Quando entrò nella mia vecchia stanza l’epifenomeno responsabile del divorzio dei miei genitori, nell’apparente dualità, io e mio padre stavamo montando un armadio ikeico. Non era Billy, ma uno di abete chiaro, più minimale ancora.
Era il periodo che mio padre si era fissato e argomentava riguardo al valore essenziale di avere un armadio. Essenziale nel senso di essenza. Ovvero l’armadio e l’interno di quell’armadio rappresentavano l’individualità più autentica del proprietario. E non in senso metaforico, quanto in uno strettamente letterale. Si era dunque reso manifesto che nella mia stanza di allora non c’era un armadio e questa assenza proiettava ombre lunghe che arrivavano fino al mio Spirito. O al mio Spirito secondo mio padre, che poi tende con l’altro tragicamente a sovrapporsi.
Ad ogni modo l’epifenomeno entrò nella stanza dove io e mio padre montavamo l’armadio-essenza mia più autentica. Entrò perché cercava un cacciavite per smontare il letto ikeico di sua figlia, la figlia dell’epifenomeno, che traslocava repentinamente in seguito ad una decisione irrevocabile e ad alcune vicende che ora non so definire e del resto già sono passati degli interi anni. Lui, l’epifenomeno, che non si aspettava di trovare mio padre, già che erano anni che non si vedevano più, lo salutò: “Ciao Andrea”. Con quella sua voce. Quella voce che pure ricordavo e anche oggi ricordo perfettamente. Con quale sennò? “Ciao Andrea. Come va?”. Nient’altro che questa piccola semplice frase, quasi che si fossero conosciuti e frequentati per anni, ma in un’altra galassia, in terre straniere. Quasi che quegli armadi che erano fossero sì quegli armadi, ma svuotati, o bruciati e ricostruiti con le braci, no, non lo so dire. Mio padre rispose con una risposta ad effetto, cosa che talvolta fa, perché il punto, come dice spesso, non è tanto sapere le frasi ad effetto, ma cogliere il momento esatto in cui usarle. Ma forse allora idealizzavo quella risposta ed in effetti ancora oggi che pure sono passati degli anni e dovrei pormi in un qualche piano critico, continuo a non voler decifrare quella frase, ma assumerla, e mi va bene così. Disse: “Non mi chiedere come sto, chiedimi quante case ho cambiato”. E citò la fonte, ovvero un qualche maestro orientale che un giorno a caso aveva detto questa frase e qualcheduno se l’era segnata senza farsi vedere su un quadernino ed ora la gente e mio padre ci avevano ricamato un pò troppo sopra. Non disse altro, mio padre, mentre l’epifenomeno disse solo che lui di case ne aveva cambiate ben poche, per quello che questo volesse poi significare. Prese il martello e andò via.
Allora che le Ere finiscono e le case si cambiano ha sostituito nella mia vita il monito dell’armadio e da un pò di tempo è tutto uno sbattere porte lasciando lì le chiavi di casa, su un tavolino all’ingresso, chiavi che saranno usate dal prossimo inquilino. Ancora sull’isola, a due giorni dalla partenza e sembra ieri che sbattevo il portone in Calle Pajarito, numero 9, e solo settimana scorsa che portavo via scatole dal Prato, a prendere la muffa nella cantina di Sesto. Ma oggi il monito si sposta ancora e lasciare una casa non vuol dire ancora nulla, perché c’è da lasciarla, c’è da lottare col padrone di casa che ti vuole inculare per bene prima che ti inculi qualcun altro. E’ il ritorno dell’eguale e questo andarsene è tutto uno sclerare al telefono, in un inglese quasi fluente, aspettando di sclerare di persona. Sempre con il coltello dalla parte della lama, mi riscopro ariete, a testa china verso la disfatta. Bisognerebbe partire in fretta, far le valigie in tre minuti, ma prima c’è da partire e non è roba da poco. Alla stazione il treno è in partenza eppure continuano ad arrivare passeggeri: una nonna con le borse della spesa -Alba- non vuoi aspettarla? e poi una donna con una carrozzina e un bambino -è mia madre- e sempre nuova gente che arriva quando stai per fischiare e se ti ci soffermi un attimo, te, controllore di treni in partenza, poi non partiresti mai.
Si lotta, ma per finta, sulle spiagge di rocce, come lucertole, con questo sole di marzo che non abbronza. Ma che è alimento, e forse basta.
29:3:2012