1. Arte contemporanea & alcool
Siamo stati alla mostra, non si chiamano neanche più mostre, siamo entrati là che fuori già era notte, siamo entrati camminando sulla ghiaia che i nostri piedi scricchiolavano. Dentro la luce al neon berlinese. Era già iniziata l’inaugurazione, o come le chiamano adesso, per paura di incontrare certa gente siamo scivolati subito nella prima stanza di destra, dove stavano esposti i bastoni da selfie a cui avevano legato delle ginocchiere, e poi il tutto era stato ricoperto da tessuti africani. Erano i tessuti, ci spiegava poi l’artista, che si era procurato un giorno nel Lesotho (Where? Lesotho. Where? Lesotho, a state inside the South Africa state. Ah, sure), camminava un giorno in Lesotho, e aveva scelto una strada, e cominciato a raccattare della roba che incontrava in una strada africana, singola, aveva comprato la maglietta di Hello Kitty a una bambina, le maglie da cricket e da calcio a dei ragazzi che giocavano per strada, e altri tessuti, per poi tornare in Europa e ricoprirci i bastoni da selfie e con gli altri tessuti avanzati aveva deciso di cucirli tutti insieme a formare una sorta di tovaglia enorme, che stava appesa alla parete, quel passaggio non lo capivo per niente, cosa avesse in mente, ma lui lo chiamava: oggetto performativo.
Doveva essere un problema mio, o di traduzione, che lui mi spiegava le cose in inglese, traducendo i suoi pensieri tedeschi in una lingua che io a mia volta traducevo in pensieri italiani, così che i passaggi erano molteplici. Mentre l’artista parlava, io guardavo Carla che mi aveva dichiarato prima di entrare là dentro di essere nuda sotto il cappotto, ma perché? che pensava Carla?
Poi entravamo nella stanza principale, quella degli alcolici, e incontravo molta gente e alcune giovani donne sofisticate che sospettavo avrei incontrato e che mi salutavano come se fossimo in Francia: «Bonsoir Jean Marìe, ti vedo bene, come stai?» «Sto bene, credo, è che quando vengo qua mi sembra di non capire più niente».
Che casino la mia vita, pensavo, non mi riusciva di esprimere nessun concetto adeguato con le ragazze sofisticate e dove era finita Carla?, se in queste sere bevo come un pazzo, la colpa è senza dubbio dell’arte contemporanea.
2. La vita culturale del paese
«Ti dico che l’intero panorama culturale, in Italia, si regge su un sottilissimo equilibrio, che potrebbe collassare su di sé e implodere oggi stesso, in questo istante, un sistema che funziona in breve tramite delle persone che fanno delle cose culturali senza essere pagate, o magari pochissimo, o magari ogni tanto, e queste persone sono là che magari fanno altri lavori oppure quasi nulla e trascorrono mattinate oceaniche, e queste persone di cui parlo sono allo stremo delle forze, stanno per cedere, forse proprio domani o in serata, scriveranno una mail, un messaggio sul gruppo chiuso di Facebook, manderanno affanculo la loro associazione, il loro blog, la loro piccola rivista o il loro club degli amici di, e la smetteranno con tutto questo:
«Allora, vi volevo solo dire che per me basta così, da oggi non esiste che io dedichi ancora un solo secondo della mia esistenza a questa cosa tra virgolette basse culturale, mi dedicherò esclusivamente alla contemplazione, del televisore, lavorerò tutto il giorno alle Poste Private o dovunque capiti e guarderò il televisore nel tempo libero, nel fine settimana da mattina a sera, costantemente, di calcio in tv, di reality, di serie televisive americane, qualsiasi cosa essi trasmetteranno, sarò preparato su tutto quello che c’è di visibile, sull’intero spettro del visibile, una lunghissima estasi, sarà la mia vita. Vedrai, forse non sarà bello, ma sarà comunque qualcosa».
E la cosa più terribile del loro discorsetto, lo sai qual è? È che quando questo succederà, questione di momenti, non cambierà niente, perché sempre nuove retroguardie attendono di cadere, dietro le prime linee, giovani seconde linee culturali che stanno dietro le cosiddette avanguardie che attendono solo di fare la stessa sorte».
3. Che fine fanno gli studenti di storia dell’arte
Mentre lavoro, che se un’amica passasse davanti al vetro dell’ufficio per caso, io forse neanche me ne accorgerei, tanto sono presa, ma direi meglio: fuori di me, dal lavoro, dall’inserimento dei dati dentro al programma, ecco in uno di quei pomeriggi là, squillerà il telefono cellulare e io lo lascerò squillare silenzioso perché il lavoro ci renderà liberi, magari non proprio liberissimi, comunque non così libera di rispondere a ogni telefonata personale durante le ore lavorative. Squillerà ancora e sarà allora che io risponderò, per la seconda volta quel numero sconosciuto, e parlerà un voce che non sentivo da minimo dieci anni:
«Fiamma?, ciao sono la Zani».
«Ehm, sì, buonasera».
«Buonasera Fiamma, avevo chiamato anche prima, ma non mi avevi risposto. Sì, ti volevo chiedere semplicemente come sei messa in queste mattine, mi servirebbe che tu passassi da me magari il martedì e il giovedì, eh? come sei messa?»
Ripenserò allora alle lezioni di storia dell’arte che la Professoressa Zani ci impartiva a casa, delle lezioni integrative perché a scuola non c’era tempo, e ci invitava da lei con quella passione, le sigarette e i colori lasciati aperti e la creta, le mensole con le piante e i carboncini, lei che già era a un passo dalla pensione ma non voleva mollare, che non stava mollando e ci faceva vedere come si poteva vivere e ci raccontava di un futuro bellissimo, possibile, ipotetico, solare. Ci prendeva per il culo?
«Giovedì e martedì, beh in effetti io sarei libera, che entro qui in ufficio verso le una. Ma mi scusi sa, ma per fare cosa signora Zani?» (Un nuovo progetto di studio, una qualche iniziativa da organizzare, ho pensato, un nuovo mare, ancora oggi dopo dieci anni).
«Per fare le pulizie, e cosa sennò?».
«Le pulizie, mi sa che c’è uno sbaglio, io sono Fiamma Duchini, la sua vecchia alunna, si ricorda? forse cercava un’altra Fiamma…»
«Fiamma Duchini, che mi dici? Che errore! Scusami, pensavo fossi un’altra Fiamma, pensavo a un’altra persona». Così la telefonata scivolerà via tra qualche domanda imbarazzata della vecchia professoressa, che cos’è che fai adesso? Dobbiamo assolutamente rivederci. Ma non ci rivedremo.
Rientrerò in ufficio che fuori tramonta il sole, un mezzo sorriso e un mezzo pensiero che avrei accettato qualsiasi progetto avesse avuto da propormi quella vecchia professoressa, per il martedì mattina e il giovedì, forse perfino di fare le pulizie a casa sua.

Senza titolo, Giacomo Laser