Scrittori Precari, Spagna (2009-2011)

La coerenza

Si tornava dal Poetto in autobus, senza regolare titolo di viaggio, ed era estate. Quasi trentenni, quasi finita l’università e quasi in partenza, alla fine di quella stessa estate, per destinazioni improbabili e possibili o inutili. Da fuori: un gruppo di quasi trentenni, con almeno tre accenti diversi tra loro, su di un autobus che va dalla spiaggia alla città, che parlano di mostre di Morandi a cui non sono andati e della morte recente della moglie di Christo, che si parlano addosso e non dicono niente e poi si fanno silenziosi e cupi e guardano fuori dal finestrino e si soffermano a osservare a lungo, senza fiatare, un loro quasi coetaneo, disabile, vestito da bambino, tenuto per mano dal padre, o da quello che si augurano essere il padre. I vestiti di noi che guardiamo il disabile, invece, sono lievemente pensati, sottilmente particolari, senza cercare eccessi o espressionismi, con lo stile autoreferenziale canonico dei primi anni Dieci. Da dentro (in breve): gente incoerente. Incoerenti non tanto (e non solo) per l’assenza di biglietto dell’autobus, visto l’evidente status di-ciò-che-in-altri-tempi-si-sarebbe-detto-borghese. L’assenza di biglietto non era certo una rivolta (rivolta con la R maiuscola) contro il sistema (con la S maiuscola), quanto poca chiarezza circa noi stessi e i nostri quasi trenta, o forse pigrizia, o forse nemmeno questo: l’autobus si avvicinava e noi avevamo corso e raggiunto la fermata di fronte all’ospedale; forse era l’abitudine a non voler fare il biglietto per la nostra (dimenticata) Rivolta contro il Sistema, o forse altro ancora. Un gruppo di gente incoerente su di un autobus, senza biglietto per motivi non specificati. Incoerente Leòn, che sarebbe partito venerdì per il Nepal a fare trekking per settimane, fino a raggiungere un lago tra i ghiacciai del Nanga Parbat, e il suo posto al sole, nel nostro immaginario, evidentemente incoerente nel suo essere Occidentale di fronte (e non più dietro uno schermo) all’umana sofferenza del mondo intero, dei nostri soldi generati dalla loro miseria, del nostro essere tutti dei colonizzatori ancora oggi, e Leòn nello specifico, con i suoi rayban blu elettrici. Incoerente Abraxas, coi suoi sogni Sud/Centro-Americani e il suo trasloco recente da Roma (lasciare qualcosa, qualsiasi cosa, è sempre la conferma di un fallimento) e il suo scuro scrutare, sacrificabile per un po’ di normalità e di equilibrio di nome Camilla. Si dirà: temporaneo sacrificio, ma del resto il tempo è condizione di possibilità del nostro starci, su quell’autobus. E Camilla, altrettanto incoerente, con le sue contorte dinamiche di esclusione (doppio legame, avrebbe detto lei, parlando d’altro) e i suoi chili di acutezza e lucidità a compensare (ma compensare che?). Incoerenti Claudia e Nicola, che quando li conobbi, anni prima, a un corso universitario che non ricordo, paragonai a una coppia alla Fitzgerald, in Tenera è la Notte, che sognai perfetti e felici e invece niente: anche loro compromesso e farsi male, il male che sanno farsi così bene le coppie. E infine io, più incoerente di loro, per il mio essere da ‘dentro il da dentro’, per così dire, della storia, o forse no, è il mio narcisismo ingiustificabile che mi fa sentire più incoerente di loro. Pensavo: “Vi odio, voi tutti in questo autobus. Ma ho bisogno di voi, lo so bene, anche se mi dico il contrario: che siete voi ad aver bisogno di me”. Inutile dilungarmi troppo: non succedeva niente. Le accuse di incoerenza che emersero in quell’autobus scivolavano in quei giorni di agosto, mentre giocavamo a scacchi al Poetto, in uno dei bagni abusivi (che del resto erano tutti abusivi) che a Camilla, con i suoi parametri berlinesi, sembrava un mondo fuori dal mondo (e forse lo era). La guardavo da dietro gli occhiali da sole modello Battaglia-di-Algeri e le rispondevo, anche se non c’era nessuna domanda, semplicemente: Sud. Le dicevo “Sud” e lei forse non capiva, non pensava che quella sola parola fosse la replica alla sua riflessione sul Poetto in senso ampio e l’Ara Macao in senso stretto. Riflessione (la sua) che io del resto avevo ascoltato distrattamente. Si giocava a scacchi sotto gli ombrelloni di palme ormai secche da anni dell’Ara Macao che Gianni, vista e considerata la sua scarsa propensione a lavorare e a fare qualsiasi cosa, tipo il caffè, e quindi figuriamoci a riparare gli ombrelloni, non avrebbe riparato mai. Sud. A ottobre del resto il Poetto sarebbe stato demolito per sempre e poi rimontato a norme UE. La manutenzione era inutile (anche se Gianni non avrebbe mosso un dito comunque) come innaffiare le piante di una casa che lascerai, a Roma, a Siviglia, o dovunque. E forse io e Leon eravamo come alfieri opposti in questa storia dove non succede niente, questa storia di gente che torna dal mare, con Abraxas (o forse io, non ricordo neanche più) che fischiettava i Love Boat. I nostri discorsi erano autoreferenziali e inutili da trascrivere. Uscivamo dall’egolatrìa solo quando si parlava male di un assente, ma non è anche questo un modo indiretto per affermare se stessi? Incoerenza? Incoerenze. Leggevamo Bolaño, Wallace, Izzo e poi buttavamo tutto nelle sacche da mare ikeiche con gli asciugamani e i costumi bagnati. Si andava a bere lo Spritz (senza ghiaccio, raccomandava Cami per definire il suo essere mitteleuropea) alla Marina e si incontrava ai tavolini del Savoia un’altra coppia ancora, Boris e Chiara: lei fumava la sigaretta numero 2666 della giornata (ma solo metà, non ne finiva mai nessuna) e parlava male di qualsiasi cosa; tremavo al pensiero che il suo sguardo folle e il suo sorriso folle si fissassero più di un secondo su di me e tirasse fuori l’argomento incombente, la nostra incoerenza, che io tra i denti chiamavo Dominio-della-Ragione. Qualcuno allora fischiettava i Love Boat, ma ironicamente, nel modo in cui qualcuno fischietterebbe Amy Winehouse, Hello, hello, hello, il giorno dopo il giorno della sua morte (sua di lei). Si fischiettava con quello spirito lì. Si andava a sentirli suonare, i Love Boat, la sera, al Poetto o in case in campagna di gente probabilmente incoerente visto che facevano lavori concettuali e sembravano puri e organizzavano concerti nel patio di casa loro dove potevi entrare a pisciare, ma solo se eri donna (la purezza dell’essere). Il concerto dei Love Boat: i Love Boat, le navi dell’amore. Li rifiutavamo ma andavamo a sentirli, alcuni di noi li ascoltavano suonare dalle retrovie, altri ballavano persino, ma comunque li rifiutavamo tutti e anche loro stessi (i Love Boat) si auto-rifiutavano, dovevano autoaccusarsi indirettamente o direttamente (questo io lo ignoravo, però preferivo immaginare che fossero spietati contro loro stessi e non delle capre auto-compiaciute, come in realtà dovevano essere) di incoerenza per quella sola canzone che quattro anni prima uno dei tre della band, in un momento di grazia, aveva scritto e che aveva cambiato le loro vite e li aveva trascinati per anni sulla bocca e negli sguardi e nei fischi dei cagliaritani quasi trentenni e certamente incoerenti. Il concerto iniziava, suonavano alcuni pezzi che citavano o auto-citavano il loro pezzo della “svolta” e la gente ballava, si spingeva, si sollevava, si schizzava con le birre Ichnusa e poi d’un tratto quell’attacco: l’attacco di quella canzone che li aveva proiettati negli sguardi e nei tour di tutta Europa e aveva permesso loro di scopare e di fidanzarsi e di lasciarsi e di drogarsi più di noi. L’attacco di quella canzone, un riff di chitarra elettrica che doveva essere stato strimpellato in un giorno di estasi in una cameretta pulita da una madre sarda, da uno dei tre, quelle poche semplici note che una volta scritte su di un foglietto avevano cambiato i destini di tre persone e che, anche quella sera, quando attaccavano, mi faceva sorridere riconoscerle immediatamente, e tutti le riconoscevamo immediatamente e tornavamo a ululare alla luna, eravamo di nuovo una comunità, ancora. Cominciata la canzone che tutti, in quel cortile disegnato da quegli architetti illuminati del cazzo, segretamente aspettavamo, io guardavo il Professore nelle retrovie, e il Professore guardava me, e sorridevamo pensando a questo, che ora trascrivo, ma che trascriverebbe lui se non fosse in Sicilia in questo momento a fare qualcosa per cui noi tutti lo stimiamo, e approviamo pur vedendone l’incoerenza. La canzone che aveva cambiato le sorti dei Love Boat poi finiva, finiva in fretta, e la gente pensava distrattamente che magari alla fine avrebbero potuto fare un bis. La gente provava a pensare a niente, se ballava, o, se come me non ballava, a come tutti in queste situazioni non avessero nessun luogo dove andare, eppure tutti sembrassero, o anzi volessero mostrarsi come direzionati verso un qualche luogo: a comprare la birra Ichnusa o la maglietta del gruppo inascoltabile che aveva suonato prima, gli InZaire, giusto perché la maglietta con la tigre era figa e il concetto di ‘inascoltabile’ doveva essere relazionato con chi aveva suonato dopo (i Love Boat, appunto) e quindi gli InZaire erano salvi. Sugli autobus senza biglietto facevo pensieri incoerenti, per non pensare all’ipotetico confronto con l’autorità genitoriale simbolizzata dal controllore dell’autobus che non sarebbe mai arrivato e che prima di sgamare noi avrebbe dovuto multare trenta senegalesi di una coerenza che saltava all’occhio. Una coerenza che quasi lampeggiava, che quasi ce ne stavamo per accorgere.

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