per Leon F.
Alla curva dove finisce l’autostrada, tra l’aeroporto e i cantieri della tramvia, c’è la scultura di un piccione. È di quel sudamericano che fa tutte le figure grasse, Leon non si ricorda il nome. Fa tutto grasso, come si chiama? Boero? Butero? Bueno? Non importa. Non è una rappresentazione realistica, non è un piccione reale ma grasso come si vedono a volte a Venezia, è proprio una figura con una sua grassezza specifica che è semmai quella che definisce lo scultore.
Di notte i fari delle auto che provengono dall’autostrada si riflettono sopra la scultura e deviano la loro traiettoria: è un marmo nero lucido, Leon pensa tra sé e sé che potrebbe anche essere qualsiasi altra pietra o metallo in effetti, purché lucida, non importa, non cambierebbe niente.
Leon mentre cerca un parcheggio per l’auto guarda di sfuggita la statua del piccione e pensa che sarebbe stato meglio un altro animale, meglio un rospo, o un riccio, o un gatto, d’accordo, rappresentato grasso alla maniera dello scultore, ma meglio un istrice, più originale, o un cane randagio, sarebbe stato molto più adatto con le vite delle persone e con quel punto specifico, sempre meglio di un piccione.
Hanno messo il piccione perché là dall’altra parte della strada c’è l’aeroporto, ecco spiegato il motivo, si dice Leon, e quindi il collegamento che hanno fatto deve essere stato: gli aerei volano e i piccioni volano. Davvero l’assessore alla cultura ha fatto questo ragionamento, o chi per lui? Possibile le cose siano così banali?
Leon pensa di sì.
Questo è il modo in cui vanno le cose, questo mondo di piccole cose e piccole decisioni che condizionano la nostra vita.
L’assessore o chi per lui fa un collegamento mentale dei più banali e ti trovi una statua nel posto dove parcheggi di continuo.
Ti scivola una bicchiere di mano, si rompe, non c’è più.
Siedi alla guida in un certo modo per degli anni, sempre con le gambe incrociate e ti viene l’ernia cronica, oppure ti devono amputare un testicolo.
Oppure ti abitui a fare una certa strada per andare in un posto e poi un giorno scopri che ce n’era una più corta, con meno semafori, che ci metti la metà del tempo se passi dall’altra parte e allora cambi strada, e il primo giorno ci fai caso a come tutto sia stato in fondo inutile, assurdo, tutto quel tempo sprecato, ma sopratutto che questo non vale solamente per quella cosa specifica, ma che sia proprio TUTTO così, nel senso che non importa. Questa pensa Leon.
Hai fatto quella strada per una vita intera, hai la schiena spezzata, ci vedi poco bene. E non importa.
Il piccione grasso: Leon lo vede quando parte e quando torna con l’aereo. Vola spesso per lavoro. Vende vino. Produzione e vendita. L’aeroporto più vicino, un paio d’ore da dove si trova l’azienda vinicola. Le mattine che deve partire, prestissimo, percorre con la sua macchina la strada che prima non è che un semplice viottolo di campagna poi via via diventa una superstrada ad alta percorrenza, gli enormi svincoli, poi arriva a orari assurdi a quel trivio di strade aeroporti e statua e poi vola, ovunque, in Cina in America, e vende.
Leon parcheggia sempre la sua auto nel solito posto, dal lato opposto dell’autostrada: là c’è una via dove senza problemi si può lasciare. Non è un parcheggio sorvegliato, o a pagamento, ma nessuno dice niente. La lascia là anche per due settimane, e nessuno dice niente. Vicino a tutti gli aeroporti sono nati parcheggi a pagamento, dove prima c’erano campi coltivati, a olivi o a vigne, ma ora questi ex contadini hanno fatto talmente tanti soldi con i parcheggi a pagamento che tollerano che ci siano delle piccole strade, delle zone, di parcheggio selvaggio.
Leon l’auto la lascia in queste terre di nessuno perché conosce la psicologia dei vecchi agricoltori, li conosce bene e sa che non lo denunceranno, conosce la loro cattiva coscienza. Parcheggia là perché non vede il motivo di regalare i suoi soldi a quegli uomini che hanno dimenticato chi sono, un giorno hanno dimenticato con estrema naturalezza chi fossero, come se non fossero mai stati: perché dovrei dare loro i miei soldi, borbotta sembrando per un attimo più vecchio di quello che è. Forse l’avrei fatto anche io se mi avessero aperto un aeroporto accanto alla vigna, pensa eseguendo la manovra di parcheggio, mettendo con la punta del dito un po’ di saliva su un piccolo taglio che ha fatto radendosi, circa un’ora e mezzo prima.
Leon parcheggia abusivamente perché produce vino e non ha dimenticato niente e poi si tratta solo di attraversare la strada, la fine dell’autostrada, con la valigia, sono tre corsie, le macchine vanno veloci, si tratta di stare attenti, di non guardare il piccione grasso e i riflessi dei fari delle auto, si tratta di impugnare il trolley per la maniglia e non fermarsi a guardare i fari che annunciano l’alba, allibito per come un’altra giornata stia semplicemente scivolando su dei binari, fare una bella corsa di quelle che poi ti mancherà il fiato, senza pensare a niente.
In quel momento del mattino, quando cantano gli uccelli, quando ancora è buio e quasi albeggia, quel momento di sospensione: si tratta di capire il momento giusto in cui non passano le auto e andare.
Avrebbero dovuto scegliere meglio, pensa di nuovo Leon mentre aspetta di attraversare con le luci delle auto che gli illuminano il viso pulito e in un certo senso speranzoso (di che cosa?), avrebbero dovuto mettere la scultura di un riccio, di un gatto, di un rospo grasso, e non di un piccione.
Animali che si trovano schiacciati ai lati delle strade e non animali che volano.
Questo pensa Leon con le luci dei fari che lo abbagliano, e dopo pensa a come cambiano in fretta le cose, e a come questo cambio, in verità, non cambi niente.