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Hot Hot Yoga

per Matthew Licht

La palestra aveva da poche settimane cambiato nome. L’insegna “Bikram” era stata sostituita da un più generico “Hot yoga”, ma per il resto non era cambiato niente.
Avevamo letto dello scandalo del Guru sui giornali on-line e sulle riviste di settore, le sue accuse di manipolazioni e violenze sessuali, ma alla nostra palestra tutti avevano fatto finta di nulla. Un giorno semplicemente avevamo visto due operai su una scala e quando la lezione era finita c’era il vecchio cartello con la scritta verde acido abbandonato ai lati di un cassonetto. Pensai per un attimo anche di prenderlo e portarlo a casa, come souvenir, ma poi lasciai perdere perché sarebbe stato scomodo percorrere cinque isolati con quel cartello in mano. La lezione di quel giorno non presentava particolari differenze da moltissime altre lezioni che avevo seguito negli ultimi due anni. Malgrado la giornata fosse caldissima, all’interno della sala i riscaldamenti erano accesi intorno ai quaranta gradi centigradi e per quanto riguardava il tasso di umidità, quello non avrei saputo dirlo, ma sulle pareti e sugli specchi c’era un denso strato di condensa. O almeno io speravo fosse condensa, e non sudore e tossine espulse dai corpi delle persone.
A me piaceva bikram, non lui come persona, ma praticare hot yoga, perché era vero che dopo le prime volte, anzi dopo le prime settimane, o più onestamente dopo i primi mesi, in cui credevo che mi sarebbe semplicemente esploso il cuore, dopo ti abituavi e il calore aiutava il mio vecchio corpo a piegarsi incredibilmente. C’erano poi altri motivi di interesse in quella palestra. Pochi uomini, e molte donne, per lo più belle, di cui l’indubbia regina era la maestra, Guendalin, una donna sui sessanta che era la copia esatta di Jane Fonda. A volte a lezione arrivava qualche nuovo studente, ma durava poco, perché l’insegnante Guendalin, con il suo microfono attaccato all’orecchio, da sopra una piccola pedana rialzata, era terribile, e quasi nessuno tornava più. Per essere esatti, quasi nessuno dei nuovi terminava la lezione, perché lei, Guendalin, li stroncava prima. Chi aveva dei capogiri, chi sveniva, chi aveva bisogno di uscire per vomitare in un bidone. Noi, che eravamo rimasti, ci sentivamo speciali. Guendalin ormai ci conosceva, sapeva per ciascuno quanto e come poteva torturarci. Che ci fosse in lei qualcosa di sadico? Era evidente, ma cosa l’avesse portata a diventare così, quello non lo sapevamo. Certamente la vita doveva essere stata con lei molto dura. Le lezioni di hot yoga erano tutte uguali, ma tutte diverse, perché Guendalin spingeva sempre un po’ più in alto l’asticella della sopportazione, gridandoci ingiurie dalla sua pedana, su quanto facevamo schifo e come lo yoga fosse una metafora della vità e del nostro fallimento. Perché andavamo là ogni giorno? Difficile capire ciascun di noi cosa dovesse espiare. A me piaceva vedere i corpi cotti dal caldo, madidi di sudore, gli asciugamani accanto e sopra ai tappetini che a poco a poco si impregnavano di sudore, e poi quelle arie esauste e prosciugate sui nostri volti martirologi, per un attimo in pace, quando la lezione era finita.
Quel giorno d’estate camminare per strada era impossibile, ma nessuno camminava mai in quella città, e tutte le auto erano parcheggiate a raggiera intorno alla palestra. Io sperai che Guendalin avesse deciso di tenere il riscaldamento spento. Era semplicemente innecessario. E invece no, come al solito era al massimo e solo entrare nella stanza sigillata dello yoga creava una specie di svenimento. Mi tolsi la fede dal dito, come facevo ogni giorno, perché mi bloccava la circolazione, e poi aspettai che la lezione iniziasse. Fu la solita lezione pazza di Guendalin, le sua urla, i suoi brevi ed inconsistenti contentini quando qualcuno di noi si sforzava oltre il limite e poi rimaneva per un attimo boccheggiante, abbacinato di essere riuscito a non morire, anche per quella volta. Ma poi ci fu il fatto. Come ho detto, ero solito appoggiare il mio anello accanto al tappetino da yoga, ma quel giorno, quando andai per rimetterlo, alla fine della lezione, la fede non c’era più. Mi guardai intorno, se per caso l’avessi spinta inavvertitamente sotto al tappetino, ma non c’era traccia. Chiesi a quelle e quelli che stavano attorno e che lentamente riponevano i loro asciugamani bagnati. Nulla. Andai anche a chiedere a quelli dal lato opposto della stanza, ma senza risultato. Era un problema. Già in passato avevo rischiato di perdere la fede, e sapevo che mia moglie Rachel non avrebbe apprezzato, anzi, conoscendo il suo livello di mentalismo, lo avrebbe interpretato come una metafora, come un simbolo della nostra crisi. Cercai e cercai, mentre già tutti uscivano dalla stanza del calore e andavano lentamente verso gli spogliatoi. Li seguii dunque, in quello maschile dove esausti alcuni yogini sedevano su una panca, e aspettai che entrassero in doccia per rovistare tra le loro cose, e successivamente nello spogliatoio femminile, dove attuai una strategia diversa, cioè implorai e piansi e dissi che ero rovinato se non saltava fuori quella fede. Ma neanche là trovai il mio anello. Tornai sconsolato in palestra, quando tutti furono andati via. E la vidi.
Guendalin, nella posizione del tavolino, completamente nuda, eccezion fatta per il solito microfono all’orecchio, e il mio anello incastonato nel suo ano.
Guendalin, dissi, che stai facendo con la mia fede nel culo?
Lei mi guardò e disse, con quel suo tono risoluto che aveva a lezione: La tua fede è qui. Per riaverla c’è qualcosa che dovrai fare. Dovrai penetrarmi, e il tuo cazzo dovrà passare tramite l’anello.
E’ impossibile Guendalin, piagnucolai, come facevo a lezione quando mi chiedeva di fare ancora uno squat, il mio pene non può entrare in quell’anello e da lì nel tuo culo. Non ci passa, è troppo stretto. 
Mi venne in mente per un attimo una delle scene finali dell’Odissea, in cui Ulisse deve lanciare una freccia attraverso a sette lance (o forse erano di più) e solo così avrebbe sconfitto i proci e riavuto Penelope, ma fu un pensiero assurdo, inopportuno e durò un attimo. 

Vieni, vieni qui, ripeté Guendalin, sono certa che puoi farlo.
Ma come Guendalin? Come?
Si tratta solo di essere un po’ flessibili. E ricorda del calore. Il calore, come sai bene, serve proprio a questo.  

5.6.2024, lettura a Stanza251, via del drago d’oro Firenze

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