Sorin si alza alle quattro del mattino dal lunedì al venerdì, e anche di sabato perché ormai ha preso il ritmo. Lui è originario della Romania e dopo alcuni anni vissuti a Napoli (è questo il motivo per cui tifa Napoli, essendo il primo posto in cui ha vissuto in Italia è come se a Napoli fosse stato bambino e le squadre calcistiche si scelgono così, nei primi anni di vita, e dopo non si può più cambiare, anche se ci si trasferisce in un’altra città e non si torna mai più a vivere in quel posto originario, e neanche ci si torna mai in vacanza, e neanche vi si è lasciato un amico, o un amore).
Suona la sveglia del cellulare enorme super tecnologico di Sorin pagato settecento euro in offerta da Euronics. Suona la sveglia e in quel momento, alle quattro e dieci di mattina, che il cellulare costi tanto a Sorin non importa, non in quel momento per lo meno. Il telefono suona netto, una musica che è stranamente calma, seppur perentoria. Può esistere qualcosa che è allo stesso tempo calmo e perentorio? Sorin non lo sa e non ci pensa. Quel suono può ricordare (ed è per questo che l’ha scelto tra i milioni di suonerie disponibili) il rumore netto che fa il vento, qualcosa di impalpabile, negli alberi quando soffia forte a novembre in certe zone collinari della Romania, zone di campagna dove adesso sta arrivando il turismo, zone da cui proviene Sorin e di cui quelli che vivono in Italia non hanno mai sentito parlare, neanche nominare, ma sono bei posti. Sorin non tornerebbe indietro – c’entra qualcosa quella musica in questa sua scelta? – eppure le cose adesso in Romania vanno meglio, le cose adesso sembrano mettersi bene, ci sono soldi, ci sono aziende, c’è anche un po’ di turismo, c’è la televisione con programmi decenti, non come undici anni fa, quando lui ha conosciuto la miseria, quando era un bambino e poi partì per Napoli. Sorin ha conosciuto la miseria, l’ha conosciuta.
La giornata di Sorin, corriere SDA, è iniziata e non c’è tempo di pensieri nostalgici. Mette fuori i piedi, mette il suo corpo davanti ai pensieri, mette una sotto maglietta termica celeste e sopra indossa la sua divisa a strisce bianche e blu modello campo di sterminio, ma a strisce bianche e blu (si intona con la sottomaglia). I pantaloni aziendali blu, le scarpe anti-infortunistiche nere, e scende per strada nel freddo delle quattro e venti del mattino con in testa un cappello blu da corriere SDA e un mezzo sorrisetto in faccia come se la vita fosse tutta davanti, o come se il pensiero non fosse davvero importante, come se niente lo fosse, se niente lo seguisse, se niente cosa? Niente niente, solo andare per strada con una chiave in mano che apre un furgone e salire sul furgone e poi guidare dalla periferia di Prato fino all’Osmannoro.
Al centro di smistamento Bartolini lavorano quasi ed esclusivamente ragazzi neri. Del Senegal e del Benin. C’è il capo che è un nero più vecchio degli altri, e urla, ma è buono. Lavorano tutto il tempo, lavorano fortissimo, parlano una lingua africana e ci sono tra loro alcuni lavoratori dell’est Europa che hanno imparato l’africano, io suppongo – mentre a SDA ci sono lavoratori di tutte le razze e per questo funziona meno bene e si parla la lingua italiana (da SDA tutto quanto funziona meno bene e i lavoratori hanno se possibile ancora meno diritti di quelli di Bartolini. È una bella sfida, in effetti).
È uno splatter la condizione dei lavoratori e dei corrieri in particolare, sangue e budella ovunque, sui muri, sulle loro divise, sulle strade, sulle ammaccature che hanno sui furgoni, è là che vi si può scorgere la loro stanchezza, i loro orari durissimi, sui loro specchietti rotti, sulle loro sigarette fumate coi denti mentre guidano, sul loro modo di camminare curvo, sul loro mal di schiena cronico, seconda natura. Sulle loro sigarette, torno a ripetere.
Siano Bartolini (BRTLINI) o siano SDA, i corrieri del mattino si vedono assegnare un elenco di consegne da fare, poi caricano il furgone e quando sorge il sole sono già partiti. Zone ben definite, porti sicuri e mari aperti, posti dove non è buono consegnare, dove non c’è mai nessuno, dove fanno storie, dove è impossibile parcheggiare. Questa molteplicità di luoghi e di facce è già tutto implicito in un foglio. Un foglio con un elenco di barcode dove dovranno fare firmare. È come un enorme albero di quercia, quel foglio e quei barcode. In nuce. Sorin riceve il suo giro, fa una faccia come a scrutare e capire i segreti di quel suo giro, lui vede in quei barcode le sue ore future, legge il futuro in un geroglifico che è un barcode, e tra quei luoghi e consegne c’è anche l’ufficio dove lavoro io.
Fin qui è storia.
Storia splatter, ma storia.
Il resto è fantascienza.
Perché c’è un pacco di Amazon quel giorno da portare in quell’ufficio-porto-sicuro dove lavoro io, è un pacco di libri per me, che scrivo questo racconto, e allora vedendo quel pacco Sorin sorriderà brevemente perché sa come sarò felice io a vederlo arrivare.
È un lieto fine questo? Non direi. È solo un mezzo sorriso invisibile di Sorin, nell’enorme deposito di smistamento dell’Osmannoro, dove centinaia di uomini con magliette a righe bianche e blu si muovono in un brusio di lingue e suoni, perché partire?, una musica come un paese di sottofondo, in una angolo remoto del cervello di Sorin, una sveglia nel cellulare costoso che suona.