Racconti, San Frediano (2013-2015)

Un terribile amore per il meteo

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Mia madre accende il vecchio televisore utilizzando due telecomandi, ma lo schermo rimane nero a lungo e prima si sentono solo le voci. Dopo alcuni minuti cominciano a vedersi le prime figure.

«È vecchia» dice mia madre, «è per questo che fa così. Ma funziona ancora bene».
Ne parla come se parlasse di sé.
All’ora di cena il vecchio televisore acceso e sullo schermo il meteo regionale.
Suonano di sottofondo musiche andine, mentre la voce di un generale dell’aeronautica ci guida nei recessi del tempo atmosferico: il più sottovalutato degli argomenti.
«Proprio un bell’uomo», fa mia madre «il tipo che piace a me»
Guardiamo ogni sera il meteo, ma perché ci piace così tanto? In particolare il meteo regionale con quella sigla incongrua, mesoamericana, sempre uguale a se stessa, da quando io riesco a ricordare. Perché non amare il meteo?
Mia madre accanto a me, cullata da suoni indigeni, lo sguardo sembra preoccupato. Sullo schermo la nostra regione a forma di coscia, coperta da nubi, da nuvole da cui fuoriescono fulmini, come dei trombi, vene varicose, una coscia sconvolta dal clima, gelo e vento polari, e noi indifferenti a tutto: stiamo così bene al caldo della nostra casa.
Allora le dico: «Sai Franco?»
La pioggia batte sui vetri senza sosta e lei si avvicina al termostato senza distogliere del tutto lo sguardo dallo schermo, come se dovesse succedere improvvisamente qualcosa. Gira la rotellina di alcuni gradi in sù, la pioggia che picchietta sul vetro, e mi fa:
«Franco chi?».
«Franco di Sesto».
«Ah sì».
«Mi ha raccontato una cosa strana oggi, a lavoro. In verità sono io che ho attaccato discorso con lui, cosa che non faccio mai. Sai com’è Franco, impossibile. Gli ho detto: – Eh Franco, lo sai? Sono stato a pranzo dai Raddi. Era un modo per dire qualcosa, per fare due parole, sai com’è a lavoro. Un modo per far passare un momento, per ricordarmi che sono umano. Una frase che creasse un legame tra di noi, visto che anche lui è del quartiere».
Mia madre si gira e fa:
«Ma Franco non era di Sesto?».
«È vero, ma originariamente no e comunque il punto non è questo, lasciami continuare. Io dico a Franco del ristorante, e lui allora fa:
– E invece sai mia moglie?
E io gli faccio: – Che?
– È andata a cena in Via Ghibellina.
– Ah, gli ho detto io. – E si mangia bene là?
– Dice che si mangia bene.
– Mai sentito di ristoranti in Via Ghibellina dove si mangia bene.
– È andata là a cena perché è morto un suo amico, giovane, e ha lasciato una moglie e due bambini.
– …
– Era giovane, quarant’anni, quarantacinque, non aveva niente e di colpo è morto.
– Mi dispiace, ho detto io.
– Inspiegabilmente.
– Merda.
– Già. Hanno fatto questa cena per raccogliere un po’ di soldi. Per la moglie e le figlie.
– Beh, questa mi sembra una cosa bella.
«Io allora stavo per fare un movimento come a dare un’eco a quelle sue parole, capisci mamma, come se il suo discorso fosse concluso e io dovessi cesellarlo, e invece Franco ha rilanciato, dicendo: – E hai saputo di Marco?
– Marco chi? ho detto io.
– Il postino.
– No, che ha fatto Marco?
– Non c’era oggi a lavoro, non l’hai notato?
– È vero, non ci avevo fatto caso.
– Era a un funerale.
– Ah.
– Un suo amico, venticinque anni, si è addormentato sull’autobus. L’hanno trovato al capolinea, che era morto.
– Madonna Santa.
– Sì.
– Era giovane, stava bene. Un ragazzo sano.
– Che dire, un giorno ci siamo e il giorno dopo non ci siamo più, ho detto io.
Capisci mamma che genere di cose dico a lavoro? Voglio dire, sarà pure vera quella frase, ma ciò non toglie che sia una banalità, qualcosa di immediato, di circostanza, non è un pensiero, non è un pensiero autentico intendo, è un pensiero di rimpiazzo, una stampella. E invece lo sai che mi ha detto Franco?»
«No, che ha detto Franco?» fa mia madre con un occhio al riassunto delle minime e le massime nei capoluoghi di provincia.
«Mi fa: – Guarda, che non è questo».
«Così mi ha detto Franco, là in quel sottoscala umido, con il rumore degli scarichi tutto attorno, mentre letteralmente la merda di un’intera palazzina di nove piani scivolava lenta intorno a noi fino alle fogne, da dietro a quella scrivania dove se ne sta lui tutto il giorno, come un oracolo egizio, con tutti quei cartoncini e firme illeggibili da archiviare.
– Non è questo il punto, ha detto Franco – C’è un motivo per cui la gente muore: è per quella roba che ci danno da mangiare, non dico ai Raddi, o in Via Ghibellina, ma ovunque. È perché ci danno della roba che noi neanche riusciamo a immaginare, chi lo sa che ci danno da mangiare davvero. E poi, l’aria, ma che aria si respira? È questo.
Così ha detto Franco e dopo mi ha guardato fisso negli occhi con occhi velati e io avevo quasi gli occhi lucidi mentre tornavo alla mia scrivania al primo piano pensando ancora alle sue parole, mentre i postini scendevano le scale di ritorno dalle loro gite in motorino che fuori pioveva a dirotto e sembrava fossero stati in mare, con i volti stravolti, delle facce bianche e rosse e grondanti d’acqua e il rumore dei piedi nelle scarpe completamente fradice, pensavo alle parole di Franco e quasi mi veniva da dire ai postini: – Bentornati fratelli, riparatevi qui. Adesso è finita, siete salvi, io volevo proteggerli mamma, avrei voluto proteggerli da tutta quella pioggia e dal resto, ma non era possibile, le parole di Franco continuavano a suonarmi in testa: – Ci stanno uccidendo tutti quanti, giorno dopo giorno, c’è un piano, aveva detto Franco.
«I postini con i nomi degli apostoli mi passavano accanto completamente zuppi di pioggia e io riuscivo solo a strizzare gli occhi e a dire banalità del tipo: – Che tempo da lupi! Loro non dicevano niente, scuotevano tuttalpiù la testa, altrimenti neanche quello. Erano esausti per la giornata di lavoro, per tutte quelle ore e acqua che avevano preso, ma riuscivano comunque a provare imbarazzo, capisci mamma, per le cose che dicevo io, per tutte quelle banalità.
Mamma, ma te ci credi al piano?».
Lei ha scosso la testa, con una mano sul termostato, l’altra sul pacchetto di sigarette, e ha detto:
«Comunque da giovedì il tempo dovrebbe migliorare»

(Racconto apparso sul cartaceo di Riot Van #18, 30 Marzo 2015)

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