L’ombra nel quadro
Ogni notte, prima di dormire, osservo dal letto il dipinto di un uomo a cavallo.
C’è un’ombra dietro di lui, per l’allineamento del lume che mi tengo vicino e di un mobile dal cassetto difettoso, che chiudo e ogni volta torna a riaprirsi. L’ombra sembra far parte del quadro, che sia l’ombra dell’uomo a cavallo, che vi sia disegnata.
Ogni notte prima di dormire penso all’uomo del quadro, perché mi aiuta a prendere sonno. Pensare a quell’uomo a cavallo mi fa stare bene, qua nella mia cabina. Penso a tante altre cose, ma per lo più a quell’ombra, e come calzi a pennello a quell’uomo a cavallo, come sembri la sua. Invece è soltanto la prospettiva che ho dal mio letto.
Poi penso che i rumori mi sono intollerabili. I rumori degli altri uomini sulla nave, dei marinai, il suono che fanno le loro vite, il loro lavoro e anche il loro riposo. Ogni rumore mi è penoso. Penso che vorrei un macchinario per fare silenzio. Una macchina d’invenzione, da inserir nell’orecchio, un congegno per aumentare e diminuire il silenzio. Ma è un concetto impossibile, mi dico nel sonno, impossibile aumentare una categoria negativa. Come sommare un’assenza, moltiplicare un silenzio? È un pensiero sciocco, ma è bene che io, prima di dormire, faccia di questi pensieri. Bene che non pensi alle mie responsabilità per questa barca alla deriva, e a quanto ancora i marinai resisteranno nell’ordine che provo a imporre loro. E ogni giorno che passa uno in più cade ammalato.
Infilo cera e molliche di pane nelle orecchie, per non sentire i loro discorsi e i loro lamenti, ma non servono a coprire i miei pensieri, e neanche i loro canti ubriachi che ogni notte si fanno più alti, per sfidare la mia autorità.
Passano lenti i giorni e le notti. Guardo ogni sera l’uomo nel quadro e penso a quell’ombra per addormentarmi. Penso a quell’ultimo porto che abbiamo lasciato, Genova, dove ho incontrato innumerevoli uomini e donne senza una gamba. Li ho visti, come se ne vedono spesso nei porti, ma questa volta è stato diverso: erano troppi, una processione continua, e adesso in queste notti insonni torno a pensarci. Mi chiedo se l’ho immaginato, o se invece non fosse che un segno. Di cosa? Non lo so dire. Guardo l’uomo a cavallo e provo a scacciare il pensiero di quegli uomini senza le gambe che mi si paravano innanzi nel porto di Genova. Penso a tante altre cose, faccio fatica a dormire. La nave continua a galleggiare nel niente.
Le giornate trascorrono identiche: durante il giorno ci sono cose da fare, occupazioni pensate apposta per riempire i momenti di attesa, ma la notte tutto quanto mi sfugge di mano. Vorrei non sentire i rumori. Ci vorrebbe uno strumento per aumentare il silenzio, ma è impossibile, non solo da fare, anche da concepire. Silenzio è come dire: il niente, e non si può aumentare. L’assenza, mi dico, non si può sottrarre o moltiplicare. L’assenza di una persona vicina a cui confidare i miei cattivi presagi. Guardo l’uomo a cavallo e sembra che la sua ombra si allunghi, ma è solo la mia prospettiva, che sprofondo nell’angolo più remoto del letto. Guardo l’uomo nel dipinto e ascolto le voci dei marinai che si levano alte, dando fondo alle riserve di rum e guayaba. Sembra che il vento mai tornerà a soffiare, e vorrei solo riuscire ad aggiungere qualcosa a questo niente. Vorrei terraferma sotto ai miei piedi, per allontanarmi da qui, o almeno un po’ di silenzio, ma non è possibile. Infilo nelle orecchie molliche di pane, ma non serve. Ripenso a quegli uomini senza le gambe nel porto di Genova. Guardo l’uomo a cavallo nel quadro e la sua ombra nefasta. Poi finalmente cado in dei sonni tormentati e brevi.
Solo un gioco di prospettiva, ripeto al mattino.
Ma ogni notte è lo stesso, mi sveglio di soprassalto e capisco che non c’è alternativa, niente che io possa fare o sommare: che quando gli alcolici saranno finiti i marinai entreranno qui dentro. Posso far finta di non sentire i loro rumori, ma so che è deciso. Posso mettere altra mollica nelle mie orecchie, ma è questo il messaggio che mi ha consegnato il porto di Genova: l’ombra dell’uomo a cavallo è la mia, e una notte di queste, se non questa qui, i miei uomini entreranno in cabina e mi taglieranno le gambe.
Gianni il pirata
per Nicola Marongiu
Gianni. Gianni ha avuto un figlio. Che gl’è venuto in mente? Lui ti guarda come a dire: e che c’è di strano? No, niente, non ti facevo il tipo, tutto qui. Gianni poi ha avuto un secondo figlio. E di nuovo quello sguardo.
Una sera Gianni ha capito che all’origine di famiglie con figli problematici, in competizione per l’eredità, oppure unici e quindi per sempre malati della paura di scomparire, Gianni ha capito che il punto della faccenda è avere tre figli. Che i mali che spesso affliggono la società sono dovuti al fatto che non si fanno tre figli, quindi tre figli sono la soluzione. Ed è stato così che Gianni ha avuto tre figli. Ma dal momento che era un semplice postino, ha capito che non riusciva a pagare l’affitto né spesa o pappine, che anche chiedendo i soldi a sua madre, o alla famiglia di lei o telefonando a dei remoti parenti, insomma che tutto considerato con tre figli non ce la faceva. Ed è stato così che Gianni è diventato un pirata.
Il giorno in cui Gianni ha preso la decisione, quella sera ha anche pensato: che i ristoranti cinesi sono tornati di moda, che sono tutti diversi da come erano un tempo, e malgrado questo non sono migliori. Mangeresti ogni sera questa roba? Gli ha domandato sua moglie. Lui voleva risponder di sì, ma dal modo in cui l’ha detto, si è capito che intendeva di no.
E così quella sera al cinese con la moglie e i tre figli ha capito che non ce la faceva, col suo lavoro da postino e il dopo-lavoro a far le cose artistiche nel capanno. Non era possibile star là dentro a fantasticare altre vite, ma neanche restare con quella di sempre. S’è imbarcato, come altri prima di lui, su una nave pirata, a rischiare la vita, perché è così che si fanno i bei soldi.
Partire, però, che cosa incredibile. Lasciar tutto, lasciare questo mondo di confini ai lati, lasciare gli amici di sempre e i loro discorsi da provinciali, lasciare tutto questo che sebbene noi lo neghiamo, malgrado noi lo schifiamo, dice qualcosa di noi.
Perché anche loro dicono qualcosa di noi.
Ed è così che si va per il mare, pensando che quei confini tanto odiati in verità eravamo noi.
Si va, guardando i dettagli della nave per non pensare al quadro generale che ci mette paura, guardando un punto fisso, guardando un particolare, pensando che il mare non sia altro che l’estuario di tutti i fiumi del mondo, e niente di più. Si va per il mare, e si fanno parole con chi ci è vicino. Sono padri di tre figli come noi, che mandano soldi alle loro famiglie, che contano soldi da spedire mentre affilano coltelli per il prossimo arrembaggio. Gianni, te lo immagini saltare? Il coltello tra i denti? Spunzonar qualcuno, poi trafiggerne un altro e correre verso il timone e la cassa del tesoro? Gianni, che giornate son queste che si parte per mare, che si beve del rum giù in cambusa. Scoprire che nell’intero mondo conosciuto, fatta esclusione per dove abitavi una volta, non si dice nemmeno rum, ma che la bevanda tua preferita porta il nome di un cantante abbastanza sfigato degli anni settanta e ottanta. Rum in verità, si dice Ron. Te Gianni l’avresti creduto mai?
Gianni, passa il tempo e i tuoi capelli si allungano. La barba oramai la tagli solamente sugli zigomi, con un coltello. Le cose che sognavi ora ce le hai davanti. E allora, ti dici? Che cosa è cambiato? Il rischio, rispondi, ma c’era anche allora, all’epoca del portalettere, la tua vita era come oggi appesa a un filo: le strade e i condòmini, eran certi giorni di pioggia come mari in tempesta, e i tuoi colleghi in ufficio malvagi come alcuni pirati leggendari, che sulla tua barca tutti sperano di non dover incontrare. I figli, ti dici, ora vivono vite normali: la scuola, l’astuccio, la festa di compleanno al Burger King, come gli altri bambini. È vero.
Con loro ci vediamo nei porti: loro crescono, io mi faccio più silenzioso.
Cerco una strada, l’ho sempre cercata, un modo di vivere la mia vita sereno, e mai sono stato.

Calma Pirata, 1 febbraio 2017, Sabor Cubano, Firenze