La giornata di lavoro è stata così massacrante che anche il mio gioco a calcetto ne ha risentito.
Non massacrante: offensiva. Per l’intelletto e non solo per il mio, ma per quello umano, per i sogni che uno può fare trovandosi qui o altrove, per quelle che chiamano capacità. Il gioco a calcetto ne ha risentito e si potrebbe quasi dire con lessico calcistico che non sono mai sceso davvero in campo, ma sono rimasto in ufficio ancora oltre l’orario di lavoro, anche oltre l’ulteriore orario di lavoro ulteriore.
Diceva il Cecco a nessuno in particolare – anche lui oggi ha giocato malissimo – che non c’era con la testa, era già pronto a partire con un treno notturno per Vienna, con i soldi in tasca che non dovrà cambiare una volta arrivato, la solitudine, i discorsi ridotti al minimo fino a incontrare Rosa.
Che bel nome pensavo di seguito io, distraendomi sull’ennesimo gol sbagliato dal Cecco, letteralmente mangiato (come sono belli e importanti i nomi).
Neanche io c’ero con la testa, gambe legate, piedi da campionato indiano a otto squadre, tutto era stato chiaro da prima, fin dall’inizio, avrei dovuto capirlo da dieci piccoli indizi che avrei fatto schifo, perché il nostro gioco a calcetto non può che essere metafora di tutto il resto.
Il Cecco lanciato a rete sbagliava l’ennesimo gol e io mi domandavo se il suo viaggio a Vienna sarebbe stato rosa, se sarebbe sbocciato un fiore, o l’opposto. Poi sempre il Cecco a fatica segnava due gol, e io mi chiedevo: due gol, non uno. Cosa vorrà dire questo?
Sfidavo apertamente Thomas il belga, che aveva saputo quel giorno di diventare padre per la seconda volta: non aveva senso sfidare lui che era buono, io sfidavo lui con tunnel sotto le gambe. Per il resto mi nascondevo in campo, avevo paura di tutto, qualsiasi strada mi sembrava impraticabile, infattibile. Facevo uno scatto, quasi un gol, e dopo un attimo dovevo uscire dal campo per vomitare. Certo, dicevo loro, è che ho mangiato dei datteri, e del formaggio, non avrei dovuto, ma ero affamatissimo. Non vomitavo davvero, non vomitavo nulla, era altro quel mio vomito: era lo scatto, il quasi gol, era bile nera e poi dopo questo (niente) io mi sentivo meglio, seppur per nessun motivo particolare e anche il mio gioco ne risultava migliorato. Prendevo coraggio. Cos’era successo?
Erano gli altri, che mi vedevano adesso in una luce diversa, quella di un essere perduto che si vomita addosso. C’entravano in quel discorso anche i miei vestiti da siriano, come una piccola cosa vera, come un albanese sui gommoni dello Spirito, un gommone degli anni novanta pronto a traghettarli tutti loro fuori dal non senso dell’esistenza in virtù di un’opera. Opera certamente ipotetica, ma possibile. Singole parole (queste) scritte nel letto dentro al cono di luce di una lampada, in una porzione di quaderno, quella illuminata, per non disturbare la donna che già mi dormiva accanto.
I nostri calcetti del lunedì, specchio della vita, della decadenza dei corpi, dell’inettitudine umana, della verità del gioco, della sua serietà.
Poi il Cecco andava via con Maurino dagli spogliatoi senza farsi la doccia e noi ci fermavamo là a parlare del suo viaggio, a mangiare un panino e restare ancora qualche momento tutti insieme, oltre il tempo necessario e sufficiente per riuscire a stare insieme davvero, per capirci davvero, per pensare al nostro modo di giocare a calcetto come metafora della vita passata e anche di quella futura.
(La foto è di Valtenio Cecchetti, che ringrazio)