Lavoro alla centrale del latte già da due anni. Dico due anni, ma non ho una percezione chiara, del tempo, neanche lontanamente chiara. Ci penso solo quando mi domandano: quant’è che lavori alla centrale del latte? Allora rispondo in automatico che saranno due annetti, ma ora che ci penso un attimo è da più tempo che ci lavoro. Saranno quasi tre. Il tempo là dentro non passa, gocciola.
Lavoro in ufficio, alla parte amministrativa, anche se questa dicitura del mio lavoro è eufemistica per non dire fasulla. Perché io non amministro nulla, semmai sto al computer e vado dietro ai numeri che aumentano e decrescono (sono poi le medie di latte prodotto e una serie di dati correlati, tipo quanto ne vendiamo a chi, parlo alla prima plurale, io sono l’azienda). Per il resto rispondo. Rispondo sarebbe la risposta corretta (sic), quando mi chiedono di cosa mi occupo. Rispondo a stimoli, a mail, a telefonate. Una risposta deve durare massimo un minuto, per essere buona, penso una volta finito di rispondere e controllando il display.
Il mio ufficio è una stanza dai soffitti alti, una ex fabbrica di bottoni riconvertita in ufficio, in un angolo c’è una scultura di una mucca, giusto in un angolo e ci sovrasta. La scultura rappresenta la classica mucca da latte maculata bianca e nera, solo che è alta circa tre metri. È fatta di vetro resina e noi in ufficio la chiamiamo confidenzialmente La Vach. Come sta oggi La Vach? Sta da lunedì, rispondiamo il lunedì.
Il lavoro non mi pesa, o non troppo, rispondo a chi mi chiede com’è il lavoro d’ufficio. Scendo al mattino dall’inizio di viale Corsica, poi al semaforo con Piazza della Costituzione devo solo attraversare e sono arrivato. È comodo, rispondo a chi mi chiede del mio lavoro, vicino a casa, la paga nella norma. C’è qualcosa di particolare nel tuo lavoro?, mi chiedono a volte. Sì, rispondo, la cosa più strana del mio lavoro è che in ufficio sono il solo uomo presente. Ovvio che all’interno della Centrale del Latte ci sono altri uomini, dei tecnici e degli ingegneri che si occupano della manutenzione delle vasche in cemento e di quelle in acciaio o della revisione dei macchinari, uomini che sono incaricati di entrare con delle tute da palombaro dentro le enormi cisterne, che stanno giusto a fianco dell’ufficio. Ma, ecco il punto, nessuno uomo lavora dentro al mio ufficio, che è poi anche l’unico ufficio.
Non so esattamente quante sono le mie colleghe, ma se qualcuno me lo dovesse chiedere ci potrei pensare perché conosco i nomi di tutte, quindi vediamo: vicino a me ci sono Barbara, Alessandra e Michela. Poco più in là: Vanessa, Francesca, Stefania, Sara, Serena, Ilaria e Debora. Infine un’altra Barbara che va e viene soltanto in certi giorni. In totale fanno undici, undici donne in totale.
Lavorare con tutte queste donne è qualcosa al contempo di piacevole e di spiacevole, perché vivere in un ambiente iper femminilizzato non è sempre facile. Le donne hanno oramai il ciclo tutte nello stesso periodo (proprio come succede con le mucche, mi hanno spiegato), quindi ci sono dei periodi in cui l’ufficio è un luogo letteralmente impossibile.
A chi mi domanda come ho fatto a ottenere il lavoro rispondo sinceramente: è stato grazie alla raccomandazione di un vecchio amico, che poi sarebbe il direttore della centrale del latte. Giusto, perché nell’ufficio un altro uomo c’è, a pensarci bene, oltre a me ed è il capo, ma siccome lui lavora in una stanza dentro la stanza, accanto alla mucca gigante, ha un suo ufficio-box, per questo tendo a non conteggiarlo, oltre al fatto che lui sta là dentro dalla mattina alla sera e in giro non si vede quasi mai. Oltre ad aver assunto me il capo ha assunto tutte le mie colleghe, è il suo lavoro assumere, oltre che eufemisticamente amministrare (fa molto di più).
Com’è il tuo capo? mi chiede a volte qualcuno che sa che eravamo vecchi amici, com’è il vostro rapporto ora che lui è il tuo capo? Beh, sono cambiate tante cose tra noi, questo è certo. È bravissimo nel suo lavoro, direi che è quasi un genio in quello che fa, nella capacità di assumere persone che lavorano bene tra loro, tutto è in armonia, ed è merito suo. Se poi confidenzialmente mi domandassero qualcosa, poco, pochissimo in più, direi che il capo è bravo, ma è un po’ fissato con le donne, che non assume lavoratrici, ma tutte queste donne fanno di questo posto un harem e io certi giorni mi sento uno di quegli eunuchi del gran visir, solo che io non sono un eunuco. Il capo è un uomo, ha un suo modo di lavorare e amministrare che ne fanno un uomo delle enormi capacità, ma è anche un po’ un maniaco. Guarda le segretarie, come le guardo anche io, ma lui da quel ruolo, allunga le mani, accarezza loro le braccia, se le ingrazia, in verità non allunga le mani, ma ci prova, ecco cos’è. Ci prova con il suo argomento, con il suo metodo, con le sue strategie di capo, così come io, con i miei silenzi e le mie mezze parole e il mio essere un po’ eunuco e un po’ guardiano, in quell’ufficio.
C’è di più? Mi potrebbe domandare qualcuno, ma nessuno me lo domanda mai. Sì. C’è di più. Una volta al mese il capo ci convoca nel suo ufficio e ci chiede come va, è solo un caffè, dura dieci minuti, ci chiede come va, cosa abbiamo migliorato nel mese trascorso del nostro lavoro e come potremmo migliorare. Una strategia aziendale. Se c’è qualcosa che non va lui ci propone delle strategie per migliorare e mi vengono le lacrime agli occhi per come è bravo.
Ma questo vale per me.
Le mie colleghe escono fuori dal box e io le guardo come per capire se c’è qualcosa in più che dovrei sapere, ma di questo con me loro non parlano. Il capo, si dice, ha questa fissazione dei seni, e chi del resto non ce l’ha, penso asciugandomi le lacrime agli occhi.
Le donne dell’ufficio, io lo so ma non oso dirmelo neanche in una parte inconscia del mio cervello, ecco cos’è, vengono attaccate a uno speciale mungitrice per il latte fatta apposta per le donne, simile a quelle per le mucche, ma per donne, e il capo sta là che le guarda e le costringe a fare questa cosina, una volta al mese, e loro dopo dieci minuti escono con ancora i capezzoli in tirare e spremuti e io le guardo, guardo le magliette delle mie colleghe e se per caso una di loro quel giorno non indossa il reggiseno, posso vedere le aureole e i piccoli capezzoli in risalto, lievemente umide in corrispondenza, io lo so che il capo costringe le mie colleghe alla mungitura, come ho fatto a capirlo non lo so, un giorno ho bussato alla porta per dire, lo so che non è il mio turno, e c’era l’enorme mucca che quasi mi guardava dai suoi tre metri di altezza, come a dirmi non farlo, non entrare e le colleghe ai loro tavoli si sono interrotte dal loro tasteggiare su tastiere e voltate queste davvero, come a dire non farlo, scoprirai se la mungitura vale solo per me o anche per le altre, lo sapevano già che valeva anche per le altre, e anche io sapevo già tutto da prima di entrare, che quella vita semplice aveva un prezzo altissimo, per me e per tutti là dentro, non solo per le mie colleghe e i loro seni che si intravedono dalla scollatura, ma anche per me, il testimone, l’ignaro, quello all’oscuro di tutto.
Sono già due anni e passa che lavoro alla centrale del latte, il lavoro non sarà il massimo della vita, le giornate si assomigliano tutte, il lavoro è vicino a casa e io non ho visto niente, ho bussato quel giorno al box, ho messo la testa dentro e ho visto semplicemente che la maglietta della mia collega era un po’ abbassata, magari le era solo scivolata una spallina, cose che a volte succedono, e il rumore che ho sentito di sottofondo poteva non essere il fremito della mungitrice, con i suoi strattoni, ma forse era il deumidificatore che il capo tiene in ufficio per proteggere i sigari. Quando ho richiuso la porta c’era ancora l’enorme mucca in vetro resina che mi guardava, dall’alto, come guarda sempre in una certa direzione, e sembrava voler dire: anche questo vuol dire lavoro.