A bordo piscina la lettura del libro di Murakami è ostruita dai discorsi rancorosi di un tipo che avrà più o meno la mia età.
«Che età avranno secondo te?», ho chiesto a bassa voce a Diana.
«Uno faceva un qualche discorso generazionale, o mi sbaglio? Avranno trent’anni, anche se sembravano piuttosto trentasei».
Comunque entrambi con le gambe depilate, per capire il genere. Non che ci sia nulla di male, e in generale la depilazione è qualcosa come tante altre, magari se la metti in rapporto con il rubare o con la raccolta differenziata, vedi da te che è più importante che un uomo eviti questo o faccia quest’altro, e magari quei due, intendo i due a bordo piscina con gambe depilate erano dei grandissimi raccoglitori di differenziata quindi va da sé che certi discorsi che vorrebbero liquidarli solo perché amano avere le gambe lisce non reggono più.
«Oppure, potrebbero anche essere dei ciclisti», dico a Diana come a giustificarli, ma sono il primo a negare mentalmente quella possibilità perché non hanno assolutamente i fisici da ciclisti, ma solo i classici tamarri. Comunque Diana sembra riuscire a concentrarsi sul suo libro alla diciottesima ristampa (Elena Ferrante), «Che ne dici, quante copie faranno per tiratura?», mi domanda. «Quarantamila?» «Quanto fa quarantamila euro per diciotto?» «Sono un sacco di soldi». Insomma lei va avanti nella lettura, mentre io mi infrango nei discorsi dei due e mi perdo dappertutto il rassicurante tono di Murakami.
Il tipo depilato racconta di come sta male, di come la fidanzata l’ha lasciato, che una settimana fa era tutta su un piano: non mi fai più sentire donna, la settimana dopo era passata al tono: non è colpa tua, dipende da me, quando invece solo due settimane prima ventilava ancora la soluzione finale: un bambino.
Comunque quello che più mi interessa nella narrazione, oltre ad un uso di termini come sentimento, sentimenti al plurale, emozione, emozioni, al plurale che io non credevo lui fosse il tipo, «E non si dica», interrompe con questa frase il flusso dei miei pensieri, «e non si dica che io le proponevo una vita piatta, cioè l’amore, sì l’amore, te lo sai cos’è?» (Chiede all’amico che rimane silenzioso). Risposta: «Stiamo insieme, scopiamo, ti porto a cena fuori, no, la vita piatta non te la farò conoscere, ma la vita, la vita questa è».
Ci sono altre cose oltre che io e l’amico del tipo ascoltiamo, annuendo lui, annotando io mentalmente, altre cose che andrebbero ricordate come ad esempio la questione case/mutui e roba presa dal padre e dal nonno per poi vedersela fregare da sotto il naso da lei, oppure la questione di un altro uomo che forse si aggira nell’ombra. «C’è un altro, o per lo meno lei ha detto l’altra sera: Magari esco fuori e mi trovo un fidanzato con la Ferrari. E io le ho risposto (lui): magari mi vendo la casa e ti vengo a prendere io con la Ferrari». Salvo poi abbiamo pensato probabilmente sia io che l’amico del tipo: e dove andate a dormire poi la sera? Dove la parcheggiate la macchina? Comunque di tutte queste cose secondarie, ciò che restava nell’aria era solo l’amarezza e una certa rabbia che è comune a tutti i lasciati del mondo, una cecità di fronte alle specifiche, l’incapacità di cogliere quanto di quello che dicono in quel momento sia una posa dovuta a un ruolo, e quanto una tristezza per le cose che finiscono. Io ancora cercando di entrare nei paragrafi del mio libro giapponese, ho però iniziato a disinteressarmi del tutto a lui, all’abbandonato e alla sua tiritera, per concentrarmi sull’amico: il petto depilato e i tatuaggi delle rondini e carpe, i capelli biondi mesciati e vagamente crespi, di come in fondo egli fosse sì a tutti gli effetti un ottima spalla su cui sfogarsi, ma che forse lo fosse anche troppo. Che i suoi silenzi non erano in verità silenzi di assenso, e non era nemmeno che ad un certo punto si era distratto e pensava ad altro, magari a come la depilazione sulle gambe e sul petto avesse, a contatto con l’acqua della piscina, irritatogli i minuscoli bulbi piliferi fino a renderli rossi e quasi sanguinanti, no. Non era neanche che si era stufato perché l’amico andava avanti con gli stessi discorsi da ore. Era altro. Lui in verità sorrideva. Di tanto in tanto, senza farsi vedere. Non era contento del dolore altrui, non arrivava tanto in là, non si trattava di cattiveria o di una rivincita, ma era invece sinceramente contento per sé, ora ne sono quasi sicuro, il sorrisetto e in particolare il silenzio volevano dire: Cinzia alla fine ha deciso, è mia.