro cestini, ma meno di un tempo.
In una recente riflessione parla dell’eterna lotta tra il bene e il male che poi sintetizza in un momento dionisiaco in cui egli si riconoscerebbe parte o parte integrante. La mia psicologia spicciola che raramente sbaglia mi porta a pensare che Eby continui a passare delle serate divertenti, che il negozio di spezie sia ancora notevolmente di là da venire e per il resto la solita bacheca zeppa di puttanate e donnine seminude postate da suo fratello maggiore.
Valentina è un mistero: forse si occupa di fotografia, che però è sinonimo da sempre di disoccupazione e povertà, almeno che tu non sia ricco di famiglia o trovi ospitalità in una mansarda. Quindi.
La trovo bene Valentina, fa delle foto abbastanza interessanti, ci sono dei riflessi, dei bianchi e neri in cui lei compare e scompare, io penso che dopo gli anni passati all’estero sia tornata a casa sua, come sempre accade, che sia tornata nel suo piccolo paese del sud e che là sia una sorta di profeta o fantasma e scriva frasi sibilline così da conquistare i ragazzi e le ragazze più belli di quando era una bambina e poi dedicarsi invece ai più sfigati e reietti del paese e agli animali in senso letterale, sempre per ragioni poco chiare, ma che si potrebbero leggere in relazione alla situazione socio-economica in cui lei si trova.
Che ne è infine della dolce Celine, del suo essere altrove, sulla luna, con un giorno di ritardo sul tempo presente? Pubblica una foto dell’estate, con la pelle color bronzo, lei che di solito è così algida. Ha i capelli corti, tiene in mano un cocktail dal nome esotico ed è con delle amiche attorno che fanno come lei.
Poi una foto di copertina dove un verbo all’imperativo e un’imprecazione americana invocano e impongono un immediato trasferimento a New York come soluzione alle problematiche in generale e in particolare a quelle del suo presente francese, dove le cose devono essere abbastanza statiche. Celine sogna ancora la luna ed è per questo che mi piace e le ho messo un like: a quella foto dove sta sul divano, quella in cui guarda verso l’obiettivo e non indossa le scarpe.
La casa di Gino
La casa prospiciente al fiume, un giardino senza amore e giusto alla fine un gazebo.
Quest’ultimo (in breve) casa nella casa e punctum. Per il resto si dica abete chiaro, manodopera in nero e materiale scadente. A uno sguardo dotato di immaginazione: quasi una baita montana.
«Una gazebo notevole, non c’è che dire, ma al limite dell’abuso edilizio».
«Sul cordolo dell’abusivismo».
«Un mezzo passettino oltre l’abuso».
«E va beh».
«Gino non c’è che dire, proprio un bel lavoro ‘sto gazebo, sarà mica troppo vicino al fiume? Speriamo solo che gli argini, beh hai capito».
Dentro al gazebo tutto è elegante. Vorrebbe esserlo. Non lo è. Elegante come certi bar che oggi hanno chiuso. Penso ad esempio al bar Cassiopea, te lo ricordi? ogni tavolino aveva il suo telefono e te potevi chiamare i tavoli vicini dove c’era gente sconosciuta, dicevi due cazzate, oppure delle frasi seducenti, del tipo, ciao come ti chiami? Stesso stile di eleganza dentro al gazebo di Gino. Divanetti bassi in pelle, brutti. Tavolini bassi di vetro, per stendere la coca. Se tutto è basso ci sarà un motivo e infatti Gino è un metro e cinquanta, quindi sì, torna. Qualche luce, peccato, l’impressione della stanza sarebbe cambiata molto con un’illuminazione adeguata. Mi chiedo se intervenire, se dirgli come posizionare le piantane, togliere quella lampadina che pende dal soffitto spiovente, ma poi mi fermo: non sarebbe giusto.
Lui comunque qua dentro ci porta le troie. Il più delle volte una sola prostituta, ma Gino è magniloquente, per questo usa il plurale. Plurali semmai i fruitori: Gino e gli amici, ma sempre di meno. Pippano la bamba, e dopo si spogliano e scopano con la troia nel mezzo al gazebo perché è un’abitudine che hanno e le abitudini confermano chi siamo. Per Gino è un po’ come la casetta sull’albero dei bambini, dove vale tutto. Comunque dei suoi amici non ci va più nessuno nel gazebo perché lui ha questa fissa di sbattere la sua enorme minchia sulla testa della prostituta e a volte è simpatico, ma poi tutte le volte diventa anche imbarazzante. Una volta, due tre cinque dieci, fa ridere. Ma adesso sono anni che lo fai. Ecco ciò che Gino ama fare nel suo gazebo, va beh, dirai te, è casa sua. Boh. D’accordo. Sarà.
Il resto della casa di Gino, quella non gazzebizzata, quella che rientra nel piano regolatore: veramente non ci fai caso passando per andare in giardino. Non la noti talmente è anonima. La tiene pulita sua madre; en passant Gino ha cinquantasei anni. La madre non abita là, ma fa le pulizie. Lei non ha il permesso di entrare nel gazebo, ma poi ogni tanto entra lo stesso e lascia tutto in ordine, così che Gino si arrabbia terribilmente perché la madre trova i resti dei pippotti, posaceneri pieni, bottiglie finite, mutande e calze sporche e preservativi pieni, ma poi Gino nell’ambiente ripulito ci sta meglio pure lui. «Eddai Gino, e puliscilo il gazebo»
(Apparso sul v° numero cartaceo di A few Words)


