Del gas o della luce, non ricordo.
Poi tornavo a casa, passando per Ponte Santa Trinita e mi mettevo nella scia di un muratore che aveva finito di lavorare. Il muratore, con i suoi pantaloni sporchi di polvere e calcina, con le sue scarpe a norma anti-infortunistica, con il suo passo veloce, ma stanco al contempo. Si accendeva una sigaretta e ne respiravo le volute di fumo che a lui si accodavano e andavamo così, ad un andatura simile, quasi all’unisono, come se lui fosse uscito adesso dal suo lavoro e andasse a casa, mentre io circa due ore prima dal mio e dopo fossi andato alle poste centrali a pagare una bolletta, del gas o della luce, non importa ai fini del racconto.
Si andava su quel ponte famoso, come all’unisono e doveva esser stato il fumo a farmi interessare a lui, contro i miei 15 mesi di astinenza totale da nicotina; era stato soprattutto il suo modo brusco di urtare una donna asiatica che voleva scattare una fotografia. Lei, ora che ci penso, si era mossa all’indietro sullo strettissimo marciapiede del ponte ed era stata lei, quindi, con quel suo gesto, quel suo non guardare dove metteva i piedi, e non il muratore che andava diritto per la sua strada, la responsabile di quello scontro. Lui non si era scomposto, come forse avrei fatto io, che avrei cercato comprensione negli altri attraversatori del ponte, ma che modi, perfino tornare a casa è diventato paradossale, avrei detto a voce alta, che mi sentissero.
Lui no, aveva urtato la donna che aveva mantenuto la stessa posizione con l’occhio appoggiato all’obiettivo e lui aveva semplicemente continuato il suo percorso come se niente fosse, ma l’urto c’era stato, io l’avevo visto. Lui allora le aveva dato una spinta con la sua forza da manovale e lei, con la sua forza orientale, non si era scomposta. Era stato un momento: si era andati avanti sul ponte, io e il muratore, mentre la donna orientale e ciò che inquadrava il suo obiettivo, un’altra donna orientale e il celebre ponte sulle sfondo, erano rimaste nello stesso punto.
Noi avevamo continuato a camminare fino all’apice del ponte per poi cominciare a discendere, se poi salire e scendere si possa davvero dire, visto il lieve o lievissimo pendio. Così io seguivo il muratore o quello che adesso avevo cominciato ad osservare e riconoscere essere un muratore e non un imbianchino e nemmeno un idraulico e non un restauratore generico né un operaio, ora che sono diventati così rari da vedersi.
Lui camminava su quel ponte blasonato all’ora del crepuscolo ed intorno a noi ci circondavano turisti da tutto il mondo e flash delle loro macchine fotografiche. Io restavo sempre dietro a lui, nella scia del fumo di sigaretta.
Ma ora che ci penso meglio devo dire che forse quella sigaretta e quel fumo non c’erano, nessuna scia da seguire, solo un movimento ciclistico, solo un andare insieme, che non è insieme, ma è solo la stessa direzione a un passo e un’andatura simili per un’altezza simile e un’età simile, e così quel condividere qualcosa, uno spazio, un momento, solo quello. Io pensavo al lavoro, ecco cos’è.
Pensavo a quel mio andare a pagare una bolletta dopo il lavoro e quell’umanità variegata e lontana che avevo incrociato nelle poste centrali. Quell’edificio così bello e noi là accalcati ad attendere come scossi da brividi il rumore e il numero identico a quello che stringevamo in mano, su di un foglietto di carta: che comparisse sul tabellone luminoso. Poi ci sarebbe stato da associare e relazionare quello ad un altro numero, di lato al primo, sempre sul tabellone elettronico, che stava ad indicare il numero dello sportello a cui avremmo dovuto affrettarci, tutti noi, per non rischiare di veder passare il turno e un altro numero sul segnaposto.
Io allora attendevo come sempre si attende, in un’attenzione fluttuante, sempre monitorando con un occhio lo scorrere dei numeri e con l’altro vagando sulla gente intorno, e sopratutto sugli impiegati postali, quei miei colleghi privilegiati, dopo la mia giornata nelle poste private. Li osservavo per vedere me, indubbiamente, un me fortunatissimo, un me molto più in alto nella scala evolutiva del lavoro, con stipendi più alti, con ferie maturate in maniera intellegibile e non ferie associate ad una sigla enigmatica R.P.P. Risposa in pace perenne, forse voleva dire quella sigla sulla busta paga. Così l’argomento di sottofondo era il tema del lavoro e la mia faccia stanca di rimando: la bolletta, il passaggio dei soldi e la faccia stanca dell’impiegato postale, là dietro al banco delle poste, a ricordarmelo.
Io ero infastidito. Avevo localizzato la colpa di tutto nel dover lasciare la casa per alcuni giorni. Perché la proprietaria di casa, mia coetanea, tornava dalla Danimarca e aveva necessità di ospitare la sua insegnante di yoga olandese. O qualcosa del genere. Tutte cazzate, lo avevo capito solo dopo.
Ero sceso per pagare la bolletta e l’avevo vista, con un uomo probabilmente danese che stava là con lei, le valigie, le loro borse di pelle, là davanti alla biblioteca Trovhar, in cui io stavo andando a riportare un cd musicale. Di Bach. Lei era ferma là davanti all’ingresso, con la faccina distesa, il suo sorriso canonico e l’uomo tedesco con la scriminatura e la valigia appoggiata su di una spalla come in una pubblicità. Si erano messi in una posizione decisamente poco attenta all’altro, alle altre persone che avrebbero voluto entrare o uscire nella biblioteca. Stavano sullo stretto marciapiede davanti all’ingresso della biblioteca popolare e parlottavano con altre persone, queste adulte, ben vestite e sorridevano e si parlavano lieti, come quando si ritorna a casa per le vacanze di Natale e c’è ancora luce fuori, e il cielo è sereno. Loro stavano davanti alla porta e io ero passato vicino appiattendomi, come se non fossi io, come se non fosse lei, come se non mi importasse niente in assoluto. Avevo restituito il cd musicale, poi quando ero uscito dalla biblioteca, la padrona di casa, giovane donna insegnante di yoga tornata per Natale e la sua compagnia, loro non c’erano più. Io mi ero allora avviato stancamente verso l’oltre-oltrarno, per pagare la bolletta e restituire un libro ad un’altra biblioteca ancora, il Palagio.
Così l’attesa alle poste e il lavoro di quegli impiegati era un modo per pensare al mio e a quello del muratore, sul Ponte Santa Trinita, a come eravamo brutti noi, con le nostre facce stanche, le nostre poche ore di sonno, i nostri capelli sporchi, il nostro camminare sul ponte come se davvero avesse senso questo andare e lavorare, come se avesse poi qualcosa che conferisse un significato in più, oltre a quell’andare stesso, a quell’attraversare, prima salire e poi discendere, se davvero di pendio si potesse parlare.
Mi domandavo se il muratore avrebbe guardato, per un attimo, di sfuggitissima, verso il ponte più famoso, verso quello che tutti quei turisti stavano guardando e fotografando con le loro macchine più o meno costose. Io lo osservavo impaziente, lievemente impaziente, come se quella cosa, il suo guardare o meno verso il ponte, potesse significare qualcosa in più, qualcosa su di me e sul lavoro in generale, chissà su che cosa. Si andava così, insieme, e io aspettavo che lui si voltasse o non si voltasse a guardare quel ponte al tramonto, che egli riuscisse a rivolgere un pensiero, malgrado la stanchezza e il lavoro, malgrado tutto, rivolgere un pensiero e uno sguardo a quella cosa che potremmo dire bella o bellissima.
L’attesa era riempita da molti pensieri, come spesso accade, quando si attende.
Pensavo al mio tornare a casa da lavoro e cucinare delle patate, prima lessarle, poi risaltarle in padella con della carne avanzata da tre giorni che avevo preso da mia madre. Pensavo a quel pranzo alle tre di pomeriggio dopo il lavoro e dopo quella discussione con il mio datore di lavoro e coetaneo, quel discorso sul rinnovo del contratto, su quel cambio di orario, quel suo discorso tondo, quel suo dirmi le cose, dirmi che il mio orario sarebbe cambiato. Io rispondevo che sarebbe cambiata la vita, questo rispondevo. Era vero, ma forse non era quell’ufficio, il luogo adatto ad una riflessione del genere. Esistenziale. Era il luogo per dire, no, non mi sta bene, litighiamo, ma forse non era possibile dire neanche quello. Io avevo aggiunto che il cambiamento non mi spaventava, citando una qualche scena di un film, ma era pur vero, che dal cambio non ne ero uscito troppo bene. Avrei iniziato a lavorare alle tredici, invece che alle nove di mattina, per poi staccare alle cinque o alle sei, comunque le cose cambiano, tutto cambia, devono cambiare, mi ripetevo. Ma torniamo al muratore.
Il muratore non si era messo a contemplare il ponte in estasi, al termine della sua lunga giornata di lavoro, come era ovvio fin da subito, ma non era ovvio per me. Ora lo è. Lui era stanco e voleva andare a casa sua, come era piuttosto prevedibile. Io lo seguivo, ma avevo notato lo stesso, contro tutto quello che si può pensare, mio padre, il lavoro e la mia padrona di casa e coetanea, che il muratore un po’, uno lievissimo slancio, una rotazione o esitazione, impercettibile, nella direzione del ponte, l’aveva avuta. Si era voltato, era stato un attimo, ma era accaduto.
Questa è una buona notizia per tutti, penso adesso, che ne scrivo in cucina, in questa cucina fredda che lasceremo per alcuni giorni così da permettere alla fantasmatica maestra di yoga della padrona di casa di stare qui, ma io adesso l’ho capito che lei, la padrona e coetanea, starà anche lei qui in questi giorni, che non c’è nessuna maestra di yoga, ma è solo che tutto torna per lei, che tutto torna in quell’ufficio, che tutto deve tornare, che questo è il potere, ovvero la bellezza. Fare come si vuole, che le cose sono complesse, e che va bene così. Sì, siamo tutti uguali, tutti identici e io farei altrettanto, ma non lo si può sapere con sicurezza, perché sono da questa parte qua.
Oggi leggo tutto bianco e nero e penso alla bellezza e al potere come sinonimi, per opposizione ché mi sembra di non averne nessuna, di essere l’anti–tutto–questo e così posso creare una categoria per negazione di ciò che io non sono e non ho. Così tornavo a casa e c’erano la padrona di casa e il suo boyfrend che si scopriva essere romano e non tedesco ed erano solo discorsi a vuoto e poi mi sedevo in cucina con il vecchio Gianchi a scrivere questo mentre lui preparava il suo compito in inglese.
Ci si legge del ressentment, lo vedo, ma vorrei solo diventare forte con questo, imparare a vivere, scrivere una storia. La storia del muratore che torna a casa dopo lavoro, nel giorno in cui a me rinnovarono il contratto con modifica dell’orario. Ringrazia che te l’hanno rinnovato, direbbe qualcuno e direbbe bene. Va così, in questo dicembre del 2013, con un certo freddo diffuso, con la lieve impressione che le cose vadano male, ma che domani andranno decisamente peggio, che la situazione non può migliorare.
Io penserò allora a quel lieve movimento del muratore sul Ponte Santa Trinita, in direzione dell’altro ponte famoso.
19.12.2013