Doriana mi ha raccontato che quando lei rimase incinta suo padre andò a caccia, o da un amico cacciatore, e portò a casa una lepre. Nelle campagne, ancora alla metà degli anni Ottanta, c’era la credenza secondo cui una donna incinta che avesse voglia di lepre avrebbe generato un figlio o una figlia con il labbro leporino, perciò si prendeva una lepre, si cucinava e si dava da mangiare alla donna.
Non so per quale motivo Doriana mi abbia raccontato questa storia, le piace parlarmi mentre pulisce la casa e io l’ascolto, forse il motivo è soltanto questo, nessun significato recondito, o forse c’era un qualche aggancio con la conversazione di cui non serbo memoria, un argomento comune nei nostri discorsi che le ha ricordato della lepre: forse il tema precedente era stato la caccia, forse il tema precedente era stato la gravidanza, o forse semplicemente aveva voglia di dirmelo. Poi sono passate le settimane e io mi sono quasi dimenticato di questa storia.
Le lepri
Andavo dal mio psicologo sotto la pioggia, di maggio, era una seduta pomeridiana. Da poco tempo avevamo inserito una seconda seduta perché avevamo concordato, se poi davvero questo tipo di cosa si possa mai concordare, che da incontri frontali, seduti, sarei passato a sedute non sedute, ma distese. Era arrivato nella mia vita il lettino, avevo da poco compiuto quarant’anni. Andavo quindi a quella seduta pomeridiana, già che per molti anni le sedute erano state sempre e solo mattutine, ma mi aveva spiegato il dottore, Lorenzo, come voleva che lo chiamassi, che con la seconda seduta settimanale avremmo dovuto creare una formale discontinuità con quelle canoniche, quindi di pomeriggio, quindi in una forma distinta dalle solite sedute mattutine in poltrona. Pioveva, era maggio, e io pensavo che anche la strada per andare dallo psicologo fosse parte del setting, era già psicoanalisi, e provavo a pensare cosa avrei mai potuto dire su quel lettino che trovavo tanto scomodo. Pensavo sotto una pioggia battente, ma calda, che forse avrei parlato di quel pomeriggio passato a cucinare del riso basmati per i pranzi settimanali non miei, ma di Diana, se non fosse quella una forma di accudimento, o se invece, visto che nessuno mi aveva chiesto un bel niente in merito a quei pranzi, se non fosse che io avevo proprio bisogno di accudire, di essere vagamente utile, o ancora se non sapessi dove sbattere la testa nel mio giorno libero dal lavoro. Parcheggiavo il motorino in piazza Oberdan, aveva già smesso di piovere e il mio impermeabile in un attimo era già asciutto, come se neanche fosse piovuto. Fumavo una sigaretta, pensando che fosse una sigaretta ben inutile, girando il tabacco nella cartina con le mani ancora umide, quelle sì, e riflettendo che sarebbe venuta male, che sarebbe stata infumabile e poco soddisfacente, ancor meno soddisfacente di quanto era di solito. Anche quei pensieri, pensavo, erano setting psicoanalitici. Forse, mi dicevo, avrei parlato al dottore Lorenzo di quelle cose, o forse davvero di tutt’altro. Era pomeriggio, non ero abituato a vedere quella strada a quell’ora del giorno, e sebbene già da oltre due anni ci andassi ogni settimana, mi sembrò di andarci per la prima volta. E notai, come i numeri civici passassero dal numero 21 al 17, dove si trovava lo studio del dottore. Mi chiesi cosa fosse successo e dove fosse sparito il numero 19. Forse era lì che ero veramente diretto? Erano pensieri assurdi, che lasciavo fluire come fossi già sul lettino, dove in verità i pensieri fluivano, ma in modo tutto diverso. Poi suonai il campanello, salii le scale e mi dimenticai immediatamente di tutte quelle cose.
Il lettino e cosa succedeva sul lettino non sono in grado di raccontarlo. So che non mi agevolava nello scrivere. Quello sembrava un dato. Da quando ero andato là non scrivevo più una riga, come se tutte le parole confluissero in quella stanza, si aprissero a me e al mio invisibile ascoltatore solo là dentro. Era stata una giornata piovosa, questo disse Lorenzo, per inserire qualcosa e interrompere il mio silenzio, che sarebbe potuto durare tutto il tempo della seduta. E così raccontai di quella mattina, della pioggia, della seduta di yoga a Caldine, nella valle del Mugnone, e di come piovesse rumorosamente sul tetto della palestra. Ero dispiaciuto perché durante la lezione, sì, ero sicuro, avessi avuto finalmente un’idea per un racconto, ma che una volta finita la classe tenuta da mio padre io mi fossi dimenticato quale fosse quell’idea.
Eppure mi sembrava così buona, era come se improvvisamente durante la lezione due punti separati si fossero uniti tra loro, avessero superato una distanza enorme e si fossero toccati. Era così, dissi a Lorenzo, che nascevano i racconti.
Rimasi in silenzio, e lui anche. Aveva ricominciato a piovere e io fissavo un quadro dipinto a matita, con una strana caffettiera vagamente umana, con di fronte una vespa 50 special, anch’essa umana. E poi di punto in bianco ricordai, e parlai. Era stata la posizione che ci aveva fatto fare mio padre, una posizione che di rado veniva fatta in altre palestre di yoga forse perché poco interessante, chissà poi perché, una posizione che mio padre disse chiamarsi della lepre. Si stava accucciati, con le braccia stese e lo sguardo in avanti. Una posizione apparentemente rilassata, ma che, come ci spiegò lui, concentrava nelle gambe una grande carica energetica, come in effetti faceva l’animale. E ricordai allora anche il secondo punto. Di come una volta, quando ero bambino, la maestra ci portò in un bosco lì vicino. Era un bosco circoscritto da una collina, circondato da prati, un piccolo bosco e del gioco che avevamo fatto, di non essere più bambini, ma lepri. Forse, dissi a Lorenzo, la maestra ci aveva fatto leggere una pagina di quel romanzo, La collina dei conigli, o forse mi confondo, sono passati più di trent’anni. Quel bosco di noi bambini-lepri era là, vicino alla piccola scuola di yoga dove mio padre insegnava e dove da qualche tempo avevo preso ad andare, ogni lunedì, nel mio giorno libero. La posizione della lepre e io bambino nel gioco della lepre, ecco qui i due punti del racconto.
Mi piaceva essere una lepre, aggiunsi a Lorenzo, mi era piaciuto davvero tanto ed era un ricordo felice, di quelle corse, di quel rincorrersi, acciuffarsi e di nuovo lasciarsi andare nella penombra del sottobosco.
Perché, chiese allora lo psicologo, era preferibile essere una lepre piuttosto che un bambino?
Di nuovo non sapevo cosa rispondere. Pensavo a quella sensazione di bosco e di corse e di silenzio, di stare nascosti, quasi rilassati e poi scattare, in sù e in giù per quel piccolo bosco sicuro. Risposi con una battuta, o quella che mi sembrò una battuta. Le relazioni tra lepri sono più semplici delle relazioni tra persone. Questo dissi e poi proseguì il solito lungo silenzio che aveva luogo in quella stanza, davanti al quadro della macchina da caffè e della vespa.
Sono così difficili per lei le relazioni, Simone? chiese ancora Lorenzo, e io capii che a quella domanda non avrei proprio risposto un bel nulla, che solo il silenzio e la macchina del caffè e la vespa avrebbero riempito i miei pensieri.
Ero vagamente contento, o forse no, terrorizzato o imbarazzato uscendo dalla stanza, a giovedì, sì a giovedì, la rapida stretta di mano, quasi senza incrociare gli sguardi, come se qualcosa fosse successo, ma di cui io non avevo registrato il peso o la portata. Pioveva ancora, ma poco,e pensai che avevo ritrovato il mio racconto, il numero civico 19, e lo collegai, nella strada verso casa, ad altre cose ancora: le pappardelle alla lepre non mangiate il giorno prima al ristorante di Artimino, la mia maestra di scuola, ormai vecchia, che avevo ritrovato a lezione di yoga da mio padre, il racconto di Doriana di qualche settimana o mese prima, e in un modo del tutto incomprensibile mi sembrò che le cose no, non tornassero affatto, ma che esistevano.
5.5.2025
