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Mai nessun accendino venne perso

Mai nessun accendino venne perso
né dimenticato sul tavolo di un bar
né rubato
da qualcuno che ne era sprovvisto
davanti all’Enoteca Bellini.
Mai nessun accendino venne perso
né buttato
nell’indifferenziata
perché finito il gas
o finito in lavatrice
nella tasca dei pantaloni
Mai nessun accendino venne perso.
Sono ancora tutti qui
con me, alcuni
antichissimi, li tengo
dentro una scatola
nera di legno
laccata, rotonda
sul tavolo di cucina,
una scatola che nessuno
oltre a me ha il permesso di aprire.
Mai nessun accendino venne perso.

14.12.2025

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Io contro ChatGPT

Nei primi anni ’90 spuntarono a casa degli amici dei miei genitori i primi personal computer e capimmo subito che era l’alba di una nuova era. In una mansardina soppalcata ci sfondavamo di Prince of Persia, è vero, delle potenzialità infinite dei nuovi computer usavamo ben poco. “Questo è niente”, ci dicevamo con gli occhi che brillavano per la vicinanza con lo schermo, “è niente rispetto a quello che potremo fare in futuro”, ma intanto giù ore e ore a giocare a Prince of Persia. C’era in ballo una principessa da salvare in un castello, forse ne andava del destino dell’Occidente, non c’era proprio nulla da ridere. E quella musica ripetitiva, come una ghirlanda che si ripeteva sempre identica, incatenandoci e portandoci fuori dal tempo ordinario.

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Doriana mi ha raccontato che quando lei rimase incinta suo padre andò a caccia, o da un amico cacciatore, e portò a casa una lepre. Nelle campagne, ancora alla metà degli anni Ottanta, c’era la credenza secondo cui una donna incinta che avesse voglia di lepre avrebbe generato un figlio o una figlia con il labbro leporino, perciò si prendeva una lepre, si cucinava e si dava da mangiare alla donna.

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Quando finirà l’estate

(racconto uscito su Verde Rivista il 7.9.2018, editing V. Santoni)

Raquel centra le buche. Una dopo l’altra, tra auto parcheggiate e marciapiedi fino a piazza del Comune. Poi dietro-front. Raquel centra le buche. So che lo fa di proposito. Avanziamo lungo le strade nelle avare zone d’ombra dei palazzi. Fosse per Raquel non usciremmo neanche di casa. Per questo centra le buche: per farmela scontare. Ma sono io che pago e sono io che decido, quindi usciamo ogni giorno fino a raggiungere la piazza di Sesto. E poi dietro-front. Per strada poche persone, per lo più sono vecchi con sacchetti di plastica in mano e nell’altra quella delle rispettive badanti. Seguono percorsi che piuttosto che una meta sembrano avere come obiettivo l’unione di tanti puntini, come in quel gioco della Settimana Enigmistica. Sono le stesse ombre dei palazzi che percorriamo anche noi. Certi giorni Raquel spinge in silenzio, altri invece mi parla. Dice cose nella sua lingua madre che io non capisco, parole e frasi che forse non sono nemmeno indirizzate a me.

Altri giorni Raquel sceglie l’italiano, ma non mi fa una grande differenza. Ci sono volte che nella strada di ritorno, quando Monte Morello ci si profila davanti, lei mi racconta del posto dove è nata e cresciuta, delle alte montagne che da nord a sud attraversano il suo continente. Io ascolto e non commento, che del resto di parlare non ho più voglia. Ho deciso che quando finirà l’estate ricomincerò a parlare, ma non prima. Allora spiegherò a Raquel delle montagne che ci sono da noi e le racconterò di quando i miei figli erano piccoli e d’estate andavamo lassù a cercare un po’ di fresco.

Oggi Raquel sembra essere di buon umore. Centra le buche, ma con uno spirito lieve, come se fosse un gioco. Mi sembra di riconoscere addirittura un certo entusiasmo. Io mi lascio trasportare attraverso le ombre dei palazzi e il tempo sembra immobile. Quando finirà l’estate i miei figli e nipoti torneranno dalle vacanze. Verranno a trovarmi qui a Sesto Fiorentino e usciremo tutti insieme fuori a pranzo. Andremo a mangiare da Dino, prima dell’Olmo, come sempre. Loro mi racconteranno delle ferie appena trascorse e delle loro speranze. Io li ascolterò e sarò felice per quel momento passato insieme. Raquel continua a trascinarmi sui marciapiedi sconnessi di Sesto, finché raggiungiamo come ogni giorno piazza del Comune. Si ferma un secondo sotto un albero, giusto il tempo di lasciarmi controllare che tutto sia rimasto al suo posto, poi con un gesto collaudato ruota la carrozzina di centottanta gradi in direzione di casa. E dietro-front. «Perché andate sempre in quella piazza, perché non cambiate?» mi chiedeva tempo fa mia figlia. «Ne hanno costruite di nuove» ha continuato, «potresti farti portare a vederle». Io allora le ho detto – era quando ancora avevo voglia di parlare – che per quanto mi riguardava, le piazze erano più che sufficienti.

Oggi Raquel sembra davvero di ottimo umore dal modo che ha di centrare le buche. Siamo alla svolta di Viale Michelangelo quando capita un fatto. Una cosa veramente da niente, ma che mi lascia perplesso. Un uomo che avrà la mia età incrocia il mio sguardo, è da solo e cammina con energia. Ha indosso un giubbotto pesante. Ci guardiamo un momento negli occhi, poi lui passa oltre, facendomi un gesto che non capisco, come volesse confidarmi qualcosa. Forse ci conosciamo? Siamo già lontani io e Raquel. Il caldo gioca degli scherzi alla gente. Anziani lasciati da soli, figli e nipoti in vacanza, così che i vecchi, quelli più sfortunati, quelli che non hanno una loro Raquel, perdono il filo dei pensieri. Povero l’uomo che esce d’estate con un cappotto pesante, solo e senza più il filo dei pensieri. Senza che riesca a impedirmelo mi si disegna sul volto un sorriso per la sventura toccata in sorte a quell’altro. Non è bello che io gioisca delle disgrazie altrui, mi dico, e la smetto. Stiamo quasi arrivati a casa. Raquel ha scelto di passare dal lato assolato della strada. Tra poco saremo arrivati, ma perché passiamo di qua? Perché non scegliere il lato in ombra? Mi vuol fare arrostire? Forse da questo lato della strada si vede meglio il monte? Una volta mi disse che le ricordava dove è nata. Forse Raquel ha contato che il numero di buche sul marciapiede è maggiore? Lo fa per punirmi, ma sono io che decido, non è lei.

Raquel dietro di me continua a spingere la carrozzina, quando succede un altro fatto: la vicina di casa, la vedova Chiostri, ha messo fuori dal balcone delle lucine intermittenti. Si direbbero quasi luci di Natale. Fanno un effetto strano, quasi come se fossimo nel paese di Raquel, dove festeggiano il Natale in piena estate. Sorrido di nuovo, stavolta per la stramberia della vedova Chiostri, che strana è stata sin da quando si trasferirono qua col marito trent’anni fa, ma ultimamente lo è ancora di più. E così siamo a due sorrisi cattivi. Raquel intanto procede, e mi parla di qualcosa che non afferro, cos’è che ripete? Signor Lisi, le piace la navi? Di che parla? Che c’entrano le navi? Mentre Raquel mi sfila le chiavi dal collo e apre il portone di casa girando le pesanti mandate, ripenso a quel vecchio col giubbotto pesante. Ripenso all’espressione che aveva sul volto, e se fosse stato un sorriso cattivo? Ripenso alle luci fuori dal balcone della signora Chiostri e alle parole incomprensibili di Raquel. Con un crescente senso di orrore ho il sospetto che questi fatti all’apparenza incoerenti si uniscano per comporre un disegno. Che se io tracciassi una riga tra le buche che centra Raquel potrei leggervi dentro una verità sulla mia vita, un messaggio tremendo, chiaro a tutti all’infuori di me. Con un gemito si chiude il portone alle mie spalle e penso un’ultima volta che quando i miei figli torneranno da me, chiederò se anche a loro l’estate quest’anno è sembrata tanto lunga.

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Paolo Volponi e i benzinai brasiliani di Piazzale Donatello

Qui in piazza Donatello resistono due benzinai, fa strano dire resistono due benzinai, perché associamo il termine resistenza a concetti positivi mentre invece il benzinaio racconta di un’epoca di industrializzazione che speriamo col tempo anche di superare, che le auto vadano a energia elettrica, o meglio ancora solare, o con le pale eoliche, o che venga inventata una macchina mondiale completamente nuova, antica, ma nuova, e in conclusione che non ci siano auto come siamo abituati a conoscerle oggi.

Questo attacco vi sembrerà strano, ma vi garantisco che sto per parlare di Volponi, anzi ne sto già parlando, solo in un modo mimetico e non accademico, perché io accademico non sono e non è quello che mi è stato chiesto. Comunque dicevo che qui in piazza Donatello resistono due benzinai, già che in generale in città ce ne sono sempre meno. Qualcuno dirà speriamo resistano ancora per poco, va bene, qualcuno dirà che sono molto più cari rispetto ad altri, anche questo è vero, ma parlarvi oggi, qui, al cimitero degli Inglesi, parlare di uno di questi due specifici benzinai mi sembrava la giusta chiave per presentarvi Volponi, e mi spingo più in là: qualcosa che Volponi approverebbe. 


Venendo nel senso di marcia, il mio consiglio è fermarvi al secondo benzinaio, non la sera o di notte, perché c’è il servizio automatico, ma durante il giorno, perché potrete vivere un’esperienza autenticamente volponiana. Ci lavorano infatti due benzinai, fratelli, forse addirittura gemelli, entrambi brasiliani e talvolta c’è anche il figlio di uno dei due, forse figlio di entrambi, che mantiene qualcosa di quello splendido accento del padre e dello zio, ma non è del figlio che ora vorrei parlare, quanto dei due fratelli. Sono brasiliani, e questo mi si dirà non è molto volponiano, (tecnicamente non credo Volponi abbia mai visitato il Brasile), a meno che non si voglia considerare il Brasile, rispetto a Piazzale Donatello, come un posto periferico, lontano, fatato quasi, inerente al passato dei due benzinai, e, arrischiandoci un po’, si potrebbe affermare che in un certo senso il Brasile sta ai due brasiliani come Urbino sta a Volponi.
Paolo Volponi infatti era nato a Urbino, nel 1924, e visse con questo luogo, che poi lasciò, un rapporto di amore e odio. Penso ad esempio al suo romanzo La strada verso Roma, con cui vinse il suo secondo Premio Strega, nel 1991, che racconta la vicenda di Guido, quasi un alter ego dello scrittore, che ama Urbino, ma vuole al contempo lasciarla per realizzare la sua ambizione (la sua ambizione, e forse redimere tutti, ma su questo punto torneremo). Così, mi piace pensare i due benzinai, vivono nei confronti del Brasile, un rapporto di amore, di idealizzazione, ma anche di rifiuto, ora che vivono qua: non tornerebbero indietro, amano il loro lavoro di benzinai, la loro vita è in Piazzale Donatello, Piazza che deve apparire loro come a Volponi appariva Roma o forse Torino, metropoli industrializzate, con tutte le differenze tra Roma e Torino che pure emergono nei libri di Volponi.
Urbino è certamente una delle grandi chiavi per intendere anche la produzione poetica di Volponi, sembra impossibile nella sua lunga produzione poetica, prescindere interamente da quella che è stata la sua infanzia e la sua adolescenza, diciamo meglio la sua giovinezza. Spesso infatti nelle sue poesie troveremo elementi legati agli animali, uccelli, volpi, o al paesaggio, e alle pratiche e alle persone che in quei luoghi hanno popolato l’infanzia e la giovinezza di Volponi. Ne hanno formato il carattere e per così dire definito per sempre la poetica. Non c’è tuttavia una semplice nostalgia, perché lo scrittore sembra vederne tutti i limiti, le problematiche, e queste le considera con la consapevolezza politica e sociale di un uomo del dopoguerra, del boom economico e di come questo boom non abbia raggiunto tutte le zone d’Italia, ma solo alcune, di una promessa disattesa. La prima raccolta poetica, Il Ramarro, scritta ancora ventenne è profondamente permeata da Urbino e dalle zone circostanti, dalle campagne, dalle colline e di nuovo dagli animali. La città è piccola, isolata dal resto d’Italia, da quelle che sono le grandi dorsali dell’industrializzazione, rappresentate sull’asse Milano, Torino, e dal centro di potere, Roma, le città dove in tanti si stanno trasferendo per cercare lavoro e nuove opportunità. C’è chi da Urbino, però, va via e deve andare ancora più lontano: era come è oggi anche una questione di privilegio, quindi chi può permetterselo andrà a Roma, come il Guido del romanzo, o a Torino, come Paolo Volponi, ma c’è anche chi dovrà andare in Belgio, a lavorare nelle miniere, come i contadini delle campagne di Urbino, i proletari. Così, posso dire ora io, le persone che lasciano il Brasile, si dirigono verso differenti destinazioni, e non ha senso indicare quali siano le mete più ambite, di certo l’Italia in questa classifica di luoghi sognati si trova più in basso rispetto agli Stati Uniti o all’Europa del Nord, ma sono congetture di cui so molto poco e lascerei da parte questa metafora, per adesso. 

Paolo Volponi non ha avuto con la scuola, un rapporto semplice. Questo si legge nelle sue biografie, termina gli studi a fatica, riesce a laurearsi in giurisprudenza, ma senza entusiasmo; prova insofferenza per il mondo dello scuola, che lo rifiuta, e solo una sua passione individuale e pochi professori, l’amicizia con Carlo Bo, lo aiutano nel trovare una vocazione letteraria che lo accompagnerà per tutta la vita, facendo di lui un uomo che non fa dell’essere scrittore la sua unica occupazione. In questo mi sento dire, sento la chiamata di Elisa a parlare di Volponi, come una vicinanza tra noi, tra me e lui, perché anche per me la scrittura è qualcosa che non esaurisce la mia professione, non l’ha fatto in passato, quando lavoravo in una ditta di poste private, non lo fa oggi, che lavoro in una libreria, e credo non lo farà neanche domani. Questo chiaramente crea una distanza tra l’accademia e Volponi, che pure ha ricevuto tanti riconoscimenti e premi importantissimi, due premi Strega, come lui solo Veronesi, in anni ben diversi, in cui il premio Strega era ed è completamente differente, rispetto al passato, quindi per concludere questo punto, che forse spiega la mia ragion d’essere qui oggi, ne fa una figura non integrata, o non del tutto, quasi un outsider. 

C’è però un altra stella polare nella vita di Paolo Volponi, ed è l’industria. Volponi ha avuto un intenso rapporto con Pier Paolo Pasolini, e oltre alla questione della letteratura, mi sembra si possa dire che tra loro ci sia stato un vivace dibattito culturale, finché Pasolini è stato in vita, e in particolare una differente visione su quanto riguarda l’industrializzazione. E qui, tra poco, tornano i benzinai brasiliani. Pasolini, come è noto, è stato il sostenitore della tesi della mutazione antropologica, secondo cui, la rapida e incontrollata industrializzazione, abbia fatto sì che il proletariato abbia assunto (la banalizzo un po’) la forma e i desideri della borghesia, in conclusione perdendo qualcosa della bellezza e della dignità che Pasolini riconosceva in loro. Mi sembra di poter affermare che Volponi abbia in questo senso una visione più ottimistica di quella pasoliniana, cioè che l’industria abbia un potenziale positivo, affermativo, emancipativo, forse questa sua visione è dovuta al fatto che abbia lavorato per vent’anni per Olivetti, che ha fatto sua istanze di un capitalismo, ma diciamo meglio, di un’industria illuminata e profondamente attenta a quelle esigenze dei lavoratori. In questo senso anche l’impegno politico di Volponi, l’aver militato tanti anni nel partito comunista italiano, rappresenta a mio avviso un elemento che denota non la sfiducia e il pessimismo di Pasolini circa la modernità e il lavoro, quanto invece una remota e forse oscura speranza che le cose potessero e dovessero migliorare. C’è in questo qualcosa che parla di quel boom economico di cui abbiamo già accennato, ma anche un nocciolo abbastanza misterioso, che rimane oscuro leggendo Volponi e che parla di Volponi stesso, ma che io ritrovo, pur non conoscendoli affatto, nei due benzinai brasiliani di Piazzale Donatello. Di solito infatti, chi si avvicina a un benzinaio al di là di fare benzina, ma con l’obiettivo di controllare l’olio o la pressione delle ruote, troverà nel tipico benzinaio italiano per lo più una faccia torva e un modo scontroso, quasi a conferma di un oscuro disprezzo e auto-condanna alla marginalità, un modo di fare che invece nei due benzinai brasiliani è completamente assente. Io, che vivo nei confronti del cambio dell’olio del mio scooter come una specie di paura ancestrale di fusione del motore, ho trovato in loro qualcuno da cui poter andare senza ricevere sempre musi lunghi e reprimenda, è il loro lavoro e lo fanno volentieri. 

In conclusione ci sono in Volponi molti altri elementi che oggi non ho toccato, ma devo concludere dicendo che rimangono in lui, quando ci si approccia ai suoi romanzi o alle sue poesie, degli elementi misteriosi, ma direi di più, sembra che sia qualcuno che ha capito qualcosa della vita, che ha lambito una verità. Ha qualcosa che ci lascia un dubbio, un dubbio che è fecondo, e sebbene a tratti sia anche depressivo e sconsolante, come lo è la vita, sembra mettere sul piatto della bilancia, nel suo peso complessivo, qualcosa che fa pendere la vita verso un lato positivo. Non so dirlo meglio, ma è in conclusione questa la cosa più significativa che ho capito leggendo Volponi. C’è qualcosa di quel ragazzo predestinato, che alterna ombra e fulgore, che continua ad agitarsi in lui, una forza rinnovatrice, in quel suo modo d’essere specifico, antiaccademico, che non si trova bene a scuola, ma che ha una visione sua, terribilmente sua e unica, libera, forse potremmo dire “vitale”, innamorata di quello che vede, degli alberi, degli uccelli, delle donne, ma anche del rumore delle auto e della vita che scorre, e che mi ha convinto, in conclusione davvero, di provare a raccontarvi insieme a lui, di quei due benzinai brasiliani, che forse in questo momento, accolgono qualche automobilista con un sorriso e il loro accento esotico e musicale.

Grazie 

23.09.2024

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Solo a voi che guardate le mie ultime storie voglio bene

Solo a voi che guardate le mie ultime storie voglio bene,

non le prime.

A voi che arrivate fino in fondo, mi seguite

passo passo nei recessi più superflui o importanti,

a voi che venite dietro di me per sapere cosa facevo quattro anni fa,

nel bagno,

l’altra sera,

la copertina del libro,

l’aperitivo.

Lo so che non vi importa davvero, ma vi perdono

lo so che anche voi che guardate le mie ultime storie

siete solo molto soli o forse nemmeno questo

avete un problema di dipendenza

forse dovreste chiamare l’ottico

quanto è che non controllate la pressione dell’occhio?

E’ un controllo di routine, ma dovreste farlo, in fondo davvero troppe troppe ore rivolgete lo sguardo nei telefoni, non fa bene questa roba, hai mai sentito parlare di radiazioni? Avevi anche comprato gli occhiali con le lenti schermanti raggi V, che fine hanno fatto vallo a sapere.


Solo a voi che guardate le mie ultime storie voglio bene,

ma anche a voi che guardate le prime storie,

anche solo per sbaglio, passando subito oltre

anche a voi voglio bene.

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Lettere di Natale a vecchi amici su una chat WhatsApp da lunghissimo tempo inutilizzata

Cari amici
è la viglia di Natale, aspetto che sia ora di entrare al lavoro e mi prendo qualche minuto solo per scrivere a voi a cui pure non scrivo e non penso mai, o quasi mai, ma che le vigilie di Natale vostro malgrado mi tornate in mente.
Penso alle vigilie di Natale della nostra infanzia e adolescenza, quando hai quell’età che non sei piccolo e non sei grande, e allo stesso modo tutto è tiepido, o almeno sembra: le decisioni, le scelte, tutte quante reversibili, tutte emendabili, sebbene a posteriori chissà, guardando un po’ gli ultimi messaggi scritti su questa chat WhatsApp, potremmo dire che non era veramente così.
“Fa niente, fa lo stesso”, direbbe uno di voi due, con quel suo modo di dire le cose, come alzando le spalle con indifferenza, salvo poi riabbassarle con un sorriso vagamente tragico e sconsolato.
Fa niente, fa lo stesso, se poi quelle scelte e decisioni di allora non erano per davvero reversibili, se non c’era davvero altro tempo oltre quello, mamma mia che discorsi tremendi mi sento fare.
Volevo scrivere tutt’altro, cose allegre, e questo è di nuovo il mio io attuale che parla, gravato da un peso gravitazionale che di certo in quelle vigilie di Natale dei nostri quindici o sedici anni non dovevo avere, quando prendevamo l’autobus, l’1 A o 1 B andavano bene entrambi, e scendevamo alla fermata Duomo, o a quella prima di Via Martelli, entrambe le fermate dell’autobus, chissà se lo sapete, da molti anni che sono state soppresse per la pedonalizzazione del centro. Non farò un canto funebre anche per questo, ve lo prometto.
Ma certo era bello scendere al Duomo, proprio sotto al Duomo, con le facciate annerite per lo smog, non ci importava allora che le facciate fossero scure per tutto quello smog che ci finiva sopra, forse ci mancavano proprio le categorie per capire che era sbagliato, che era brutto. A noi sembrava bello. Arrivavamo da Le Cure, si andava in centro a comprare gli ultimi regali di Natale, si scendeva alla fermata Duomo, o a quella prima, di Via Martelli perché c’era un negozio di musica a cui andavamo sempre, come si chiamava? Non lo ricordo più. Abbiamo comprato parecchia musica, in quel negozio, che oggi è diventato credo un’agenzia turistica, o forse anche quel tempo è passato, oggi non so in cosa è mutato ancora.
Avevamo gusti musicali parecchio diversi, voi due eravate più simili, o almeno a me sembrava così. Molto probabilmente era solo da fuori, dal mio punto di vista, che i vostri gusti apparivano simili, era piuttosto una dinamica mia, di sentirmi sempre escluso, magari se fossi stato più attento avrei capito che i vostri gusti musicali non erano davvero così simili.
E di certo dev’essere così, se poi le vostre vite hanno prese strade così diverse, forse il punto di divaricazione inizia proprio in quel negozio di musica di Via Martelli. Andavamo a comprare a vigilia o nei giorni precedenti al Natale dei piccoli pensieri per le nostre famiglie, o fratelli o sorelle, chi li aveva, o nonni e nonne, che ancora c’erano ancora queste figure così belle e dialoganti con tutto un mondo che veniva prima di noi, sarebbe sì da aprire un bel peana sui nonni, ma lasciamo stare, è pur sempre una chat WhatsApp.
E quindi da via Martelli probabilmente passavamo sotto il Duomo e andavamo verso piazza Repubblica e un altro negozio di musica, Ricordi, e di certo alla libreria Edison, e quasi sicuramente alla Feltrinelli di via dei Cerretani e da lì credo che facessimo una curva verso la stazione di S. M. Novella, ed era finito.
Così piccola e breve era la nostra conoscenza del centro di Firenze, io credo: San Marco, il Duomo, la Stazione e poco altro. Completamente avvolto dalla nebbia era l’Oltrarno, completamente fumosa tutta la zona di San Niccolò, niente, nebbia totale come in quei videogame a cui giocavamo per ore, in territori ancora da colonizzare.
Chissà come dovevamo apparire noi tre da fuori, forse molto simili, sebbene noi ci provassimo a differenziarci un po’, nei nostri stili, vestiti, tagli di capelli. Chissà di cosa parlavamo. Mi piacerebbe riascoltarci parlare, per qualche minuto, chissà quale linguaggio, quali riferimenti che solo noi potevamo capire e che forse oggi ci risulterebbe incomprensibile.

Vi penso, vecchi amici, in questa ennesima vigilia di Natale della mia vita, vi penso lontani e ormai quasi completamente dispersi in vite di cui non so proprio niente, penso anche ai vostri genitori di cui ho un ricordo chiarissimo, sebbene sia quel ricordo là, di quelli che loro furono, vent’anni fa, chissà come sono oggi, non so se voglio davvero immaginarlo, non è quello il punto, però ricordo anche loro, li ricordo con affetto sebbene pochissime parole ci siamo scambiati in quegli anni, sempre sullo stipite di una porta socchiusa, le nostre rispettive camerette, o uscendo per le scale di casa, o magari a prendere qualcosa da mangiare in cucina, sempre pochissime parole ci siamo detti, eppure me li ricordo, me li ricordo bene, non dovevano essere poi molto più grandi di come noi siamo oggi, eppure, che differenza.

Vorrei dirvi che non mi manca quel periodo, che non credo fosse più facile o più felice di come è questo nostro presente attuale. Lo era ugualmente, c’erano altri problemi, ma c’erano eccome. Vorrei dirvi che vi ho pensato stamattina, prima di attraversare il centro a vigilia di Natale per entrare a lavoro, in una libreria vicino alla Stazione che all’epoca non esisteva ancora. E che sebbene non sia molto importante, ma io mi ricordo della fermata dell’autobus al Duomo, e dell’autobus con cui poi tornavamo a casa, nel quartiere Le Cure, delle diverse fermate a cui scendevate voi, di quella fermata a cui scendevo io, me lo ricordo, e me lo ricorderò penso, chissà, finche vivo.

Buona vigilia vecchi amici.

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Come pubblicare un racconto su una rivista

Ciao V., 
provo a rispondere in maniera organica alla tua domanda che riassumo qui un po’ banalizzandola: ho scritto un racconto, a quale rivista lo mando, per cominciare?
Il mondo delle riviste letterarie è un cosmo (c’è anche chi ha provato a mapparle tutte, qui) ci sono alcune riviste a cui scriverai mail insistenti o imploranti e non ti risponderanno mai, altre che pubblicheranno il tuo racconto immediatamente e avrai il dubbio che lo abbiano letto, altre che ti imporranno magari un editing pesantissimo, tanto che alla fine il tuo racconto ne uscirà stremato e irriconoscibile (non cedere! scherzo, a volte ci sta).
In generale sarebbe forse sensato provare a mandare il racconto non a una rivista generica, ma a una in cui ti piacerebbe che fosse pubblicato, a una rivista insomma di cui condividi lo stile, le finalità, il tipo di letteratura che propongono. 

Io ho iniziato a pubblicare racconti su una rivista on line che si chiamava scrittori precari. Com’è andata esattamente per me? Credo che inizialmente mandai qualche racconto a qualche rivista, credo in generale con un esito nullo. Forse erano riviste trovate un po’ per caso, di cui non sapevo niente, magari erano semplicemente riviste molto conosciute e inviai la mia mail in cui dicevo chi ero, e allegato il mio racconto. Le riviste più grosse sono quelle storiche, che un tempo erano riviste cartacee e oggi magari lo sono ancora oppure sono riviste sia cartacee che on-line, o in generale riviste con una storia, riviste su cui hanno pubblicato i cosiddetti “veri nomi” e ancora oggi sono curate da veri nomi. Quelle sono riviste che non pubblicheranno mai il tuo racconto. Ma non il tuo specifico, io temo che in generale non pubblichino contributi che arrivano via mail, a meno che non ci siano delle call in cui chiedono esplicitamente di mandare racconti, o dei concorsi, in generale penso che certe riviste ricevano troppi racconti per poterli pubblicare e anche soltanto per poterli leggere. Nuovi argomenti, Minima e Moralia, Nazione Indiana, (aggiungo anche L’indiscreto), lo dico senza nessun tipo di polemica, sono semplicemente come delle feste a cui troppe persone vogliono entrare, quindi si entra solo su invito o se conosci qualcuno dentro che ti apre la porta. Allora come si fa?
Direi banalmente che ci si affaccia al mondo delle riviste più piccole, tramite quella che è la nostra bolla di conoscenze, magari conosci qualcuno che scrive su qualche rivista, e si prova a scrivere a quelle. Io a una serata al Caffé Notte, conobbi questo tizio alto e ubriaco, Liguori, tramite Vanni Santoni, e poi mandai a lui questa raccolta di racconti dicendo, ciao ci siamo conosciuti l’altra sera, forse non ti ricordi, comunque ti mando questi racconti. Così cominciai. I miei racconti uscivano di mercoledì, e io ero felicissimo. Oggi scrittori precari non esiste più, anzi sono anni che non esiste più, a voler essere un po’ severi con me stesso si potrebbe dire che quando io iniziai a pubblicare i miei racconti il sito era già in una fase tramontante, ma forse le fasi sono sempre tutte tramontanti. Sia come sia. Poi da quella rivista la gente che scriveva là si spostò su altre riviste, alcune esistono ancora oggi, come ad esempio Verde Rivista. Verde Rivista è per me una rivista importantissima, perché direi che la maggior parte dei miei racconti sono usciti là, quindi ne condivido in parte il destino, sebbene io non abbia mai fatto parte della redazione, ho conosciuto i redattori e anzi siamo oggi amici. In generale per me le riviste sono sempre stato un modo per uscire da un giro molto ristretto di persone che era quello a cui potevo arrivare da solo, gli amici o quelli che venivano per caso a sentire un mio reading, un modo per uscire da Firenze, per confrontarmi con gente che scriveva e non viveva nella mia città. Per conoscere gente e anche per farmi conoscere, sebbene poi il mondo delle riviste è un mondo abbastanza chiuso su se stesso, e non direi che il mondo delle riviste sia l’anticamera dell’editoria “seria”. Magari per qualcuno lo è, o lo è stato, ma io penso che sia un mondo abbastanza bello, ma avvitato su di sè in cui ci si conosce, forse, solo tra di noi, in cui l’audience è composta da altre gente che scrive e pubblica su riviste simili. Però malgrado questo rischio dell’autoreferenzialità, il mio giudizio sul mandare racconti alle riviste è e resta positivo, perché è anche un modo per uscire dalla solitudine. Non che la solitudine sia negativa per chi scrive, anzi forse è condizione necessaria, ma se la solitudine è troppa può fare sì che uno la smetta del tutto di scrivere, mentre invece così si è come una specie di gruppo di bici che sale una montagna e tutti insieme un po’ ci si tira l’una l’altro. E così si va avanti e quello che all’inizio è una specie di semplice gioco diventa un’altra cosa, diventa qualcosa di totalizzante e si impara che scrivere è una cosa difficile e estenuante (chissà cos’è scrivere, boh) e come tale ha bisogno di lavoro, costanza, etc. Ma adesso mi sto dilungando e un po’ perdendo.  
Torniamo alla domanda: a chi lo invio un racconto?
Penso a te che ti occupi di poesia e che scrivi poesia, non ho letto il tuo racconto, ma forse potresti mandarlo a Settepagine, che pubblica dei bei cartacei, oppure a Oblique/Retabloid che fa questo concorso 8×8 a Roma dove si incontrano editori e pubblicano un cartaceo dallo stile vagamente in stile secessione viennese.
In generale guarda un po’ quello che fanno queste due riviste che sento le due più vicine a te, e secondo me loro ti potrebbero piacere. Oltre a queste due direi che una rivista molto bella è L’inquieto, curata da Martin Hofer, che fa uscire dei numeri bi-o tri-mestralmente solo on-line con illustrazioni curate e lavora bene anche con l’editing.
Che altro mi viene in mente?
La già nominata Verde Rivista, Stanza251, Narrandom, Malgrado le Mosche, direi queste qui. Ne è uscita una mail fiume, anzi quasi un pippone. Buona giornata V., stai bene
Simone

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